![]() La prossima edizione dei Giochi si terrà nel 2021 e quale futuro per le Olimpiadi? La situazione mondiale sul Covid-19 è in continua evoluzione e nessuno sa quali possano essere gli sviluppi futuri. Stante la situazione attuale si può immaginare uno scenario relativamente tranquillo in Giappone nella prossima estate. Ma le Olimpiadi sono un evento di tale portata che sconvolgono la vita di un paese. Nel prossimo luglio il Giappone vorrà aprire le sue frontiere a migliaia di atleti e accompagnatori da ogni parte del mondo? Inoltre, nella prossima primavera, le gare di qualificazione si potranno svolgere regolarmente? Questi i due principali quesiti per i prossimi giochi olimpici che esigono una risposta immediata. Ma vi sono altre domande che riguardano in generale l’evento olimpiade e il suo futuro. L’attuale modello olimpico ha ancora senso? Tutti sanno che le Olimpiadi moderne sono nate dall’idea romantica del barone Pierre de Coubertin di riportare in vita i giochi olimpici che si tenevano nel periodo della Grecia classica presso la città di Olimpia. La prima edizione dei giochi moderni fu organizzata ad Atene e si svolse nell’arco di dieci giorni dell’aprile 1896. La seconda, che nei piani avrebbe dovuto essere la prima, si svolse in concomitanza dell’Expo di Parigi del 1900. I Giochi, oltre alla Tour Eiffel, sono uno dei lasciti di quella edizione dell’esposizione universale. Gli eventi seguirono il calendario dell’Expo e furono spalmati su ben sei mesi. Nonostante le pause dovute alle due guerre mondiali e i boicottaggi, le Olimpiadi sono arrivate fino ai giorni nostri. Ma a che prezzo? I flop finanziari delle Olimpiadi. Già l’edizione del 1908 ha rischiato il fallimento economico, ma, restando a tempi più recenti, tutte le ultime edizioni hanno avuto deficit di dimensioni spaventose, nel caso di Atene 2004 anche contribuendo al crack finanziario del paese. È vero marketing territoriale? Gli organizzatori confidano sempre in un flusso di turisti durante le due settimane dei Giochi. Di fatto, l’evento allontana i turisti abituali e non attira abbastanza appassionati di sport per rimpiazzarli. Emblematico il caso dei Commonwealth Games, la versione di Giochi riservate alle nazioni dell’ex impero britannico, tenutisi nel 2018 nella Gold Coast, Australia. Nei mesi precedenti gli organizzatori avevano scoraggiato i locali dal raggiungere i luoghi di gara con la propria auto. Nelle previsioni, molti appassionati stranieri si sarebbero riversati nella costa est australiana per l’evento, creando ingorghi. L’Australia non è esattamente vicina per nessuna nazione del Commonwealth, tranne la quasi disabitata Nuova Zelanda. I tifosi stranieri non sono arrivati, quelli locali hanno seguito il suggerimento e non si sono presentati neanche con i mezzi pubblici. Risultato, dopo il flop dei primi giorni, autorità locali e organizzatori invitavano ad andare nella Gold Coast in auto per assistere all’evento. Ma il vero obbiettivo del marketing territoriale è il flusso turistico negli anni seguenti l’evento. Partiamo dal “brand” delle ultime tre città ospitanti: Londra 2012, Rio 2016 e Tokyo 202? Tre nomi che tutti hanno ben presenti, ognuno ricorda almeno un luogo legato a ciascuna di queste città. Quale valore aggiunto hanno apportato le Olimpiadi? Sotto questo punto di vista avrebbero avuto maggio benefici, per fare tre nomi a caso, Leeds, Brasilia e Yokohama. Mentre scrivo ho ben impresse le iconiche immagini dei ginnasti nelle terme di Caracalla a Roma 1960 e i tuffatori “infilzati” dalle guglie della Sagrada Famiglia di Barcellona 1992. Ma nelle Olimpiadi moderne, quanto vediamo della città? Quei due sport, come la maggior parte di quelli in programma, ormai si svolgono in strutture coperte, le esigenze televisive non tollerano interruzioni per pioggia o riprese senza luci perfette. Dentro un