![]() Mentre mi crogiolavo al sole e percorrevo facili chilometri in Crimea, ricevetti la notizia che ero stato convocato per la prima squadra della nazionale. Tre settimane più tardi avrei pedalato a fianco dei giganti del ciclismo sovietico. Questo era il gradino più alto della scala, non si poteva raggiungere nessuna vetta più alta, ero in cima. Solo un anno fa ero seduto alla riunione della Titan e ascoltavo Yuri Elizarov parlare del suo piano per la medaglia d'oro. La porta verso la nazionale élite e le Olimpiadi del 1988. Ed eccomi qui, all'Hotel Primorskaya, a parlare con una receptionist e spiegarle il motivo del mio soggiorno. “Oh,” disse sorridendo, “tu devi essere uno dei ragazzi di Viktor Arsentyevich. Vediamo in che stanza sei.” Mi consegnò le chiavi della mia stanza e aggiunse: “Meglio che tu corra al ristorante, la colazione è già iniziata. Viktor Arsentyevich è una persona molto puntuale.” Viktor Kapitonov, o Viktor Arsentyevich per coloro il cui solo nome di battesimo non dica nulla, è stato uno dei grandi dello sport sovietico e una leggenda del ciclismo. Il dramma e il trionfo della corsa olimpica del 1960 diede inizio al dominio dell'Unione Sovietica tra i dilettanti. La gente parlava dell'era pre e post-Kapitonov, di quello che abbiamo fatto e di come abbiamo fatto le cose prima e dopo Roma. Ha scritto il primo libro che abbia mai letto sul ciclismo in cui raccontava la sua vittoria olimpica. Pedalando nelle colline nel Caucaso settentrionale, dove sono cresciuto, mi piaceva immaginarmi mentre correvo quella gara. Scivolare nei panni di Kapitonov e sognare ad occhi aperti di affrontare Livio Trapè tra le mura dei boati dei tifosi [in italiano anche nella versione originale, NdT]. Avrei trovato il modo di sconfiggere il nemico perché conoscevo ogni dettaglio di quella gara. Qual era il piano, come tutto fosse andato storto. Come gli Italiani avessero annientato tutti. Come Kapitonov portò Trapè sulla linea del traguardo, fece un errore e sprintò per la volata con un giro di anticipo. Come Trapè attaccò a sua volta quando vide quanto idiota fosse Kapitonov. L'inseguimento, l'aggancio, il secondo sprint, quello vero, quello che contava, e poi la vittoria. Il monumento e l'orgoglio del mio sport, del mio Paese e del nostro sistema. A ripensarla decine di volte, quella gara ha smesso di essere reale e si è trasformata in un film visto al cinema. L'eroe, sapevo che era reale, era da qualche parte, ma la possibilità di incontrarlo, per non parlare di lavorare con lui, era nulla. Si ritirò nel 1965 e prese il controllo della nazionale facendo diventare l'Unione Sovietica la nazione più importante del ciclismo. Il suo palmares: tre medaglie d'oro olimpiche nella cronometro a squadre dal 1972 al 1980. Tra campionati del mondo e giochi olimpici, la cento chilometri a squadre divenne il marchio di fabbrica dei sovietici. A partire dalla metà degli anni settanta e fino agli anni ottanta, gli uomini in maglia rossa CCCP dominarono anche la Corsa della Pace. Guardare in televisione quattro di loro che andavano in fuga nel 1984 per suggellare la seconda vittoria di Sergey Soukhorouchenkov fu un'emozione indimenticabile. Quando entrai nel ristorante del Primorskaya quella mattina, varcai la soglia di una stanza affollata dai più grandi corridori dell'epoca. Due campioni olimpici e cinque del mondo, ragazzi che avevo visto in TV o di cui avevo letto sui giornali. La porta di legno si aprì su di una sala con il soffitto alto dalle pareti bianche, illuminata da finestre alte come un uomo. La tovaglia bianca ricamata che arrivava fino al pavimento pendeva dai tavoli. I ciclisti sedevano a due o tre a tavola sul lato opposto della stanza chiacchierando mentre erano intenti a mangiare dal loro piatto. Non c'era nessun altro nel ristorante. Quando la squadra nazionale era a tavola gli altri clienti non potevano mangiare al Primorskaya. Mi bloccai e passai in rassegna i tavoli in cerca di uno vuoto a cui sedermi. Alcuni ragazzi mi guardarono mentre continuavano a parlare e a masticare. Due o tre mi guardavano con lo sguardo che diceva “chi-è-questo-buffone”. Gli sguardi bruciarono la mia pelle e i miei occhi saltarono da un volto all'altro, alla fine della stanza, al pavimento e alle finestre. Qualcuno mi stava guardando. Il volto mi era familiare dalle trasmissioni sulla Corsa della Pace: Yuri Kashirin, un campione olimpico e mondiale. Annuì con il mento rivolto verso il tavolo a cui era seduto con un tipo che non avevo mai visto prima. Mi sono diretto verso il suo tavolo e mi sono impossessato immediatamente di una sedia. “Yura”, si presentò e mi porse la mano. “Kolya”, mi presentai a mia volta, gli strinsi la mano e guardai l'altro tizio per sapere come si chiamasse “Quanti anni hai, figliolo? “disse. “Diciotto.” Si rivolse a Kashirin e disse: “È legale?” “Legale cosa?” Kashirin chiese. “Portare bambini diciottenni in nazionale.” “Sono sicuro che compirà 19 anni l'anno prossimo, giusto?” Disse Kashirin osservandomi. “È questo il piano”, dissi. “Di che squadra sei?” disse l'altro. “Titan.” “Vi cucinano a decine in Ucraina, vero?” mi chiese. “Non sono ucraino. Vengo dal Caucaso settentrionale”, fu la mia risposta. “Caucaso settentrionale? Dove esattamente nel Caucaso settentrionale?” “Nalchik.” “Naaalchik? Conosci Peter Trumheller?” “É il mio direttore sportivo. Beh, lo era. È stato il mio primo direttore sportivo.” “Come sei finito in Ucraina?” “La Titan mi ha offerto un passaggio.” “Pensavo che tutti i ragazzini russi andassero alla Kuybyshev al giorno d'oggi.” “Non io.” “Perché?” “Trumheller mi ha detto di andare alla Titan, ci sono andato.” Si versò una tazza di caffè nero da una caffettiera in acciaio inossidabile e si distese sulla sedia a fissare fuori dalla finestra il Mar Nero. Kashirin richiamò l'attenzione di un cameriere. “Questo giovanotto, “disse e mi indicò,” ha bisogno della colazione. Era in ritardo.” Senza aver bisogno di sapere altro, il cameriere si girò e si affrettò a portarmi la colazione. “Io e Volodya Malakhov veniamo da Rostov”, disse Kashirin. “Quasi vicini”, aggiunge. A più di trecento chilometri da Nalchik, Rostov era geograficamente nel Caucaso settentrionale, la più grande città della regione. Vicini sì, sono stato a Rostov e da quello che ho visto, non vorrei passarvi più di un'ora, troppo sporca e piena di fabbriche. Allora, questo è Vladimir Malakhov, il velocista di punta e un campione nazionale su strada. “Abbiamo avuto alcuni ucraini negli ultimi due anni”, ha detto Kashirin. “Volodya non è molto entusiasta dell'idea.” Volse lo sguardo verso Malakhov, sorrise e disse: “Perché non ti piacciono gli ucraini, nazista?” “Io nazista? Non sono io a ingoiare anabolizzanti tutto il giorno.” “Ingoiare cosa?” Gli chiesi. Sapevo cosa fossero gli anabolizzanti. Ormai il segreto era di dominio pubblico. Chiunque volesse fare due più due sapeva di cosa fossero piene le nuotatrici della Germania Est. Assomigliavano più a delle foche che a degli esseri umani, avevano perso le ultime tracce di femminilità anche nei loro volti. Erano una truffa e tutti lo sapevano. Ma il ciclismo? La voce che circolava: gli anabolizzanti rimpiccioliscono i piselli e rendono gli uomini impotenti. Era tutto quello che sapevo sugli anabolizzanti e ora sembrava che ci fosse qualcosa più di quanto pensassi. “Che vuol dire ‘ingoiare anabolizzanti tutto il giorno’?” Chiesi dopo che aveva ignorato la mia domanda. “Ho sentito vi ingozzate di anabolizzanti a palate in Ucraina”, disse. Il “voi“ che usò era in una forma generica che non si riferiva a nessuno in particolare. Abbandonai la diplomazia e chiesi, usando il “noi” che includeva anche me personalmente: “E perché dovremmo prendere gli anabolizzanti?” “Per strizzare un qualcosa in più dalle gambe?” “Non si ingrassa in questo modo?”. “Se ti comporti bene, un giorno ti dirò cosa può fare un chilo o due di massa magra alla tua prestazione. Anche in salita. Nel frattempo, fai colazione, stai zitto e assicurati di essere al tuo meglio ogni giorno, se vuoi sopravvivere qui.” Colsi il velato suggerimento e mi tenni fuori dai piedi di Malakhov che d’ora in poi avrebbe sempre avuto una lezione di vita per me o un'intuizione brillante da offrirmi. “Perché in un ritiro invernale pedalavo con un pacco con il 24 finale invece che con il 27?”. Beh, mi ero risposto tra me e me, perché non me ne frega niente. Era la prima ruota che avevo preso dal mucchio, non siamo in gara. “Hai messo troppo zucchero nel caffè”, mi disse una mattina a colazione. “Ti rovina i denti e ti fa il culo pesante come un camion.” Mi stupiva quanto immacolata fosse la sua divisa, anche dopo diversi giorni di pioggia in bici. Non avevamo lavatrici negli hotel in cui soggiornavamo e dovevamo lavare le nostre divise a mano nella vasca da bagno o nel lavandino. Quando pioveva spesso mi dava fastidio fare il bucato ogni giorno. Da maestro di scorciatoie, asciugavo superficialmente la divisa al sole, scuotevo via la sabbia e ci pedalavo di nuovo. Malakhov invece si presentava con una divisa pulita, immacolato ogni volta, non importa quanto fosse stato brutto il tempo il giorno prima: la classe. Avrei gareggiato con il piumino, se Malakhov ne avesse indossato uno. Un berretto sopra il casco o sotto? Guarda Malakhov. Manicotti su o giù? Guarda Malakhov. Mi diceva di indossare sempre i guanti in corsa e quando, un giorno, dimenticai di metterli, mi fece tornare al pullman per prenderli. Arrivai in ritardo per la partenza e inseguii il gruppo per i primi chilometri di gara. Quando provavo a dire la mia mi zittiva, ma un giorno ho imparato quanto fosse una brava persona. Stavo prendendo del cibo dalle tasche della maglia con entrambe le mani quando qualcuno davanti a me ha fatto cadere una borraccia. È rotolata sotto la mia ruota anteriore, ho perso il controllo e sono rovinato a terra. Malakhov era sulla mia ruota, urtò la mia bici ed atterrò vicino a me. Pensavo che mi avrebbe ucciso proprio lì, sulla strada. Invece, la prima cosa che gli è uscita dalla bocca appena fermi fu: “Stai bene, ragazzo?” Era il tipo di un ciclista che sostituiva il 53 con il 52 perché sapeva che la volata era in falsopiano. Non attaccava mai, eppure, una fuga vincente non sarebbe quasi mai andata via senza di lui. Non parlava quasi mai di corse, ma ogni volta che lo faceva, ascoltavo. Non importa quanto credessi di essere pronto per la parte alta della classifica, non lo ero. Sedersi con Malakhov e Kashirin per il pasto tre volte al giorno ha cambiato le cose. Le gare juniores a livello nazionale erano dure e aggressive. Iniziavano con i fuochi d'artificio, continuavano senza criterio per un po' per scremare il gruppo di testa, quindi si calmavano mentre ci si interrogava su quale sarebbe stata la prossima mossa. Si poteva vincere una gara facendo una mossa furtiva mentre tutti gli altri si guardavano. Gli élite iniziavano tranquilli e si davano il tempo di scaldarsi. In una giornata fredda, si spargeva la voce di andare piano per i primi dieci chilometri. Poi il ritmo si alzava. Se non portavi il culo in testa in tempo la cacca avrebbe colpito il ventilatore, e ti avrebbe coperto dalla testa ai piedi prima di sapere cosa stesse succedendo. Quando il martello dava la mazzata lo faceva con il botto. Ti ritrovi in un ventaglio e se non sei tra i primi venti avrai difficoltà anche a rimanerci. Il gruppo impazzisce, tutti lottano per stare a ruota, torturati da una velocità che si può a malapena tenere così a lungo. Il gruppo di testa non cede neanche dopo che i ventagli lo hanno eroso per chilometri. Nessuno