palazzetto, solo i cartelloni a bordo campo ricordano la città ospitante. Sono rimasti poche specialità che hanno come sfondo la città. A memoria: ciclismo su strada, triathlon, maratona, marcia, quest’ultima sempre in forse a ogni edizione. Anche la mountain bike si svolge su circuiti praticamente artificiali, così come la canoa e il golf. La vela è un capitolo a parte, mostra la costa, ma marchiata da un brand di una città diversa, spesso lontana centinaia di chilometri. Senza una ricerca in internet, non ricordo dove si siano svolte le prove di vela nel 2012, di sicuro non a Londra come recita il medagliere. Per quanto riguarda le riprese esterne, i Giochi invernali sono una vetrina migliore, ma né Salt Lake city né Lillehammer sono balzate in testa ai luoghi preferiti dagli sciatori dopo aver ospitato le Olimpiadi. È vera promozione sportiva per il territorio? Assegnare le Olimpiadi ad una sola città significa concentrare gli impianti in un’area ristretta. Significa costruire strutture in un territorio dove spesso non esiste una tradizione per quello specifico sport. Le tristi immagini di impianti in disuso dopo l’evento sono note a tutti. Non basta erigere un velodromo per spingere i ragazzini al ciclismo su pista, servono anche tecnici e società locali. Una piattaforma per tuffi senza un istruttore non solo è inutile, è pericolosa. Assistiamo a scuole sportive nazionali che nascono in vista dell’evento, come quella ciclistica britannica per Londra 2012, per portare medaglie alla nazione ospitante, ma raramente sulla scia dell’evento. I Giochi possono essere un vero volano sportivo e turistico? A mio parere sì, ma debbono cambiare l’impostazione romantica attuale. Il primo passo è superare la concezione degli atleti concentrati in un unico luogo e per due sole settimane. Dopo quattro anni di digiuno, il telespettatore si ritrova davanti ad un’abbuffata di sport senza logica, dove il debutto olimpico del triathlon a Sydney 2000 viene interrotto per trasmettere la prima batteria di qualificazione di canottaggio. Il tutto con l’appassionato di triathlon che, a causa del fuso orario australiano, si è svegliato alle quattro del mattino e si ritrova ad assistere a un evento che non aveva previsto, esperienza personale. Il programma estivo dovrebbe essere spalmato sui tre mesi estivi, o almeno su un intero mese. Questo risolverebbe anche il problema dell’ospitalità. Il villaggio olimpico è ricco di fascino, di storie di amicizia e amore come quella tra Livio Berruti e Wilma Rudholf, ma è anche una voce pesante del bilancio e la sua riconversione è spesso incerta, non tutte le città hanno bisogno di un dormitorio universitario. I Giochi, inoltre, non dovrebbero essere più organizzati da una singola città, ma da una nazione così come è per i mondiali di calcio. In questo modo si costruirebbero impianti nuovi o si rinnoverebbero impianti esistenti dove vi è la richiesta, come un impianto dei tuffi a Bolzano in caso di Olimpiadi in Italia. La sede congiunta di Milano- Cortina va già in questa direzione, fanno male gli impianti del salto con gli sci di Pragelato costati 34 milioni di euro abbandonati dopo Torino 2006. Addio al romanticismo delle Olimpiadi? Forse. Lo spirito olimpico verrà diluito, il pathos diminuito? Molto probabilmente sì, ma in nome di questo possiamo pensare che questo evento faccio naufragare conti pubblici senza ritorni né turistici né sportivi? www.sportintranslation.com www.giuseppegambarini.it ![]() Fino a poco tempo fa l’affitto di un bene per lunghi periodi era associato solo agli immobili e comunque visto come una scelta di ripiego per chi non potesse permettersi un mutuo. In Italia anche l’acquisto a rate ha riscontrato molte resistenze rispetto a mercati con un alto tasso di indebitamento come quello statunitense. Negli ultimi tempi, l’idea di sostituire la proprietà con affitti di