si arrende, non importa quanto la velocità ti faccia male. I ragazzi di testa rimangono uniti fino a quando la pressione finisce. Mentre il ritmo cala, orde calano verso la testa prima della prossima sferzata. Non c'è tempo per rilassarsi, devi stare collegato e guardare dove ti ritrovi ad ogni colpo di pedale. La maglia rossa della squadra nazionale era un altro fardello che non avrei mai potuto ignorare. Il credo di Kapitonov era: se indossi la maglia della CCCP, la onori con la tua prestazione ogni volta, senza eccezioni. L'aspettativa era che i suoi scalatori andassero meglio in salita degli altri scalatori, che gli sprinter dominassero gli sprint ogni volta, e che i diesel vincessero le cronometro. Non accettava nessuna scusa per la tua prestazione di merda. Kapitonov ti avrebbe concesso un po' di tregua per una o due volte, ma se avessi continuato a fare casini saresti stato fuori dalla porta senza nessun preavviso. Continua.... www.sportintranslation.com ![]() Un recentissimo articolo pubblicato da due ricercatori spagnoli sul sito Reserchgate.net intitolato “Effetti del ciclismo sulla prestazione podistica successiva, lunghezza della falcata e livelli di saturazione dell’ossigeno dei muscoli” ha evidenziato l’importanza degli allenamenti combinati bici-corsa per il triatleta. La ricerca ha coinvolto dieci triatleti, otto uomini e due donne, di livello medio alto, seppur non a livello élite, allenati per le distanze sprint/olimpico con i seguenti parametri medi: - Volume di allenamento settimanale: 16,4 ore, scostamento 6,8 ore - Età 25,7: anni, scostamento 8,9 anni - Altezza: 174,6 cm, scostamento 10,1 cm - Peso: 71,3, scostamento 9,8 Kg La ricerca consisteva nel misurare una prestazione di corsa a secco svolta in pista sui classici 12 minuti del test di Cooper. In seguito la prova veniva ripetuta, ma questa volta era preceduta, con un intervallo di soli 60 secondi per il cambio scarpe come nella transizione in gara, da uno sforzo massimale a cronometro in bicicletta sui rulli di 20 minuti; nota a margine, stessa modalità con cui autori come Coggan e Allen calcolano la FTP in bicicletta. Sono state monitorate la frequenza cardiaca e le dinamiche di corsa attraverso una fascia cardio Garmin Run, abbinata ad uno smartwatch Forerunner 735XT e il dispositivo mobile a raggi infrarossi che misura l’ossigenazione muscolare, nel caso specifico del vasto laterale, prodotto dalla Moxy. Questi strumenti sono stati scelti per la loro facile reperibilità ed uso sul campo anche da parte di atleti non professionisti. Come prevedibile, la prova effettuata dopo lo sforzo in bicicletta è risultata inferiore nella distanza percorsa, in media di 195 metri, con circa il 6% di decremento. Ma analizzando nel dettaglio quali tra i parametri misurati siano variati si hanno delle sorprese. A livello fisiologico la frequenza cardiaca non subisce variazioni rilevanti. A livello di dinamiche di corsa, cadenza, oscillazione, tempo di contatto con il terreno non si hanno mutamenti statisticamente rilevanti. Due parametri, invece, sono cambiati sensibilmente:
La misurazione dell’ossigenazione muscolare è ai suoi albori, come la potenza nel ciclismo vent’anni fa o nel running ai giorni nostri, per cui il dato che indica un calo è di poca fruibilità pratica nell’immediato, anche se si rivelerà prezioso quando la mole dei dati raccolti raggiungerà una massa critica rilevante, sempre se questi tipi di dispositivi verranno adottati da una larga fetta di atleti come è stato per il misuratore di potenza nel ciclismo. La falcata risulta quindi ridotta in lunghezza per cui, anche a cadenza invariata, la distanza percorsa è minore. Concentriamoci su una considerazione finale dei ricercatori “The damaging effects of cycling prior to running might be due to accumulated muscular fatigue in the bike segment and could be attributed to an increase in neural fatigue, causing alterations in the neuromotor pattern as has been argued in previous studies. Consequently, the importance of brick training in triathletes is highlighted”. L’importanza dei brick diventa quindi chiara, ma come svolgere i brick? L’articolo non fornisce una risposta al quesito, ma partiamo da due considerazioni: se si tratta di fatica muscolare la soluzione è allenare meglio il ciclismo a secco, in questo caso i brick non sono coinvolti. Se si tratta di “fatica a livello neuronale che causa alterazioni nello schema motorio” allora quale tipo di brick utilizzare? In pratica come eliminare quella sensazione per cui le gambe sembra stiano ancora pedalando nei primi chilometri di corsa? Parere di chi scrive, in questo caso la soluzione migliore è quella consigliata da Friel nella sua “The Traithlete’s Bible”, ossia brick lunghi solo una tantum per allenare la mente e provare le strategie di gara, alimentazione inclusa. Per migliorare la propria azione di corsa il triatleta deve, invece, inserire tutte le volte che sia possibile brevi sessioni di corsa, non oltre i venti minuti, alla fine delle sessioni di ciclismo per costruire i necessari schemi motori, questo specialmente per chi è impegnato sulle distanze brevi. Non bisogna mai dimenticare che la fatica è nemica dell’apprendimento di nuovi schemi motori, per cui non si deve protrarre la sessione pena lo scadimento della tecnica con la conseguente acquisizione di schemi motori errati. In conclusione, non si debbono considerare i brick come un vero e proprio allenamento di resistenza, ma una sessione di adattamento neuromuscolare pianificata per creare nuovi schemi motori, conferma che il triathlon non è la somma delle tre discipline, ma uno sport a sé stante. Giuseppe GambariniDa sempre appassionato praticante di sport di resistenza, traduttore, copywriter. Residente nella Sunshine Coasta australian, inesauribile curioso ed amante della sua lingua natia. ![]() “Poi c'è questo.” Bodgan aggiunse e girò pagina. “Sì, qui: ‘La sera prima della gara su strada, durante la riunione di squadra, Nikolai ha chiesto di essere cancellato dalla lista dei partenti adducendo stanchezza. Il giorno dopo, mentre la squadra partecipava all'ultimo evento previsto del campionato, all'incirca all'una, Nikolai ha lasciato l'hotel in bicicletta. Non indossava la divisa da ciclista. Chiaramente, non era un'uscita di allenamento. Indossava la tuta della nazionale e scarpe da ginnastica della Adidas. Trasportava il suddetto borsone sulla schiena.? Interessante. Dai una scusa del cazzo per saltare la corsa, porti con te una mazzetta di contanti e un passaporto, salti su una bici e pedali sotto il sole cocente. Se non era una fuga, allora voglio sapere cos'era.” “Shopping”, ho detto. “Lo immaginavo. Con circa tremila dollari in valuta americana. Cos'hai comprato, un orologio svizzero?” “Non ho comprato niente. Ho cambiato idea e sono tornato in albergo.” “Hai cambiato idea. Perché?” “Non mi andava più di fare shopping una volta arrivato in città.” “Non sto parlando dello shopping. Perché hai cambiato idea?” Mi ammutolii e proseguimmo in silenzio per mezzo minuto. “Lasciate che ti ricordi quanto profondo è la fossa dove ti sei cacciato”, disse Bogdan. “Primo, sei accusato di avere rilasciato doppia falsa testimonianza quando hai richiesto il passaporto. Secondo, abbiamo le prove che hai cercato di defezionare in Francia. Un atto di alto tradimento, in altre parole. Terzo, sei stato trovato in possesso di una valuta estera, un ammontare notevole devo aggiungere, il che è illegale e reato da perseguirsi penalmente. Quest'ultimo comporta un'altra accusa. Guardando in prospettiva, un crimine porta ad un altro poiché, in ogni caso, con i soldi che avevi nella borsa hai passato il confine. Probabilmente più di una volta. Sai come si chiama, vero?” Sì, dimmi. “Contrabbando. Hai mai sentito parlare di Yan Rokotov?” “No.” “È stato condannato a morte per possesso illegale di valuta estera. Articolo 25 del Codice Penale. Dovresti familiarizzare con quel libro invece di sprecare il tuo tempo a leggere la Bibbia. Dove tu abbia preso la Bibbia sarà argomento di un'altra conversazione. Per ora, se fossi in te, parlerei di cosa ti ha fatto decidere per la tua defezione, dove hai preso la valuta e come l'hai contrabbandata dentro e fuori dal paese. Ti ascolto.” Guardai fuori dal finestrino e dissi: “Non volevo disertare. Sono andato a fare shopping. Il mio passaporto rimaneva sempre in quella borsa perché avrebbe potuto andare perso nella stanza d’albergo. La maglia e la medaglia erano nella borsa dal giorno della gara. Ho afferrato la borsa, sono saltato sulla bici e sono andato a fare shopping.” “Plausibile”, disse Bogdan,” ma non mi convince. Continua. Non vedo l'ora di sentire di come hai trovato un pacchetto di contanti, in tre diverse denominazioni, sul lato della strada.” Ignorai la battuta e mi presi una pausa di due secondi per trovare qualcosa di credibile da dire sui soldi: un misto di verità e finzione. “I franchi e i marchi tedeschi sono miei. Ho venduto alcuni pezzi di ricambio che non mi servivano più. Alcuni hanno pagato in franchi, e uno o due, i tedeschi, hanno pagato in marchi tedeschi. I dollari, ho vinto una scommessa.” “Hai vinto cosa?” “Una scommessa. Il giorno prima della gara, Borysewicz si è seduto accanto a me nell'atrio...” “Stop”, Bogdan alzò la mano sinistra come se lo stessi aggredendo. “Chi è Borysewicz?” “Il direttore sportivo degli Americani. È polacco, parla bene il russo. Ho sentito che è rimasto negli Stati Uniti dopo le Olimpiadi di Montreal. Allena la squadra degli Stati Uniti. Detto questo, si è seduto vicino a me nell'atrio. Stavo sfogliando delle riviste su un divano e abbiamo iniziato a parlare, a fare domande...” “Che tipo di domande?” “Sull'allenamento. Cosa facciamo o non facciamo per il quartetto a cronometro ai mondiali” “Cosa gli hai detto?” “Gli ho detto come ci alleniamo. È un segreto?” “Continua.” “Ha detto che la sua squadra ci avrebbe presi a calci in culo, non importa quanto fossimo preparati. Era sicuro che avremmo perso. L'ho apostrofato dandogli dell’idiota e dilettante. Gli dissi che gli Americani non hanno talento e dovrebbero limitarsi al baseball, non praticare ciclismo. In quel momento ha scommesso cinquemila dollari che i suoi ci avrebbero distrutto nella cronosquadre.” Smisi di parlare per verificare l'effetto della storia. Mi fu d'aiuto che alcune cose fossero vere. Ho parlato con Borysewicz quel pomeriggio, ma non ha mai fatto una scommessa. Dopo avere sentito la mia opinione su di lui e la sua squadra, si è alzato e se ne è andato. “Quindi avete vinto la gara e lui ti ha pagato cinquemila dollari?” “No, ha pagato solo 2400 e ha detto che pagherà il resto quando mi vedrà la prossima volta ad una gara da qualche parte.” “Cosa ne hai fatto dei soldi?” Niente. Erano nella mia stanza d'hotel avvolti in un vecchio impermeabile e nascosti in un armadio. Diglielo e confessi il contrabbando e il possesso illegale di valuta estera. Se non è abbastanza per affrontare il plotone d'esecuzione, è abbastanza per passare anni in un campo di lavoro. Andiamo oltre. “Ho aperto un conto in banca a Caen”, dissi. “I soldi sono in banca.” “Quale?” chiese. Ho guardato e studiato decine di foto del Tour de France su L'Équipe perchè si poteva comprare in URSS. Conoscevo gli sponsor dei professionisti e il Crédit Lyonnais era uno di loro. “Crédit Lyonnais”, risposi. Eravamo di nuovo a un isolato dal quartier generale. Eravamo seduti in silenzio, il rumore delle gomme che sfregavano sui ciottoli della strada. Bogdan buttò la cartella nella valigetta, la chiuse e disse: “Adesso hai un conto in una