lunga durata ha fatto capolino anche nell'utente privato, specie per quei beni la cui obsolescenza è inevitabile. Esempio classico le sempre più presenti offerte di auto utilitarie in affitto. Questa azienda slovacca ha spostato l’asticella ad un livello più alto. Parliamo di sport, tempo libero, e parliamo di beni in affitto molto legati all'utilizzatore, direi quasi intimamente legate, quali le maglie per ciclismo. La Isadore, fondata e gestita dai due fratelli Velits, ciclisti professionisti di primo livello negli anni duemila, offre un servizio di abbonamento, a partire da 35€ al mese. L'offerta prevede il recapito a casa di una maglia a scelta, il suo uso per 90 giorni e la restituzione, sempre via corriere, al termine del periodo. Il capo viene sostituito gratuitamente in caso di danneggiamento o smarrimento, anche quando imputabile all'utilizzatore. Lo stesso capo verrà accuratamente lavato e igienizzato per essere affittato ad un alto utente, il ciclo si conclude con il riutilizzo della fibra per la costruzione di materiale isolante. Indubbiamente un procedimento molto ecologico e sostenibile. Il sito garantisce un risparmio del 50% rispetto all'acquisto della fornitura annuale. Sinceramente, sono dubbioso sulla convenienza di questa particolare offerta, comunque non disponibile in Italia. Ma per beni di valore ben maggiore e in continua evoluzione, almeno agli occhi dell’amatore, quali le biciclette, la soluzione dell'affitto di lunga durata potrebbe essere interessante. L’era della proprietà è sulla via del tramonto? Che ne pensate? ![]() Dalla radio dell'auto lo speaker annunciò che attualmente vi erano nove gradi Celsius a Mosca e una pioggerellina ghiacciata prevista nel proseguo della giornata. Con questa notizia ci siamo diretti all'Università Statale di Mosca, sede di partenza della cronometro a squadre. Attualmente? Cosa significa? Il sole splenderà quando saremmo usciti dall'auto? Il mio petto era colmo di disgusto per il ciclismo, la pioggerellina, la Mosca bagnata fuori dal finestrino dell'auto e Nikolai Rogozyan. La radio stava ora diffondendo la visione della nuova Unione Sovietica di Mikhail Gorbaciov, appena incaricato dal Politburò della sua costruzione. Era il quarto Segretario Generale del Partito sotto cui vivevo, i tre precedenti erano morti uno dopo l'altro. Eravamo usciti dal sentiero, diceva, il sentiero che il nostro grande Lenin aveva tracciato sessantacinque anni fa. Il sentiero pavimentato con le ossa dei nostri antenati che ci avevano preceduto. Abbiamo marciato lungo questo sentiero, ci siamo distratti, e ora è arrivato il momento di tornare su di esso prima di perdere ciò che avevamo costruito. Perdere cosa? Cosa avevamo costruito? Una prigione per 300 milioni di persone? Fattorie collettive e negozi di alimentari vuoti? Auto che si rompevano prima di lasciare la fabbrica, le stesse che non potevi comprare da nessuna parte tranne il mercato nero? Sì, certo, abbiamo costruito stazioni spaziali e armi nucleari, jet da combattimento, l'AK-47, i sottomarini. Venite a prenderci. Un pozzo prosciugato. Dicci che grande nazione siamo. Chiamaci di nuovo alle armi, lo vogliamo. Se l'America vuole il nostro sangue, venga a prenderselo. Bombardate quei bastardi, cosa stiamo aspettando? Vogliono la guerra? Daremo loro la guerra. Non ne hanno mai avuta una, non una vera sul loro suolo, comunque, non sanno cosa significhi perdere un milione o due di vite in una battaglia. Li spazzeremo via prima che abbiano il tempo di scavare le loro stesse tombe. Morire in guerra, è quello che facciamo, lo adoriamo. Venite, cani, venite e assaggiate. Quando senti l'odore di una rissa, mio fratello mi ha detto la sera prima che iniziassi la prima elementare, non aspettare che ti travolga. Colpisci per primo. Colpisci, non smettere di colpire. La paura, la gente capisce la paura. Ho finito la scuola con le nocche sfregiate per aver rotto i denti agli altri ragazzi. I cani mangiano i cani. Avrei dovuto ascoltare mio padre e rimanere in una scuola di scacchi. Mi ha insegnato a giocare quando avevo sei anni. La domenica mattina correvo nella camera dei miei genitori con una scacchiera, saltavo sul letto di papà e gli chiedevo una partita. Non ha mai rifiutato. Metteva da parte il suo giornale, il Trud, e mi concedeva due partite, una per ogni lato. Parlò con un giocatore professionista che conosceva e iniziai ad andare alle lezioni di scacchi che teneva nel seminterrato di una scuola locale. Mio padre non ha mai mostrato che avesse a cuore i miei interessi, tranne quando ero preso dagli scacchi. “Hai gli scacchi nel sangue”, mi disse mentre ci sedevamo sul suo letto una mattina per giocare. “È un gioco per persone solitarie. Sarai un buon giocatore.” Arrivammo alla zona di partenza recintata da transenne d'acciaio e soldati in impermeabili inzuppati. Le ammiraglie sparse in un largo spiazzo assegnato dalle autorità al gruppo. I corridori, i meccanici e i direttori sportivi si muovevano avanti e indietro tra le auto con le loro giacche a vento blu marina o nere e i berretti bianchi girati all'indietro con la visiera all’insù. Parecchi ragazzi si stavano riscaldando sui rulli. Ho chiuso gli occhi per immaginare come potrebbe andare oggi la gara, come avrebbe potuto svolgersi e i diversi epiloghi. Vicino alla linea di partenza, seduto sulla sella con la schiena ritta, braccia a penzoloni, guardai un grande cronometro Omega. Dieci secondi alla partenza, mi abbassai e afferrai il manubrio per spremerlo con forza per contrarre i muscoli, percepire “ok, pronto” da dentro il tuo corpo. Il cuore inizia a pompare con battiti rumorosi, un colpo, un colpo nelle orecchie e si sente il primo bip, sei secondi alla partenza. Perché proprio sei non l'ho mai saputo, ma quando inizia a trillare, tutto gli altri rumori si zittiscono e tutto ciò che si sente è il bip dell'Omega. Cinque, quattro, tre, due, uno, via. Siamo andati a tutto gas fin dal colpo di pistola. Un buco si è creato davanti a me appena fuori dal cancelletto perché avevo saltato il riscaldamento. In questo congelatore, le mie gambe erano come travi di cemento. Poiché si trattava di una cronometro inserita in una corse a tappe le squadre erano composte da sei corridori invece di quattro. Avrei potuto chiamarmi fuori prima di raggiungere il primo chilometro. Il cronometro si fermava con il quarto corridore oltre la linea, avevamo ancora un uomo di riserva se mi fossi ritirato. Ho immaginato il sorriso subdolo che sarebbe comparso sulla faccia di Rogozyan mentre mi passava in macchina. Ti stai rammollendo, festaiolo? Stasera sarà al telefono con Elizarov per dirgli che sono saltato nei primi trenta secondi di gara. “Oh, e comunque ha passato la notte nessuno sa dove.” Trenta secondi, anche un cadavere durerebbe più di così. Ho abbassato i gomiti, spinto e cercato di non perdere ulteriore terreno. Tra pochi secondi il primo in testa dovrebbe chiedere il cambio e quindi chiudere il buco davanti a me. Sarei stato a ruota un giro o due, mi riscaldavo, entravo in gara e facevo il mio lavoro normalmente. Nessun problema. Rogozyan non si libererà di me oggi. A due chilometri dall'arrivo ho tirato fino all’attacco dell'ultima salita e mi sono fiondato a sinistra dei miei compagni di squadra. Sono fuori ragazzi, arrivederci. Stavo deragliando sulla corona piccola quando Rogozyan mi affiancò con l'auto. I nostri occhi si sono incontrati. “Che diavolo stai guardando?” avevo dipinto in faccia. “Ti avrò in pugno un giorno, bastardo che non sei altro”, lessi sul suo viso. Continua.... www.sportintranslation.com ![]() Mentre il mondo si appassiona alla serie TV sul disastro nucleare di Chernobyl, Nikolai lo ha vissuto in prima persona, ovviamente dalla sua bici. Ecco un estratto, continuate a seguirci per la storia completa! "Atterrammo a Kiev e sulla strada dall'aeroporto Tolik ci disse che la centrale nucleare di Chernobyl era esplosa la sera precedente. Male, questo sarà un problema, dicemmo. “Sapete dov'è Chernobyl?”