banca francese. Nel momento in cui metterai piede sul suolo occidentale avrai accesso a una considerevole quantità di denaro, se sceglierai di disertare. Oppure, continuerai ad andare avanti così per un po' e lo rimpinguerai ogni volta che viaggerai all'estero finché non avrai più nulla da guadagnare dal nostro Paese. E poi defezionerai. Mungerai la tua madrepatria il più a lungo possibile e quindi correrai via. È il tuo piano.” Accostammo all'entrata del quartier generale. Bogdan aprì la porta, uscì sul marciapiede e richiuse la porta dietro di lui. “Scendi dalla macchina, ragazzo.”, disse l'autista. Una folata di vento fresco e gelido mi colpì al petto appena uscito. La camicia, sotto la giacca di pelle, sulla schiena si era attaccata alla pelle. Di tutte le parole russe, una che non volevo sentire in questo momento era la temuta poshli, andiamo. Migliaia di uomini e donne in questo paese hanno sentito questa parola uscire dalla bocca degli agenti del KGB. L'epigrafe per l'inferno sulla terra: il gulag. L'autista della Volga si accese una sigaretta e abbassò il finestrino. “Vieni qui”, disse Bogdan. Come un alunno di quarta elementare sorpreso dal preside sul punto di rompere una finestra della scuola, mi avvicinai a passi brevi. “Ora,“ mi disse e ripose le mani nelle tasche dei pantaloni, “sono incline a lasciarti perdere per un po’. Non che io abbia creduto molto a quello che mi hai detto, ma lascerò che tutto questo si sedimenti. Ci faremo sentire.” Si girò, aprì la porta anteriore della Volga e si sedette. Prima di richiudere la porta, mi guardò dall'interno della macchina e disse: “Non fare menzione di questa conversazione con nessuno.” Rimasi fermo su un marciapiede finché la Volga nera sparì dalla mia vista. L'aria era satura di pioggerellina, la luce del giorno attenuata ad una tonalità grigio-cemento. Con il quartier generale del Komitet alle mie spalle, attraversai la strada senza volgere lo sguardo all'edificio. Appena fui sull'altro lato, girai l'angolo in Via Reitarskaya. Un taxi procedeva nella mia direzione con la luce verde accesa, era libero, mi rizzai su di un piede per fargli cenno di accostare. La macchina sterzò e si fermò vicino a me. “Il centro sportivo di Lesnoye”, dissi al tassista aprendo la porta. “È fuori città”, mi disse. “Sì, lo so.” “Quanto?” disse, le sue dita battevano sul volante. “Venticinque”, risposi. Anche la metà sarebbe stato un buon affare per lui. “Andata.” Continua.... Original English version below “Then there’s this.” Bogdan said and turned the page over. “Yes, here: ‘The evening before the road race, during the team meeting, Nikolai requested to be withdrawn from the start list citing fatigue. The next day, while the team attended the last championship event, at approximately one o’clock, Nikolai left the hotel on his bicycle. He was not wearing the cycling uniform. Clearly, he did not intend this to be a training ride. He wore the national team’s tracksuit and Adidas running shoes. He carried the above-mentioned sling bag across his back.’ Interesting. You give a bullshit excuse to skip out a race, pack a chunk of cash and a passport, hop on a bike, and ride into the sun. If this wasn’t a run, then I want to know what it was.” “Shopping,” I said. “I thought so. With roughly three thousand in US currency. What did you buy, a Swiss watch?” “I didn’t buy anything. I changed my mind and went back to the hotel.” “You changed your mind. Why?” “Didn’t feel like shopping once I got into town.” “I’m not talking about shopping. Why did you change your mind?” I shut up and we drove in silence for half a minute. “Let me remind you how deep you have dug yourself in,” Bogdan said. “One, you have committed two counts of perjury when you applied for a passport. Two, we have evidence you tried to defect in France. An act of treason in other words. And three, you’ve been found in possession of a foreign currency, a substantial amount of I must add, which is illegal and a criminal offense. This last one brings another charge with it. As life goes, one crime leads to another. At any rate, that cash you had in your bag, you crossed the border with it. Probably more than once. You know what it’s called, don’t you?” Yeah, tell me. “Contraband. Ever heard of Yan Rokotov?” “No.” “Was sentenced to death for illegal foreign currency possession. Article twenty-five of the Law on State Crimes. You should familiarize yourself with that book instead of wasting your time reading the Bible. Where you got the Bible from is a topic for another conversation. For now though, if I were you, I’d be talking about what made you decide to defect, where you got the currency from and how you smuggled it in and out of the country. I’m listening.” I looked out the window and said, “I didn’t want to defect. I went shopping. My passport was in that bag all the time because it could’ve gotten lost in the room. The jersey and the medal have been in the bag since the race day. I grabbed the bag, jumped on the bike and went shopping.” “Plausible,” Bogdan said, “but not convincing. Continue. Can’t wait to hear a story about how you found a bundle of cash, in three different denominations, on the side of the road.” I ignored the jest and took a two-second pause to come up with something believable about the money. A mixture of truth and fiction. “The francs and the Deutschmarks are mine. I sold a few spare singles I didn’t need anymore. Some guys paid in francs, and one or two, the Germans, paid Deutschmarks. The dollars, I won a bet.” “You won what?” “A bet. The day before the race, Borysewicz sat next to me in the foyer—” “Stop,” Bogdan raised his left hand as if I was coming at him. “Who’s Borysewicz?” “Americans’ coach. He’s Polish, speaks good Russian. I heard he stayed in the US after the Montreal Games. Coaches the US team now. Anyway, he sat next to me in the foyer. I was browsing magazines on a couch and we started talking, asking questions—” “What sort of questions?” “About training. What we do or don’t do to train for the worlds team time trial.” “What did you tell him?” “I told him how we train. Is that a secret?” “Keep going.” “He said his team will kick our ass no matter how prepared we are. He was sure we were going to lose the race. I called him an idiot and an amateur. I said Americans have no class and should stick to baseball, not cycling. This is when he bet me five thousand dollars that his guys will crush us in a team time trial.” I stopped talking to check the story’s effect. It helped that some of it was true. I did talk with Borysewicz that afternoon but he never made a bet. When he heard my opinion of him and his team, he stood up and walked away. “So you won the race and he paid you five thousand bucks?” “No, he paid only twenty-four hundred and said he’ll pay the rest when he sees me next time at a race somewhere.” “What did you do with the money?” Nothing. It was now in my room back at the hotel wrapped in an old rain jacket and tucked away in a wardrobe. Tell him that and you confess smuggling and illegal possession of a foreign currency. If not bad enough to face the firing squad, it’s enough for spending years in a labor camp. Let’s dig one more time. “I opened a bank account in Caen,” I said. “The money’s in the bank.” “Which one?” he said. I looked at and studied dozens of Tour de France pictures in L’Équipe, you could buy it in the USSR. I knew professional cycling’s sponsors and Crédit Lyonnais was one of them. “Crédit Lyonnais,” I said. We were a block away from the headquarters again. We sat in silence, the noise of tires rubbing against the cobbles poured in from outside. Bogdan chucked the folder into the briefcase, shut it, and said, “You now have an account in a French bank. The minute you step on a Western soil, you’ll have access to a considerable amount of cash if you choose to defect. Or, you’ll keep going for a while and top it up every time you travel abroad until you have nothing to gain from our country. And then you defect. You’re going to milk your Motherland as long as you can and then run. That’s your plan.” We pulled over at the headquarters’ entrance. Bogdan opened his door, stepped out on the sidewalk and shut the door behind him. “Get the hell out of the car, kid,” the driver said. A gust of crisp, icy wind hit me on the chest when I stepped outside. The shirt on my back stuck to my skin under a leather jacket. Of all Russian words, one I didn’t want to hear right now was the dreaded poshli, the let’s go. Thousands of men and women in this country heard this word coming out of the KGB agents’ mouths. An epigraph to a hell on earth, the Gulag. The driver in the idling Volga lit a cigarette and rolled the window down. “Come here,” Bogdan said. As a fourth-grade pupil caught by the principal in the act of smashing a school window, I came closer in short steps. “Right now,” he said and put both hands in his pants’ pockets, “I’m inclined to let this rest for a while. Not that I believed much of what you told me but I’ll let this float around for a bit. We’ll be in touch.” He turned around, opened the Volga’s front door and sat in. Before he shut the door, he looked at me from inside the car and said: “Do not mention this conversation to anyone.” I stood still on a sidewalk until the black Volga sped away out of view. Drizzling rain drops filled the air, the daylight dulled to concrete-gray hues. With the Komitet’s headquarters behind my back, I crossed the street not looking at the building. Once on the other side, I turned the corner into Reitarskaya street. A taxi was moving toward me with its green light on and I stepped onto the road with one foot to hailed it. The car swerved and came to a stop next to me. “Lesnoye resort,” I said to the cabbie when I opened the front door. “That’s out of town,” he said. “Yeah, I know.” “How much?” he said, his fingers tapping on the steering wheel. “Twenty-five,” I said. Half of that would be a good deal. “Done.” ![]() Mentre il mondo si appassiona alla serie TV sul disastro nucleare di Chernobyl, Nikolai lo ha vissuto in prima persona, ovviamente dalla sua bici. Ecco un estratto, continuate a seguirci per la storia completa! "Atterrammo a Kiev e sulla strada dall'aeroporto Tolik ci disse che la centrale nucleare di Chernobyl era esplosa la sera precedente. Male, questo sarà un problema, dicemmo. “Sapete dov'è Chernobyl?”. Qualcuno provò ad indovinare e disse che era in Ucraina, da qualche parte. “A cento chilometri da Kiev”, disse. Si zittì e guidò come se non avesse niente altro da aggiungere. Ci accodiamo, non dicemmo nulla, e a chi importa, comunque. “Incendio o qualcosa del genere”, disse singhiozzando nel suo sedile che aveva modificato per molleggiare sui sobbalzi della strada. “È quello che ho sentito. Se ne sono andati tutti da Pripyat. Evacuata. È tremendo”. Mandarono i pompieri a spegnere un incendio senza dir loro che il reattore nucleare si era crepato, sputa tossine radioattive uccidendo tutta quello che incontra. Tienilo segreto. A mille chilometri da Chernobyl un allarme nucleare suonò in Svezia. È così che il mondo ne venne a conoscenza. Ma noi non ci preoccupiamo. Il vino rosso rimuove le radiazioni dal corpo. Questo non lo sanno in Svezia o in Germania. Nessuno sa niente. Mentono in televisione. Chiamano un giornale Verità [Pravda in russo, NdT] e lo riempiono di bugie. Suonano Tchaikovsky alla radio come se metà del Paese fosse Romeo e l'altra metà Giulietta. Ti sintonizzi su la gracchiante Voice of America per capire cosa sta succedendo. Ascolti. Qualcuno ha liberato un genio della morte da una bottiglia e ora se ne va in giro spargendo distruzione. Alcune persone sono morte subito, altre moriranno in seguito" #Chernobyl #NikolaiRazouvaev #cycling #translationservices ![]() Jason Fitzgerald è l’autore del libro che ripercorre le vite dei due pionieri del triathlon Dave Scott e Mark Allen, nel cammino che li ha portati alla sfida spalla a spalla durante l’Ironman Hawaii del 1989 conosciuta come Ironwar, da cui il titolo del libro. In un breve articolo pubblicato per Triathlete USA sviluppa un argomento interessante e con conclusioni all’apparenza controintuitive: non si deve cercare di dimagrire mentre si svolge un programma di allenamento. Mi sembra di vedere lo sguardo interdetto del lettore che ha sempre saputo, e magari sperimentato sulla propria pelle, che gli sport aerobici sono l’ideale per dimagrire. L’assunto è certamente corretto, come dimostrato da alcuni studi scientifici, anche se ne possono trovare altri per cui allo scopo del dimagrimento sarebbero più indicati sforzi brevi ed intensi. Ma senza approfondire la diatriba, il comune denominatore è che l’attività fisica è essenziale al dimagrimento, insieme all’altra componente del deficit calorico. Si, perché nonostante continuamente appaiano nuove diete dimagranti dai nomi sempre più esotici, tutte si basano sui due fattori principali per dimagrire:
Definiamo ora cosa sia un programma di allenamento rispetto alla “semplice” attività fisica: allenarsi significa spingere il proprio corpo al limite, creare uno stimolo allenante, uno stress, per fare in modo che il corpo inneschi cambiamenti positivi. Obbiettivo finale dell’allenamento è finire la gara con il migliore tempo possibile, o anche solo finire la gara se è la nostra prima sulla distanza. Ritorna quindi il concetto di stress. Per aiutare il nostro corpo a reagire a questo stress bisogna fornire il giusto quantitativo di energia e riposo. Non dimentichiamo che la componente più importante dell’allenamento è la continuità insieme alla progressività, ossia aumentare continuamente e progressivamente il carico allenante. È possibile dare costanza all’allenamento solo con la corretta alimentazione e recupero, che è il momento in cui il corpo trasforma la fatica accumulata, o stimolo allenante, in condizione o forma fisica. Provando a dimagrire allenandosi si sommano due stress, con il risultato di allenarsi male, o addirittura per il nostro corpo potrebbe essere veramente troppo con conseguenti infortuni come fratture da stress, non a caso, o psicologici, come uno stato di perenne insofferenza. La soluzione? Dimagrire con l’attività fisica, ovvero esercizio fisico non troppo intenso, non strutturato che segua i ritmi del corpo per un adeguato recupero, non la nostra tabella di marcia verso la gara. Il periodo ideale per questo solo le 6-8 settimane di condizionamento generale precedenti la preparazione specifica. Questo vuol dire che non si dimagrirà durante il programma di allenamento? Purtroppo, dovremmo dire, sì, perché un programma di allenamento intenso richiede un quantitativo di energia elevato, spesso impossibile da compensare, anche ricorrendo agli integratori. In ottica prestazione questo non è necessariamente un fatto positivo se il calo è troppo accentuato, ragion per cui non il dimagrimento durante un periodo di allenamento spesso arriva, ma non deve essere ricercato. ![]() Quando tornai a Kiev dopo la pausa la città era nel bel mezzo dell'autunno. Mattine gelide, nebbia ovunque, castagni che diventano giallo ruggine. La Titan era andata in Crimea per prepararsi ad una gara a tappe, la Sotsindustriya. La stagione era finita per me e non volevo correre, ma non potevo restare a Kiev e non fare niente. Elizarov mi disse di volare a Simferopoli, unirmi alla squadra e trascorrere le settimane successive pedalando in un clima caldo. Andai nei nostri locali di servizio per preparare la bici così da essere trasportata in mattinata all'aeroporto. Feci un mediocre lavoro di impacchettamento della bici e passai un'ora a parlare a vanvera con il meccanico. Decisi di prendere un taxi invece di aspettare un passaggio per l'hotel e, da solo, mi incamminai per strada. Gli edifici gettavano lunghe ombre sull'acciottolata Krasnoarmeyskaya. L'aria fresca e umida era piacevole da respirare. Volevo un gelato Kashtan dal negozio in Via Kreshchatik prima di prendere un taxi. Dieci minuti a piedi. Vidi una Volga nera parcheggiata davanti a me, con una porta posteriore aperta. Un uomo con uno spolverino beige sbottonato stazionava in piedi vicino all'auto, guardandomi. Continuai a camminare, chiedendomi se mi stesse fissando perché non aveva nient'altro da fare o vi era qualcos'altro sotto. Quando mi avvicinai, si allontanò dalla macchina e tirò fuori un korochka rosso dalla tasca dello spolverino. Me lo piazzò in faccia e mi chiese: “Nikolai?” Guardai il documento: c'era la foto in bianco e nero del tizio a sinistra e l'intestazione del KGB a destra con grado, nome e autorizzazione al porto d'armi sotto. Non riuscivo a leggere il cognome, qualcosa di lungo e contorto. Prima che chiudesse il korochka, memorizzai il suo nome: Bogdan. Merda, che succede, che cosa ho combinato? Feci un rapido inventario mentale delle mie tasche: niente dollari, niente di illegale, quindi cosa vogliono? Bogdan fece un cenno con la testa verso il sedile posteriore della Volga e disse: “Sali, dobbiamo parlare.” Salii in macchina, lui chiuse la porta, camminò intorno all’auto, salì sul sedile accanto a me e disse al guidatore: “Poekhali.” Andiamo. Andammo verso la Kreshchatyk, per la discesa della Vladimirsky, oltre la Piazza Pochtovaya ed arrivammo alle strette strade di Podol. All’esterno i pedoni in giacche invernali e cappotti sfrecciavano sui marciapiedi. Non ti insegnano a scuola cosa fare quando il KGB manda un agente con un nome stra-ucraino come Bogdan, in una Volga nera, il motivo solo il cielo lo sa, a prenderti. Non chiedere dove stai andando, stai calmo. Pazienza e rispetto, dimostraglieli. “Sei un membro della Komsomol, Nikolai?” chiese Bogdan. È di questo che si tratta? Io che mi insinuo nel sistema senza mai essermi iscritto alla Komsomol? Non avete spie della CIA da catturare? Diventare membro della Komsomol, o lega Comunista leninista, era una formalità. La maggior parte dei quattordicenni si lasciavano trasportare dalla corrente senza pensarci troppo. Nessuno ti costringeva ad iscriverti, ma stanne fuori e ti saresti preparato per problemi in futuro che non avresti mai pensato di trovarti ad affrontare. Quando fu il mio momento non me ne preoccupai. Noiosi corsi per diventare un membro e, una volta dentro, riunioni dopo la scuola che erano solo una perdita di tempo. Il mio allenamento iniziava un'ora dopo l'ultima lezione a scuola, la Komsomol non si incastrava. La prima volta che la Komsomol mi ha dato problemi è stato quando ho fatto domanda all’Università dello Sport di Kiev. Il modulo di domanda chiedeva se fossi un membro. Ero un membro della Titan a quel punto, sapevo che l'Università mi voleva più di quanto io volessi l'Università e ho spuntato la casella sì. Nessuno fa dei controlli. Poi è arrivato il modulo di richiesta del passaporto con decine di domande banali. Uno riguardava di nuovo la Komsomol. Questa volta era un documento importante la cui veridicità era controllata dal KGB. Non potevi chiedere un passaporto in URSS e andare dove volevi. Il KGB controllava gli spostamenti e i passaporti. Se ne vuoi uno, digli tutto di te. Hai un motivo per andare all'estero, altrimenti nessun motivo, nessun passaporto. La maggior parte delle persone non se ne preoccupava, non che avessero segreti da nascondere, solo non era qualcosa che li riguardasse. Atleti, artisti, scienziati, questi sono il volto e l'immagine del Popolo, l'Idea, e il Sistema. La minoranza privilegiata, i “golden boys and girls” del Paradiso dei lavoratori. Questi possono avere il passaporto, ma solo dopo aver controllato cosa mangiano, respirano e pensano. Bloccato di nuovo, chiesi a Nikolai Rogozyan cosa fare per la Komsomol e lui mi disse di spuntare la casella “Sì”. Se non sei un membro, gli ideali del Partito non ti vanno bene o non combaci con gli ideali del Partito. In ogni caso, il KGB bloccherà la tua richiesta di passaporto se non sei un membro della Komsomol. “Lo sistemeremo dopo”, disse Rogozyan, “quando torneremo a Kiev”. Ho spuntato il riquadro e me ne sono dimenticato. Non ero un membro, lo dissi a Bogdan. “Quindi hai mentito sul modulo di richiesta del passaporto?” Gli dissi quanto ero impegnato a scuola e come avessi perso il treno Komsomol e come avrei voluto sistemare la cosa in seguito, ma il ciclismo si era messo in mezzo. Sorrideva e si chinava verso il sedile anteriore del passeggero. Prese una valigetta di plastica nera per il manico. Mise la valigetta in grembo e, guardandomi diretto in faccia, mi disse detto: “Dov'è tuo fratello, Nikolai?” Non c'entrava la Komsomol. “Kamchatka”, ho detto. “Alla fine del mondo”, disse e voltò la testa verso di me. “Perché così lontano da casa?” “Soldi. Sta facendo dei bei soldi in Kamchatka. Lunghe vacanze. Gli piace stare lì.” “Capisco. Lascia che ti chieda una cosa. Sei un bugiardo, Nikolai?” Da come diceva il mio nome alla fine delle domande, avrebbe potuto essere il mio insegnante di fisica che parlava di un compito consegnato in ritardo. Le parole uscivano dalle sue labbra con il tono pietoso di una lama della ghigliottina che ti cade sul collo. Ha teso la trappola e mi ha spinto ad entrarci. “Non sono un bugiardo.” Aprì la valigetta e tirò fuori una cartellina malridotta e scolorita. Vi era la foto in bianco e nero del mio passaporto attaccata ad un angolo. Il mio nome scritto a mano in lettere maiuscole era sotto un numero di registro. Ha messo la cartella sopra la valigetta e ha detto: “Chi ha compilato il modulo di richiesta del passaporto?” “Io stesso.” “Molto bene. Ti ricordi una domanda sulla tua famiglia?” “Quale?” “Quella in cui ti si chiedeva se qualcuno della tua famiglia è mai stato condannato per un reato penale.” “Ero un bambino quando mio fratello è andato in prigione”, ho detto. “Tanto tempo fa, ha smesso di essere qualcosa di reale per me.” “Lascia che ti dica io cosa è reale. Hai mentito al governo con piena cognizione delle conseguenze. Hai firmato il modulo. Sapevi di possibili ripercussioni per aver mentito al governo. Hai mentito per avere un passaporto, un documento che diamo a quelli di cui ci fidiamo. Sai a quanto ammonta la reclusione per questo crimine?” Fece una smorfia dicendo: “No? Penso di no.” “Cosa avrei dovuto fare?” Gli chiesi. “Senza passaporto, non posso correre all'estero. Inutile per la nazionale.” “Pensi troppo, Nikolai, e arrivi a conclusioni affrettate. Ipotizzi false conclusioni su cose di cui non sai niente. Pensi che non ti avremmo dato un passaporto perché tuo fratello è stato dentro dieci anni fa? Non sono affari tuoi, a pensarci bene. Il tuo compito è essere onesto e aperto con noi quando ti chiediamo di essere onesto e aperto con noi. Potremmo o non potremmo tenere conto delle informazioni stesse. Voglio dire, chi se ne frega di quello che ha fatto tuo fratello dieci anni fa, giusto? È quanto tu sia sincero con noi che vogliamo sapere. E finora, temo che tu non stia andando molto bene.” Sterzammo per Via Vladimirskaya e ci dirigemmo al quartier generale del KGB di Kiev. È così che ti fanno fuori, un piccolo errore ed è tutto finito, nessuna seconda possibilità. A pochi metri dal parcheggio riservato di fronte all'edificio, gli occhi dell'autista rivolti a