. Qualcuno provò ad indovinare e disse che era in Ucraina, da qualche parte. “A cento chilometri da Kiev”, disse. Si zittì e guidò come se non avesse niente altro da aggiungere. Ci accodiamo, non dicemmo nulla, e a chi importa, comunque. “Incendio o qualcosa del genere”, disse singhiozzando nel suo sedile che aveva modificato per molleggiare sui sobbalzi della strada. “È quello che ho sentito. Se ne sono andati tutti da Pripyat. Evacuata. È tremendo”. Mandarono i pompieri a spegnere un incendio senza dir loro che il reattore nucleare si era crepato, sputa tossine radioattive uccidendo tutta quello che incontra. Tienilo segreto. A mille chilometri da Chernobyl un allarme nucleare suonò in Svezia. È così che il mondo ne venne a conoscenza. Ma noi non ci preoccupiamo. Il vino rosso rimuove le radiazioni dal corpo. Questo non lo sanno in Svezia o in Germania. Nessuno sa niente. Mentono in televisione. Chiamano un giornale Verità [Pravda in russo, NdT] e lo riempiono di bugie. Suonano Tchaikovsky alla radio come se metà del Paese fosse Romeo e l'altra metà Giulietta. Ti sintonizzi su la gracchiante Voice of America per capire cosa sta succedendo. Ascolti. Qualcuno ha liberato un genio della morte da una bottiglia e ora se ne va in giro spargendo distruzione. Alcune persone sono morte subito, altre moriranno in seguito" #Chernobyl #NikolaiRazouvaev #cycling #translationservices ![]() Jason Fitzgerald è l’autore del libro che ripercorre le vite dei due pionieri del triathlon Dave Scott e Mark Allen, nel cammino che li ha portati alla sfida spalla a spalla durante l’Ironman Hawaii del 1989 conosciuta come Ironwar, da cui il titolo del libro. In un breve articolo pubblicato per Triathlete USA sviluppa un argomento interessante e con conclusioni all’apparenza controintuitive: non si deve cercare di dimagrire mentre si svolge un programma di allenamento. Mi sembra di vedere lo sguardo interdetto del lettore che ha sempre saputo, e magari sperimentato sulla propria pelle, che gli sport aerobici sono l’ideale per dimagrire. L’assunto è certamente corretto, come dimostrato da alcuni studi scientifici, anche se ne possono trovare altri per cui allo scopo del dimagrimento sarebbero più indicati sforzi brevi ed intensi. Ma senza approfondire la diatriba, il comune denominatore è che l’attività fisica è essenziale al dimagrimento, insieme all’altra componente del deficit calorico. Si, perché nonostante continuamente appaiano nuove diete dimagranti dai nomi sempre più esotici, tutte si basano sui due fattori principali per dimagrire:
Definiamo ora cosa sia un programma di allenamento rispetto alla “semplice” attività fisica: allenarsi significa spingere il proprio corpo al limite, creare uno stimolo allenante, uno stress, per fare in modo che il corpo inneschi cambiamenti positivi. Obbiettivo finale dell’allenamento è finire la gara con il migliore tempo possibile, o anche solo finire la gara se è la nostra prima sulla distanza. Ritorna quindi il concetto di stress. Per aiutare il nostro corpo a reagire a questo stress bisogna fornire il giusto quantitativo di energia e riposo. Non dimentichiamo che la componente più importante dell’allenamento è la continuità insieme alla progressività, ossia aumentare continuamente e progressivamente il carico allenante. È possibile dare costanza all’allenamento solo con la corretta alimentazione e recupero, che è il momento in cui il corpo trasforma la fatica accumulata, o stimolo allenante, in condizione o forma fisica. Provando a dimagrire allenandosi si sommano due stress, con il risultato di allenarsi male, o addirittura