Bogdan spuntarono nello specchietto. “Prosegui” gli disse facendo cenno con la mano. La Porta D'oro era sulla nostra destra quando Bogdan disse: “Hai cercato di defezionare in Francia, vero?” Guardai nella sua direzione, le budella che si contorcevano, la gola secca, il cuore che pompava sangue con gettate che si potevano udire dall’esterno. Esci dalla macchina e corri, nasconditi da qualche parte, ovunque, vai sottoterra e aspetta la tempesta sia passata. E poi? Per quanto tempo puoi nasconderti? Quanto lontano puoi correre? Come diciamo in Unione Sovietica, non si può correre più lontano della Siberia. “Perché pensate che avrei voluto defezionare?” “L'abbiamo sentito alla radio della BBC.” “Cosa?” “Lascia che ti legga qualcosa.” Fece un ghigno e aprì la cartellina che conteneva un fascicolo di fogli consunti battuti a macchina tenuti insieme da una graffetta. In cima vi era la prima pagina del mio modulo di richiesta del passaporto. Voltò pagina e fissò la pagina successiva scritta a mano con bella grafia. Scorse il testo impugnando la pagina con una mano. Quando ebbe trovato quello che stava cercando, puntò il suo indice e disse: “Ecco, una descrizione di quello che abbiamo trovato nel tuo borsone in Francia: “…conteneva i seguenti beni: duemilaquattrocento dollari USA; novecento marchi tedeschi; duemilaottocento franchi francesi; un passaporto; una medaglia d'oro, la maglia e l'attestato di campione del mondo; due paia di calze e mutande; uno spazzolino da denti; un quaderno; una penna a biro Bic e una Bibbia in russo stampata a Londra.” Questa, amico mio, sembra una borsa pronta per una fuga. Che ne dici?” Qualcuno mi ha tradito. Qualcuno ha frugato nella mia borsa, per caso o di proposito, e ha redatto un rapporto. Ho escluso il mio compagno di stanza a Caen. Entrambi dalla Titan, eravamo amici intimi, non è possibile che sia stato lui. La grafia ordinata, il linguaggio asciutto e formale. Merda, una Bibbia in russo stampata a Londra? Non è lui, non è il suo stile. Continua.... ww.sportintranslation.com Original English version below. By the time I came back to Kiev after the break, the city was deep in the autumn. Frosty mornings, fog everywhere, chestnut trees turning rusty yellow. Titan had gone to Crimea to prepare for the Sotsindustriya stage race. The season was over for me and I wasn’t going to race it but I couldn’t stay in Kiev and do nothing either. Elizarov told me to fly to Simferopol, join the team and spend the next few weeks riding in warm weather. I went to our service course to pack my bike for a pick up in the morning on the way to the airport. I did an average bike-packing job and spent an hour talking trash with the team mechanic. I decided to catch a cab instead of waiting for a lift to the hotel and walked out on the street. The buildings were casting long shadows over the cobbled Krasnoarmeyskaya Street. The chilled, moist air was pleasant to breathe. I wanted a Kashtan ice cream from the shop on the Kreshchatik street before catching a cab. A ten-minute walk. I saw a black Volga parked ahead, facing me with a rear door opened. A man in an unbuttoned taupe trench coat stood next to it, looking at me. I kept walking, wondering if he was staring at me because he had nothing else to do or there was something else to it. When I approached, he stepped away from the car and pulled out a red korochka from the coat’s pocket. He stuck it in my face and said, “Nikolai?” I looked at the ID. It had the guy’s black and white photo on the left and the KGB header on the right with rank, name, and authorization to carry a weapon below it. I couldn’t read the surname, something long and convoluted. Before he closed the korochka, I caught his first name, Bogdan. Crap, what’s going on, what did I do? I made a quick mental inventory of my pockets. No dollars, nothing illegal. What do they want? Bogdan nodded toward the rear seat of the Volga, and said, “Get in, we need to talk.” I climbed into the car, he shut my door and walked around, got into the seat next to me and said to the driver: “Poekhali.” Let’s go. 4 We drove toward Kreshchatyk, down the Vladimirsky Descent, past the Pochtovaya Square, and came to Podol’s narrow streets. Outside, pedestrians in winter jackets and coats scurried on the sidewalks. They don’t teach you in school what to do when the KGB sends an officer with an uber-Ukrainian name like Bogdan, in a black Volga for goodness’ sake, to pick you up. Don’t ask where you’re going, stay calm. Patience and respect, show them that. “Are you a member of the Komsomol, Nikolai?” Bogdan said. Is this what it’s about? Me, slipping through the system and never taking out the Komsomol membership? Don’t you guys have CIA spies to catch? Becoming a member of the Komsomol, or All-Union Leninist Young Communist League, was a formality. Most fourteen-year-olds went with the flow without thinking too much about it. Nobody forced you to join. Stay out of it and you’d set yourself up for problems in the future you never thought would be there waiting for you. When it was my time to join, I didn’t bother with it. Boring membership classes and, once you’re in, after-school meetings to waste time. My training started one hour after the last class, Komsomol didn’t fit in. First time Komsomol bit me in the ass was when I applied to Kiev Sports University. The application form asked if I was a member. Part of the Titan team by then, I knew the Uni wanted me more than I wanted the Uni and I ticked the yes box. Nobody checks this. Then came the passport application form with dozens of trivial questions. One was about Komsomol again. This time it was an important document checked for veracity by the KGB. You couldn’t apply for a passport in the USSR and go anywhere you liked. KGB controlled comings and goings, and the passports. You want one, tell them everything about yourself. Have a reason to go abroad. No reason, no passport. Most people never bothered with it. Not that they had any secrets to hide. Too hard. Athletes, artists, scientists, these are the face and the image of the People, the Idea, and the System. The privileged minority, the golden boys and girls of the workers’ paradise. These can have their passports but only after we check what they eat, breathe, and think. Stuck again, I told Nikolai Rogozyan about Komsomol and he said to tick the yes box. If you’re not a member, the Party’s ideals don’t fit you or you don’t fit the Party’s ideals. Either way, the KGB will choke your passport application if you’re not a member of the Komsomol. Will fix it up later, Rogozyan said, when we come back to Kiev. I ticked the box and forgot about it. I wasn’t a member I said to Bogdan. “So, you lied on your passport application form?” I told him how busy I was in school and missed the Komsomol boat and how I was going to fix this later but cycling got in the way. He grinned and leaned over to the front passenger seat. He grabbed a black, plastic briefcase by its handle. He placed the briefcase flat on his lap and, looking straight ahead, said: “Where’s your brother, Nikolai?” Not about Komsomol. “Kamchatka,” I said. “End of the world,” he said and turned his head toward me. “Why so far away from home?” “Money. He’s making good money in Kamchatka. Long holidays. He likes it there.” “I see. Let me ask you this. Are you a liar, Nikolai?” How he said my name at the end of the questions, he could’ve been my physics teacher chatting about an overdue assignment. Words flew from his lips with a chummy tone of a guillotine blade falling on your neck. He set the trap and nudged me to step into it. “I’m not a liar.” He opened the briefcase and pulled out a shabby, buff-colored manila folder. It had my black-and-white passport photo clipped to its corner. My name hand-written in capital letters was under a file and volume number heading. He placed the folder on top of the briefcase and said, “Who filled out your passport application form?” “I did.” “Very well. Do you remember a question about your immediate family?” “Which one?” “The one that asked you if anyone from your immediate family has ever been sentenced for a criminal offense.” “I was a kid when my brother went to jail,” I said. “So long ago, stopped being real to me.” “Let me tell you what’s real. You lied to the government in full knowledge of the consequences for doing so. You signed the form. You acknowledged possible repercussions for lying to the government. You lied to get a passport, a document we give to those only we trust. Do you know how long the sentence is for this crime?” He sneered saying, “No? I didn’t think so.” “What was I supposed to do?” I said. “Without a passport, I can’t race abroad. Useless to the national team.” “Thinking too much, Nikolai, and running ahead of yourself. You make false conclusions about things you know nothing about. You think we wouldn’t give you a passport because your brother served time ten years ago? It’s none of your business, to think. What is your business is to be honest and open with us when we ask you to be honest and open with us. We may or may not care about the information itself. I mean, who cares what your brother did ten years ago, right? It’s how truthful you’re with us we want to know. And so far, you’re not doing too well I’m afraid.” We turned on Vladimirskaya street and headed to Kiev’s KGB headquarters. This is it, this is how they take you out, a small slip-up and it’s all over, no second chances. Meters away from the parking bay in front of the building, the driver’s eyes popped into the rear-view mirror and glanced at Bogdan. “Keep going,” he told him with a hand wave. The Golden Gate was on our right when Bogdan said, “You tried to defect in France, didn’t you?” I looked in his direction, ice melting in my guts, dry throat, heart pumping blood with loud thumps. Get the hell out of the car and run, hide somewhere, anywhere, go underground and wait out the storm to pass over. And then what? How long can you hide? How far can you run? As we say in the Soviet Union, you can’t run farther than Siberia. “Why do you think I was going to defect?” “We heard it on the BBC radio.” “What?” “Let me read you something.” He smirked and opened the folder with a sheaf of loose and stapled printing paper in it. The one at the top was the first page of my passport application form. He flipped it over and stared at the next page with a neat handwriting on it. He scanned the text holding the page with one hand. When he found what he was looking for, he stuck the index finger at it and said, “Here, a description of what we found in your sling bag in France: ‘contained the following: two thousand four hundred US dollars; nine hundred Deutschmarks; two thousand eight hundred French francs; a passport; a gold medal, world champion’s jersey and diploma; two pairs of socks and underwear; a toothbrush; a notebook; a Bic Cristal pen, and a London-printed Russian Bible.’ This, my friend, looks like a bag made ready for a run. What do you think?” Someone sold me out. Someone went through my bag, by chance or on purpose, and wrote a report. I ruled out my roommate in Caen. Both from Titan, we were close friends, no way this was him. That tidy handwriting, the dry, formal language. Crap, a London-printed Russian Bible? That’s not him, he wouldn’t write that. ![]() Chiunque sia stato affascinato dall’Ironman Triathlon, 3,8 km a nuoto, 180 in bicicletta e una maratona sulla classica distanza dei 42 km per finire, o semplicemente Ironman per chi non frequenta le spiagge australiane, guarda alle distanze di gara con timore, le considera un ostacolo quasi insuperabile da affrontare il giorno dell’evento. Ed in parte la sensazione è corrispondente alla realtà, ma la gara è solo la parte finale del viaggio e, nonostante il comune sentire, la più semplice. Sì, la più semplice perché il giorno della gara è ricco di adrenalina, si svolge in un contesto festoso e la sfida di passare il traguardo spinge chiunque ai propri limiti. La gara è da considerarsi l’ultimo miglio di un percorso iniziato mesi prima. In questo articolo andremo ad analizzare le credenze più diffuse sull’impossibilità di un comune mortale di fare il primo passo in questo cammino. Prendiamo in considerazione, quindi, i cinque miti da sfatare se si vuole intraprendere questa avventura secondo il preparatore professionista Steven Moody.