per il nostro corpo potrebbe essere veramente troppo con conseguenti infortuni come fratture da stress, non a caso, o psicologici, come uno stato di perenne insofferenza. La soluzione? Dimagrire con l’attività fisica, ovvero esercizio fisico non troppo intenso, non strutturato che segua i ritmi del corpo per un adeguato recupero, non la nostra tabella di marcia verso la gara. Il periodo ideale per questo solo le 6-8 settimane di condizionamento generale precedenti la preparazione specifica. Questo vuol dire che non si dimagrirà durante il programma di allenamento? Purtroppo, dovremmo dire, sì, perché un programma di allenamento intenso richiede un quantitativo di energia elevato, spesso impossibile da compensare, anche ricorrendo agli integratori. In ottica prestazione questo non è necessariamente un fatto positivo se il calo è troppo accentuato, ragion per cui non il dimagrimento durante un periodo di allenamento spesso arriva, ma non deve essere ricercato. ![]() Quando tornai a Kiev dopo la pausa la città era nel bel mezzo dell'autunno. Mattine gelide, nebbia ovunque, castagni che diventano giallo ruggine. La Titan era andata in Crimea per prepararsi ad una gara a tappe, la Sotsindustriya. La stagione era finita per me e non volevo correre, ma non potevo restare a Kiev e non fare niente. Elizarov mi disse di volare a Simferopoli, unirmi alla squadra e trascorrere le settimane successive pedalando in un clima caldo. Andai nei nostri locali di servizio per preparare la bici così da essere trasportata in mattinata all'aeroporto. Feci un mediocre lavoro di impacchettamento della bici e passai un'ora a parlare a vanvera con il meccanico. Decisi di prendere un taxi invece di aspettare un passaggio per l'hotel e, da solo, mi incamminai per strada. Gli edifici gettavano lunghe ombre sull'acciottolata Krasnoarmeyskaya. L'aria fresca e umida era piacevole da respirare. Volevo un gelato Kashtan dal negozio in Via Kreshchatik prima di prendere un taxi. Dieci minuti a piedi. Vidi una Volga nera parcheggiata davanti a me, con una porta posteriore aperta. Un uomo con uno spolverino beige sbottonato stazionava in piedi vicino all'auto, guardandomi. Continuai a camminare, chiedendomi se mi stesse fissando perché non aveva nient'altro da fare o vi era qualcos'altro sotto. Quando mi avvicinai, si allontanò dalla macchina e tirò fuori un korochka rosso dalla tasca dello spolverino. Me lo piazzò in faccia e mi chiese: “Nikolai?” Guardai il documento: c'era la foto in bianco e nero del tizio a sinistra e l'intestazione del KGB a destra con grado, nome e autorizzazione al porto d'armi sotto. Non riuscivo a leggere il cognome, qualcosa di lungo e contorto. Prima che chiudesse il korochka, memorizzai il suo nome: Bogdan. Merda, che succede, che cosa ho combinato? Feci un rapido inventario mentale delle mie tasche: niente dollari, niente di illegale, quindi cosa vogliono? Bogdan fece un cenno con la testa verso il sedile posteriore della Volga e disse: “Sali, dobbiamo parlare.” Salii in macchina, lui chiuse la porta, camminò intorno all’auto, salì sul sedile accanto a me e disse al guidatore: “Poekhali.” Andiamo. Andammo verso la Kreshchatyk, per la discesa della Vladimirsky, oltre la Piazza Pochtovaya ed arrivammo alle strette strade di Podol. All’esterno i pedoni in giacche invernali e cappotti sfrecciavano sui marciapiedi. Non ti insegnano a scuola cosa fare quando il KGB manda un agente con un nome stra-ucraino come Bogdan, in una Volga nera, il motivo solo il cielo lo sa, a prenderti. Non chiedere dove stai andando, stai calmo. Pazienza e rispetto, dimostraglieli. “Sei un membro della Komsomol, Nikolai?” chiese Bogdan. È di questo che si tratta? Io che mi insinuo nel sistema senza mai essermi iscritto alla Komsomol? Non avete spie della CIA da catturare? Diventare membro della Komsomol, o lega Comunista leninista, era