Niente più scuse! Il vero limite è la volontà di raggiungere il risultato, tutto il resto è superabile. Trovate l’articolo integrale in inglese su TrainigPeaks.com. ![]() Anton era su un treno per pendolari diretto a Mosca quando siamo atterrati all'aeroporto Sheremetyevo da Parigi. I palazzi clonati scorrevano nella direzione opposta fuori dal finestrino del treno. Ha girato la testa lontano dagli edifici in movimento e ha guardato dentro la carrozza affollata. La maggior parte delle persone leggeva. L'Intelligentsiya, libri e riviste letterarie. Il Gapota, il Plebes, quotidiani e riviste illustrate. Cosa diavolo potresti leggere su queste pagine artefatte dagli spin doctors della macchina della propaganda? Annebbia la mente anche solo guardare i titoli. “Nuova Era nella storia Dell'umanità”. “Grande eroismo di un grande popolo”. “Potenti ali della nostra madrepatria”. “Principi eterni del marxismo-leninismo”. Chi scrive tutto questo? Probabilmente dei pazzi. Come possono scriverlo senza impazzire? Si dondolò la faccia con entrambe le mani, posò i gomiti sulle ginocchia e guardò il pavimento attraverso gli interstizi tra le dita. Sotto il sedile vide un giornale arrotolato tremare all'unisono con il treno. Da quello che si poteva capire tra i listelli di legni, non era una copia della Pravda o dell'Izvestiya. L'afferrò per farsi una risata delle acrobazie linguistiche degli imbecilli e lo sfogliò. Era il nuovo numero di Sovetskiy Sport, il giornale meno avvelenato da Mosca. Era ancora pieno di sciocchezze, ma i tirapiedi del partito non avevano ancora capito come distorcere a loro vantaggio i risultati dello sport. Un punteggio è un punteggio e secondi e minuti sono gli stessi ovunque, non si può piegare troppo la realtà nello sport. Le prime pagine analizzavano le possibilità dello Spartak Mosca nell'imminente primo turno di Coppa UEFA. Affrontavano una squadra finlandese e tutti gli esperti prevedevano che lo Spartak avrebbe asfaltato i finlandesi. Non essendo un grande tifoso di calcio, sfogliò il giornale cercando qualcosa da leggere. Alla fine, una frase attirò la sua attenzione. Ritornò sulla pagina, la scansionò e trovò cosa stava cercando. Un breve rapporto su quattro ciclisti sovietici “schiacciare la squadra americana nella sconfitta umiliante” ai mondiali juniores. Lesse nuovamente e sobbalzò sul sedile. Braccia al cielo, urlò nella carrozza piena di passeggeri: “Mio fratello è campione del mondo!” Si girò verso il suo amico addormentato sul sedile accanto per scuoterlo. “Liosha! Svegliati, Kolya è un campione del mondo!” “Cosa?” Replicò Liosha. “Kolya è un campione del mondo!” “Chi?” “Kolya, fratello mio.” “Quale fratello?” “Mio Fratello, stupido, mio fratello.” * * * Se non fosse stato per il ciclismo, uno come Anton e me non sarebbero mai potuti diventare amici. Era il figlio unico di un preside di scuola, senza amici, cresciuto da sua madre su Cechov e Dostoevskij. Mia madre proveniva da un piccolo villaggio sul fiume Volga. Lasciò la scuola all'età di quattordici anni dopo la guerra per aiutare a mantenere la famiglia. Era una contabile quando ero piccolo e mio padre era un idraulico. Ho bevuto tè georgiano da una tazza da mezzo litro. In casa di Anton, il tè proveniva dallo Sri Lanka ed era servito in porcellane cinesi. A scuola indossava i jeans della Levi's e scarpe da ginnastica di importazione jugoslava. Io non avrei mai osato chiedere a mia madre di comprarmi dei jeans, perché si sarebbero potuti comprare solo al mercato nero per una cifra folle. Mi avrebbe riso in faccia se glielo avessi chiesto. Aveva due anni più di me, una grande differenza di età a tredici anni, quando l'ho conosciuto. Avevo un fratello maggiore che scomparve dalla mia vita quando avevo sei anni. Undici anni più vecchio di me, non posso dire che siamo stati molto insieme. Di ogni volta potrei ripetere di qui all'eternità nella mia mente come abbiamo passato il tempo, ogni parola e ogni battuta che mi ha detto. Iniziò ad andare in giro con le compagnie sbagliate sin da bambino. Un giorno non tornò a casa. Lo aspettammo giorno dopo giorno, ma non fece ritorno. Pensavamo fosse morto. Mia madre piangeva ogni notte in cucina e la sua angoscia mi arrivava al midollo. Amava i cavalli e lei seppe che viveva in una scuderia sulle montagne. Io e mamma salimmo su un autobus e andammo al villaggio dove era stato visto. Mamma lo trovò, ma lui rifiutò di tornare a casa, qualcosa a che fare con la polizia. Ero troppo piccolo per capire. Una mattina la porta si aprì e Sergey, mio fratello, entrò. Papà era vicino alla porta, pronto ad andare al lavoro. Sergey entra e si guardano per un secondo. Papà, un uomo robusto con muscoli scolpiti, si ruota sul torso, si volta e scarica un pugno sulla faccia di Sergey. Il diretto lo manda a terra come se qualcuno gli avesse tolto un tappeto da sotto. Atterra col sangue che sgorga dal naso inondando tutta la faccia. Il pugno l'ha steso. Giaceva sul pavimento con le nostre scarpe, giacche e cappotti che si erano sparsi intorno a lui mentre si schiantava contro l'armadio. Mi sono seduto per terra e ho pianto mentre mia madre assisteva Sergey per farlo rinvenire. Sangue sul viso e sul petto, questo era un ribelle, un figliol prodigo che ha avuto la sua ricompensa per i problemi che aveva creato. Sul pavimento, in una pozza di sangue, ai miei occhi appariva come l'esempio del non obbedire alla forza, a non cedere all'autorità in qualsiasi forma essa si manifesti. Quando Sergey, non ancora diciottenne, disse che si sarebbe sposato, i miei genitori non protestarono. Pensavano che il matrimonio lo avrebbe portato sulla retta via, ma non lo fece. Ha litigato con l'uomo sbagliato e l'hanno rinchiuso per tre anni a novemila chilometri da casa. Quando mamma ha sentito il verdetto, si è inginocchiata e ha pianto. Mesi dopo, mi sveglio una notte per andare in bagno. La mamma è in salotto seduta da sola al tavolo della cucina con una fotografia sei per quattro di Sergey tra le mani. Le lacrime scorrevano, diceva: “Signore Dio, puniscimi. Puniscimi, ma ti prego, risparmia mio figlio.” L'amicizia di Anton ha colmato il vuoto che Sergey aveva lasciato quando era andato in prigione. Abitavamo due condomini di distanza e pedalavamo insieme per raggiungere la sede della squadra per l'allenamento. Sulla strada del ritorno, dopo esserci allenati con gli altri ragazzi, ci separavano e attraversavamo la città. Eravamo quelli che abitavano più distanti dalla squadra. È in queste pedalate che abbiamo perfezionato le nostre abilità di guida. Impennare, inchiodare con il freno anteriore e sollevare la ruota posteriore il più in alto possibile. Aprirsi gli sganci rapidi delle ruote l'uno con l'altro. E, la madre di tutte le abilità, procedere con i piedi sul manubrio. Facevamo le volate ai cartelli stradali e ai pali della luce nelle nostre pedalate verso casa. A nessuno interessavano queste volate tranne me e Anton che non ha mai perso uno sprint e non mi sarei dato pace finché non lo avrei battuto. Abbiamo disputato centinaia di questi sprint e non ho mai vinto una sola volta. Ho cercato di ingannarlo con volate a bassa velocità, brevi e dietro la curva. Individuavo un palo della luce a cinquanta metri di distanza, prendevo un po' di velocità da dietro e urlavo “L'arrivo è al palo!” e quindi lui faceva esplodere la sua potenza e mi batteva sulla linea immaginaria con le braccia alzate. Ho provato a colpirgli il manettino del cambio posteriore con la mano per indurirgli il rapporto e quindi sprintare. Non ha mai funzionato, mi batteva, rapporto troppo lungo o meno. Anni dopo, quando ormai aveva smesso correre, andammo a fare un giro intorno a Nalchik in una delle mie visite a casa dalla Titan. Pedalava la mia vecchia bici da inverno indossando sandali senza grip con una sigaretta in bocca. Io ero in buono stato di forma dopo un blocco di corse, era la mia occasione per batterlo in uno sprint. Aveva un rapporto troppo lungo per la velocità a cui stavamo andando. Scalai su un rapporto più agile, strinsi i cinghietti dei puntapiedi, mi misi in presa bassa, cinquanta metri da un palo della luce e urlai “Volata!” Mi ha ripreso a cinque metri dal palo e ha lanciato la bici sul “traguardo”, battendomi di mezza ruota. “Amico”, ha detto dopo aver ripreso a respirare. “Mi hai fatto perdere la sigaretta.” Quando Anton mi ha chiamato bratka, fratellino, per la prima volta, una parola che solo un vicino, fratello di sangue avrebbe usato, ho pensato che avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Si trasferì a Mosca per studiare e io andai a Kiev e non lo sentivo da più di un anno. Mi ero dimenticato del mio amico come avevo dimenticato tutto quello che non era rilevante per gli obiettivi che volevo raggiungere. Anche lui non era più lo stesso ragazzo di una piccola città provinciale nel Caucaso settentrionale. Era un moskvitch, un moscovita, che nuotava nelle acque bohemien degli eccentrici locali di Mosca. Aveva anche preso l'accento di Mosca, un'idiosincrasia irritante di cui non riuscivo a smettere di ridere quando ci siamo incontrati di nuovo a Nalchik. La Titan mi mandò a casa per rilassarmi dopo il mondiale e Anton tornò a Nalchik per un paio di settimane. Mi dissero di pedalare per almeno due ore al giorno. Non mi presi neanche la briga di togliere la bici dalla borsa e la nascosi sotto il letto lontano dai miei occhi. È il momento della fiesta. Il Comitato di Stato ucraino per la cultura fisica e lo sport mi diede duemila rubli per i miei risultati in Francia. Si sarebbe potuto vivere per un anno in URSS con quei soldi, ma volevo bruciarne un po' con il mio amico. Io e Anton salimmo su un jet Yak-40 da 24 posti e 45 minuti atterrammo a Sochi. Prendemmo un taxi all'aeroporto e andammo direttamente al ristorante Chaika nel porto di Sochi. Il Chaika era il tipo di posto dove si doveva corrompere il maître per entrare anche se non c'era nessuno nel locale. Un edificio in stile neoclassico stalinista con colonne e soffitti alti dieci metri. È dove si va a bruciare i soldi con stile. Servivano tutto al Chaika, dal beluga alla pizza. Gli ospiti speciali potevano ordinare vodka di qualità per l'esportazione conservata nel freezer. Ho dato un chetvertak, un biglietto da 25 rubli, al maître appena entrati e abbiamo chiesto un tavolo sulla veranda. Prese i soldi e li infilò nella tasca della giacca con due dita. Annuì ad un cameriere dall'aspetto effeminato con un grembiule con merletti della borgogna e una camicia bianca ed inamidata che stava in piedi come una sfinge accanto a lui in attesa del comando del maître. Appena vide il cenno, ci portò ad un tavolo con vista sulle navi da crociera ancorate a cento metri di distanza. Ci siamo seduti e abbiamo ordinato vodka Stolichnaya fredda e caviale nero. Il cameriere tornò con la vodka in un decantar di cristallo, una ciotola di caviale e un piatto di funghi di pino rosso marinati. “Dallo chef”, indicò i funghi con un sorriso. “Chiamatemi quando siete pronto per ordinare.” Entro la sera, dirigenti del governo in sovrappeso e personaggi della malavita riempirono il ristorante. Le ore volarono mentre parlavamo e ridevamo. Ridevamo sempre. Ci inventavamo battute che nessuno avrebbe capito. Ridevamo delle persone intorno a noi, ridevamo di noi stessi per delle cose ridicole che avevamo fatto. “Ehi, ti ricordi ...” era spesso l'introduzione di un aneddoto che sarebbe finito in un mare di risate. Abbiamo finito di cenare e ordinato una bottiglia di cognac da portar via, pagato il conto e siamo andati fuori per cercare un taxi. Un viaggio a Sochi non sarebbe stato un viaggio a Sochi se non avessimo nuotato nel Mar Nero. Un tassista armeno pazzo guidò come se gli rimanesse solo un'ora di vita. Ci portò in una spiaggia deserta a Dagomys dove nuotammo nudi, bevemmo cognac per riscaldarci e ridemmo. “Ehi, ti rendi conto di quello che hai fatto in Francia?” Anton disse dopo che ci fummo rivestiti e trovammo un posto dove sederci su un frangiflutti. “Ho vinto i mondiali?” “No, voglio dire, sì, ma...“si fermò e osservò l'orizzonte illuminato dalla luna. “Cosa?” “Ora sei un campione del mondo. Lo capisci?” Credo di sì.” “Ho detto a tutti a Mosca che il mio migliore amico è un campione del mondo e nessuno mi crede.” “Sono degli idioti.” “Pensano che vi creino nei laboratori in luoghi segreti assieme ai cosmonauti. Ma eccoti qui, un idiota di Nalchik con una maglia iridata. Mi spaventa questo pensiero.” “Non esagerare, era solo un campionato juniores.” “Chi se ne frega, junior-giovanile. Un campione del mondo è un campione del mondo. È un titolo per la vita. Tra trent'anni sarai ancora campione del mondo. Sai che tipo di porte questo titolo ti aprirà?” “Dimmi.” “Non fare lo scemi, lo sai?” “No, dico sul serio. Dimmi che tipo di porte si apriranno per me?” “Non lo so. Di tutti i tipi. D'ora in poi, presentati come Nikolai Razouvaev, un campione del mondo. Vediamo che succede.” Abbiamo riso di nuovo. “Finiamo la bottiglia e andiamocene”, disse Anton. “Si sta facendo freddo.” Original English version below. Anton was on a commuter train to Moscow when we touched down in Sheremetyevo airport from Paris. The cloned housing estates rushed in the opposite direction outside the train window. He turned his head away from the moving buildings and gazed inside the packed car. Most people were reading. The Intelligentsiya — books and literary journals. The Gapota, the plebes — newspapers and illustrated magazines. What the hell could you be reading on these pages cooked up by the spin doctors of the propaganda machine? It’s mind-numbing to even look at the headlines. New Era in the History of Humanity. Great Heroism of a Great People. Mighty Wings of Our Motherland. Everlasting Principles of Marxism-Leninism. Who writes this? They must be insane, those writers. How can they write this and not go mad? He cradled his face with both hands, rested the elbows on the knees and looked at the floor through the holes between his fingers. He saw a rolled up newspaper under the seat, jiggling in unison with the train. From what he could make out of the masthead it wasn’t a Pravda or Izvestiya. He picked it up to snigger at the imbeciles’ doublespeak and spread it open in his hands. It was a fresh issue of Sovetskiy Sport, the least poisoned newspaper out of Moscow. Still full of drivel, the Party’s minions hadn’t figure out yet how to distort sports’ results. A score is a score and seconds and minutes are the same everywhere, you can’t bend reality too much in sport. The first few pages analyzed FC Spartak Moscow’s chances in the upcoming first round of UEFA Cup. They played a Finnish team and all experts predicted Spartak will walk all over the Finns. Not a huge football fan, he flipped through the paper looking for something to read. At the end, a sentence caught his eye. He flipped back a page, scanned it and saw what it was. A short report about four Soviet cyclists “crushing American team in humiliating defeat” at junior worlds. He read the story again and jumped out of his seat. Arms in the air, he screamed into the car crammed with passengers, “My brother is a world champion!” He turned to his sleeping friend in the next seat to shook him. “Liosha! Wake up, Kolya is a world champion!” “What?” Liosha said. “Kolya is a world champion!” “Who?” “Kolya, my bro.” “What bro?” “My bro, you silly, my bro.” * * * If not for cycling, someone like Anton and I could have never become friends. He was the only son of a school principal raised alone by his mother on Chekhov and Dostoevsky. My mother was from a small village on Volga river. She quit school at the age of fourteen after the war to help raise the family. She was an accountant when I was growing up and my father was a plumber. I drank Georgian tea from a half-liter mug. Anton’s place, Ceylon tea brewed and served in imported china. He wore Levi’s jeans and Yugoslavian shoes to school. Me, I wouldn’t dare to ask my mom to buy me jeans because you could only buy them on the black market for the insane amount of money. She’d laugh in my face if I asked. He was two years older than me, a big gap at thirteen when I met him. I had an older brother who disappeared from my life when I was six. Eleven years older than me, I can’t say we hung out together a lot. Every time we did, I’d replay over and over in my mind the time he spent with me, every word and every joke he said. He bummed around with the wrong crowd since he was a kid. One day he didn’t come home. Day after day we waited for him to turn up but he wouldn’t. We thought he was dead. My mother wept every night in the kitchen and her anguish echoed in my bones. He loved horses and she heard a rumor he’d been living on a horse farm in the mountains. Mom and I boarded a bus and rode to the village where people saw him. She found him but he refused to come home, something to do with the police. I was too little to understand. One morning the door opens and Sergey, my brother, walks in. Dad was standing not far from the door ready to go to work. Sergey walks in and they look at each other for a second. Dad, a sturdy man sculpted by muscle chunks, swings back his torso, uncoils, and lands a blow on Sergey’s face. The jab sends him down to the floor as if someone pulled a carpet from under him. He lands with blood pouring from his nose all over the face. The punch knocked him out. He laid on the floor with our shoes, jackets, and coats scattered around him as he crashed into a wardrobe. I sat on the floor and cried while my mom nursed Sergey back into cognition. Blood on his face and chest, this was a rebel, a prodigal son who got his reward for the trouble he’d made. On the floor in a pool of blood, this is me fixed on not to obey force, not to yield to authority in whatever form it came. When Sergey said he’s getting married before he turns eighteen, my parents didn’t protest. They reasoned marriage would settle him down. It didn’t. He got into a fight with a wrong guy and they locked him up for three years nine thousand kilometres away from home. When Mom heard the verdict, she kneeled to the floor and wept. Months later, I wake one night to go to the toilet. Mom’s in the living room sitting alone at the dinner table with Sergey’s six-by-four portrait in her hands. Tears running down, she says, “Lord God, punish me. Punish me but please spare my boy.” Anton’s friendship patched the hole Sergey left when he’d gone to jail. We lived two apartment buildings from each other and rode to our cycling club together to train. On the way back, we’d start riding with a few other boys and they’d split as we went along through the city. We lived the farthest from the club. It is on these rides we polished our bike handling skills. The wheelies, braking with the front brake and lifting the rear wheel as high as possible. Undoing each others’ quick releases. And, the mother of all skills, riding with your feet on the handlebar. We sprinted to street signs and light poles on these home rides. No one cared for these sprints except me and Anton. He never lost a sprint and I couldn’t rest until I’d beat him. We’ve had hundreds of these sprints and I’d never won once. I tried to trick him on these low speed, short, small-ring sprints. I’d mark a light pole fifty meters away, pick up some speed from behind and yell “Finish at the pole!” and he’d detonate a blast and beat me to the imaginary line with arms in the air. I tried hitting his rear shifter with my hand to overgear him and then sprint. It never worked, he’d beat me overgeared or not. Years later, when he stopped racing, we went for a ride around Nalchik on one of my visits home from Titan. He rode my old winter bike in slide sandals with a cigarette in his mouth. In good shape after a block of racing, now was my chance to beat him in a sprint. He was overgeared for the speed we were rolling at. I clicked into an easier gear and tightened the pedal straps, grabbed the drops fifty meters from a light pole and yelled “Sprint!” He caught me with five meters to go and threw the bike to the ‘line’, undercutting me by half a wheel. “Dude,” he said after he got his breathing back. “You made me lose my cigarette.” When Anton called me bratka, little brother, for the first time, a word only a close, blood brother would use, I thought I’d do anything for him. He moved to Moscow to study and I went to Kiev and haven’t heard from him for over a year. I forgot about my friend like I forgot everything else that wasn’t relevant to the goals I set out to achieve. He too wasn’t the same kid from a small, provincial city in North Caucasus. He was a moskvitch, a Muscovite, swimming in bohemian waters of Moscow’s eccentric hangouts. He even picked up the Moscow’s accent, an annoying idiosyncrasy I couldn’t stop myself laughing at when we met again in Nalchik. Titan sent me home to wind down after the championship and Anton came to Nalchik for a couple of weeks. They told me to ride for at least two hours a day. I didn’t bother to unpack the bike and hid it under my bed away from my eyes. Fiesta time. Ukrainian State Committee of Physical Culture and Sports gave me two thousand rubles for my efforts in France. You could live for a year in USSR with this money but I wanted to burn some of it with my friend. Anton and I boarded a twenty-four-seat Yak-40 jet and forty-five minutes later landed in Sochi. We took a cab from the airport and went straight to Chaika restaurant in Sochi’s seaport terminal. Chaika was the kind of a place where you had to bribe maître d’hôtel to get in even if no one was dining inside. A neo-classicism Stalinist style building with columns and ten-meter-high ceilings. It’s where you go to burn cash in style. They served everything from beluga to pizza in Chaika. Special guests could order export-quality vodka from the freezer. I gave a chetvertak, a twenty-five-ruble note, to the maître when we walked in and asked for a table on the veranda. He took the money and slid it into the vest’s pocket with two fingers. He nodded at an effeminate-looking waiter in a burgundy bib apron and a crisp white shirt who stood as a sphinx next to him waiting for the maître’s command. The moment he saw the nod, he took us to a spot with the view on cruise ships anchored a hundred meters away. We sat down and ordered iced Stolichnaya and black caviar. The waiter came back with vodka in a crystal decanter, a bowl of caviar, and a plate of marinated red pine mushrooms. “From the chef,” he pointed at the mushrooms with a smile. “Call me when you’re ready to order.” By the evening, overweight government executives and underworld characters filled the restaurant. The hours fled by as we talked and laughed. We always laughed. We made up jokes nobody would understand. We laughed at people around us, laughed at ourselves for goofy stuff we’ve done. “Hey, do you remember…” was often an opening remark to an anecdote that would end in a laughing storm. We finished the dinner and ordered a bottle of cognac to go, paid the bill and headed outside to find a cab. A trip to Sochi wouldn’t be a trip to Sochi if we hadn’t swam in the Black Sea. A crazy Armenian cabbie drove us as if he had only an hour to live. He took us to a deserted beach in Dagomys where we swum naked, drank cognac to keep ourselves warm and laughed. “Hey, do you realize what you’ve done in France?” Anton said after we got dressed and found a place to sit down on a wave breaker. “Won the worlds?” “No, I mean yes, you have, but — ” he paused and looked into the moon lit horizon. “What?” “You’re a world champion now. Do you understand that?” I guess.” “I told everyone in Moscow my best friend is a world champion and no one believes me.” “They’re stupid.” “They think they breed you guys in labs at secret locations next to the cosmonauts. But here you are, a bonehead from Nalchik with a rainbow jersey. Freaks me out this thought.” “Don’t get carried away,” I said. “It was only a junior championship.” “Who cares, junior-shmunior. A world champion is a world champion. It’s a title for life. Thirty years from now, you still be a world champion. Do you know what kind of doors this title will open for you?” “Tell me.” “You’re stupid, you know that?” “No, I’m serious. Tell me what kind of doors it will open for me?” “I don’t know. All kinds. From now on, introduce yourself as Nikolai Razouvaev, a world champion. See what happens.” We laughed again. “Let’s finish the bottle and get out of here,” Anton said. “It’s getting cold.” ![]() Fui selezionato per i campionati del mondo juniores e volammo in Francia. I Giochi olimpici di Los Angeles, boicottati dall'Unione Sovietica e dal blocco orientale, erano finiti alcuni giorni prima. Quel campionato fu il primo evento dopo le Olimpiadi in cui atleti sovietici e americani si incontravano. I vertici del Paese, ci disse il dirigente in capo della nazionale, non vogliono che gli americani vincano. Neanche una gara. Gli organizzatori ci avevano messo nello stesso hotel degli Yankees. In arrivo da un'uscita di allenamento una mattina li vedemmo in tuta a stelle e strisce scaricare le bici da un pullman. L'attrezzatura da cronometro che tirarono fuori dai borsoni porta bici sembrava di provenienza aliena. Telai con tubi a profilo aero, ruote anteriori piccole con cerchi a profilo alto e ruote posteriori lenticolari. Caschi aero grossi come una bomba e, cosa ancora più strana, il nostro direttore sportivo chiacchierava con quello americano. Li passiamo pedalando e parlano russo. “Eddie Borysewicz, un vecchio amico”, ci dice il nostro direttore sportivo seduto a tavola per il pranzo. “Ha defezionato negli Stati Uniti dalla Polonia anni fa. Allenava la nazionale polacca juniores, ora lavora con gli americani. Dice che i suoi ragazzi sono velocissimi e sarete fortunati se non vi prenderanno. Sono gli ultimi a partire, ricordate? Voi due minuti prima di loro”. Sogghignammo all'idea che un'altra squadra ci venisse a prendere. Sognatori. Distanziammo gli americani di venti secondi nei primi dieci chilometri. Il vantaggio crebbe ad ogni controllo cronometrico. Lavorando come un orologio svizzero, dando cambi in testa di trenta secondi senza problemi, fummo in testa dall'inizio alla fine senza fiatare. A un chilometro dal traguardo abbiamo iniziato a sorridere e a stringerci la mano. Avevamo più di un minuto di vantaggio sui secondi, gli USA. Abbiamo vinto l'oro. E senza nessun patema. Avevamo portato sei corridori in Francia e vi erano due posti disponibili per la gara su strada. Il percorso vallonato con un lungo rettilineo di arrivo mi si addiceva e il DT mi chiese se volessi correre. Dopo aver passato il processo di selezione, l'addestramento, dissi di no. Con la maglia iridata in borsa non avevo più motivazioni per gareggiare e volevo una pausa. E, mentre tutti sarebbe stati alla gara, io avrei preso la fuga. Durante i miei giri intorno a Caen, dove eravamo alloggiati durante il campionato, osservai una stazione di polizia. Dal nostro hotel potevo raggiungerla in bici in quindici minuti. Dalle storie che avevo sentito su Radio Free Europe su altre defezioni, recarsi alla polizia era l'opzione migliore. Se avessi detto loro che la mia vita era in pericolo, e che non volevo tornare in URSS, avrebbero dovuto lasciarmi restare. Attesi che tutti si recassero sul percorso della gara e misi la maglia iridata, la medaglia e i soldi in uno zaino che avevo comprato appositamente per la defezione. Uscii, salii sulla mia Colnago e pedalai verso la stazione di polizia nel centro della città. Il mio cuore pompava sangue nelle vene con colpi accelerati e le budella mi si contorcevano. Le gambe sembravano maccheroni scotti, anche se avevo un rapporto agile. A duecento metri dalla stazione, mi voltai per controllare se l'agente del KGB che doveva occuparsi di noi mi stava seguendo. Ci siamo, dieci minuti e posso dire all'inferno sovietico “Au revoir”. Si dimenticheranno della bici che sto pedalando in tutto questo casino della defezione che sto per fare? Una Colnago Nuovo Messico rosso Saronni che aveva solo due settimane, volevo tenerla. No, non lo faranno. La notizia verrà resa pubblica? Qui in Francia, di sicuro. “Un campione del mondo dell'Unione Sovietica defeziona a pochi giorni dalla fine dei Giochi di LA” E a casa, se ne accennerà minimamente sui giornali? Mio padre, era silenzioso al telefono quando gli dissi che sarei andato in Francia a gareggiare per i Mondiali. Era silenzioso perché piangeva: “Yuri Elizarov, questo ragazzo, vorrei guardarlo negli occhi, stringergli la mano e ringraziarlo”. Mia madre, che quando iniziai con il ciclismo aveva detto che avrei smesso di andare in bicicletta dopo solo due settimane, ora volevo mostrarle la mia medaglia. “Vedi? Non ho lasciato il ciclismo”. Mi fermai davanti alla stazione di polizia e fissai la porta. Tre passi ed è fatta, non tornerò mai più, non indosserò mai più la maglia rossa della CCCP. Ho guardato dall'altra parte della strada e ho visto un bistrot a cento metri. Siediti, fatti una birra e pensa a cosa stai facendo un'altra volta. Non sono arrivato al bistrot. Non potevo andarmene, non in questo modo. Girati per tornare al porcile da cui sei venuto perché sei uno di loro. Un maiale in un porcile che si vuole strofinare le spalle con altri maiali e godersi il dovuto omaggio. Ho una maglia iridata adesso, dammi il cinque e vediamo cos'altro posso fare. La defezione può aspettare. Posso andarmene quando voglio. Continua.... www.sportintranslation.com ![]() Vinsi la prima tappa a cronometro a Samarcanda e proseguimmo con una vittoria nella cronometro a squadre. Il giorno dopo misi la ciliegina sulla torta con un altro primo posto in una tappa in linea. Se uno tappa era sufficiente per qualificarsi, cosa sarebbe successo con tre di fila? Il direttore tecnico della nazionale raggiunse la nostra ammiraglia dopo la terza tappa per stringermi la mano e darmi il benvenuto in nazionale. Ero dentro. Qualificarsi significava andare a gareggiare nell'Europa occidentale e, se avessi avuto il coraggio di fare il salto, non tornare mai più in URSS. La prima trasferta arrivò in giugno, la corsa a tappe Schleswig-Holstein Rundfahrt nella Germania Ovest. Avevo due giorni da far passare prima di volare ad Amburgo. Saltai su un aereo e andai a trovare Piotr Trumheller a Nalchik, la mia città natale. Appena seduti nel suo appartamento per la cena mi versò un colpo di vodka, un uomo che condivide un pasto con un altro uomo. Gli dissi che la nazionale della Germania dell'Est schierava Olaf Ludwig, il campione del mondo su strada Uwe Raab e Uwe Ampler. “Sei preoccupato? “ mi chiese. “Sì. Soukhorouchenkov li ha annientati nella Corsa della Pace un paio di settimane prima. Vorranno vendicarsi ed eccoci qua, con le nostre maglie rosse. Ci inseguiranno come cani rabbiosi”. “Ti faranno vedere i sorci verdi, di sicuro”, disse. “Ma questi sono i ragazzi contro cui gareggerai l'anno prossimo. Prima impari come funziona, più sarai preparato. È la stessa cosa che abbiamo fatto a Maykop. Hai affrontato ragazzi di un livello superiore per forgiarti. Ha funzionato, non è così?” Mi disse come fosse bizzarro che io avrei visto la Germania prima di lui, un tedesco etnico. Gli risposi che avrebbe dovuto andare a Berlino e saltare il muro. “Chi si prenderebbe cura di mia moglie e dei miei figli se lo facessi?” replicò. Ci zittimmo per un attimo e bevemmo un altro bicchiere di vodka. “Tornerai?” mi chiese e ci versò un altro cicchetto. “Non lo so. Voglio la maglia iridata. Solo allora me ne andrò. E se non mi convocano per i Mondiali? Quindi? Dovrei defezionare in Germania?” Lasciò la stanza per un minuto, tornò con un mucchio di tubolari avvolti nella carta da pacchi. “Cento”, disse, annuendo al mucchio con la testa. “Una scorta che ti ho preparato quando ho saputo che eri entrato in nazionale. Portali in Germania, fai un po' di soldi prima di andare in Francia e lì prendi la fuga. Hai bisogno di quella medaglia d'oro”. Il rublo era un pezzo di carta senza valore fuori dall'URSS, i tubolari sovietici erano la valuta di scambio. La matematica alla base di questo affare indotto dal socialismo era semplice. Il prezzo di mercato dei nostri tubolari in Unione Sovietica era di quattro rubli, il dollaro statunitense aveva lo stesso valore al mercato nero: un tubolare, un dollaro USA. Spendi duecento rubli per cinquanta tubolari e li rivendi agli Italiani o ai Tedeschi per dieci dollari l'uno. Prodotti della stessa qualità in Europa occidentale costano il doppio. Una volta che hai la valuta straniera, la porti a casa e la scambi al mercato nero per meno di quattro rubli per dollaro. I 500 dollari che hai portato da una gara sono ora quasi duemila rubli. I miei genitori insieme guadagnavano quattrocento rubli al mese. Avrei potuto fare duemila dollari con una sola gara in Europa portando cinquanta tubolari oltre il confine per venderli. Volare fuori dal paese non mi preoccupava tanto quanto tornare indietro. Perdere il valore di duecento rubli in tubolari, se la dogana li avesse confiscati era un rischio di impresa, ma portare i dollari in patria non lo era: possedere, comprare, vendere, o contrabbandare valuta estera dentro o fuori dall'URSS era un reato punito con un periodo di carcere così lungo che neanche volevo saperlo. Come fare lo imparai da un compagno di squadra che ci era già passato: il cannotto reggisella. Ho saputo del ruolo del reggisella nel contrabbando quando ad alta voce mi sono chiesto quale fosse il modo più sicuro per far passare una mazzetta di contanti attraverso la dogana. “Arrotolali, fasciali e mettili nel reggisella. Non controllano mai le bici. I bagagli, quelli sì. Ti perquisiranno se avrai un'aria preoccupata. Ma la bici…mai”. Continua.... www.sportintranslation.com |
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September 2020
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