una formalità. La maggior parte dei quattordicenni si lasciavano trasportare dalla corrente senza pensarci troppo. Nessuno ti costringeva ad iscriverti, ma stanne fuori e ti saresti preparato per problemi in futuro che non avresti mai pensato di trovarti ad affrontare. Quando fu il mio momento non me ne preoccupai. Noiosi corsi per diventare un membro e, una volta dentro, riunioni dopo la scuola che erano solo una perdita di tempo. Il mio allenamento iniziava un'ora dopo l'ultima lezione a scuola, la Komsomol non si incastrava. La prima volta che la Komsomol mi ha dato problemi è stato quando ho fatto domanda all’Università dello Sport di Kiev. Il modulo di domanda chiedeva se fossi un membro. Ero un membro della Titan a quel punto, sapevo che l'Università mi voleva più di quanto io volessi l'Università e ho spuntato la casella sì. Nessuno fa dei controlli. Poi è arrivato il modulo di richiesta del passaporto con decine di domande banali. Uno riguardava di nuovo la Komsomol. Questa volta era un documento importante la cui veridicità era controllata dal KGB. Non potevi chiedere un passaporto in URSS e andare dove volevi. Il KGB controllava gli spostamenti e i passaporti. Se ne vuoi uno, digli tutto di te. Hai un motivo per andare all'estero, altrimenti nessun motivo, nessun passaporto. La maggior parte delle persone non se ne preoccupava, non che avessero segreti da nascondere, solo non era qualcosa che li riguardasse. Atleti, artisti, scienziati, questi sono il volto e l'immagine del Popolo, l'Idea, e il Sistema. La minoranza privilegiata, i “golden boys and girls” del Paradiso dei lavoratori. Questi possono avere il passaporto, ma solo dopo aver controllato cosa mangiano, respirano e pensano. Bloccato di nuovo, chiesi a Nikolai Rogozyan cosa fare per la Komsomol e lui mi disse di spuntare la casella “Sì”. Se non sei un membro, gli ideali del Partito non ti vanno bene o non combaci con gli ideali del Partito. In ogni caso, il KGB bloccherà la tua richiesta di passaporto se non sei un membro della Komsomol. “Lo sistemeremo dopo”, disse Rogozyan, “quando torneremo a Kiev”. Ho spuntato il riquadro e me ne sono dimenticato. Non ero un membro, lo dissi a Bogdan. “Quindi hai mentito sul modulo di richiesta del passaporto?” Gli dissi quanto ero impegnato a scuola e come avessi perso il treno Komsomol e come avrei voluto sistemare la cosa in seguito, ma il ciclismo si era messo in mezzo. Sorrideva e si chinava verso il sedile anteriore del passeggero. Prese una valigetta di plastica nera per il manico. Mise la valigetta in grembo e, guardandomi diretto in faccia, mi disse detto: “Dov'è tuo fratello, Nikolai?” Non c'entrava la Komsomol. “Kamchatka”, ho detto. “Alla fine del mondo”, disse e voltò la testa verso di me. “Perché così lontano da casa?” “Soldi. Sta facendo dei bei soldi in Kamchatka. Lunghe vacanze. Gli piace stare lì.” “Capisco. Lascia che ti chieda una cosa. Sei un bugiardo, Nikolai?” Da come diceva il mio nome alla fine delle domande, avrebbe potuto essere il mio insegnante di fisica che parlava di un compito consegnato in ritardo. Le parole uscivano dalle sue labbra con il tono pietoso di una lama della ghigliottina che ti cade sul collo. Ha teso la trappola e mi ha spinto ad entrarci. “Non sono un bugiardo.” Aprì la valigetta e tirò fuori una cartellina malridotta e scolorita. Vi era la foto in bianco e nero del mio passaporto attaccata ad un angolo. Il mio nome scritto a mano in lettere maiuscole era sotto un numero di registro. Ha messo la cartella sopra la valigetta e ha detto: “Chi ha compilato il modulo di richiesta del passaporto?” “Io stesso.” “Molto bene. Ti ricordi una domanda sulla tua famiglia?” “Quale?” “Quella in cui ti si chiedeva se qualcuno della tua famiglia è mai stato condannato per un reato penale.” “Ero un bambino quando mio fratello è andato in prigione”, ho detto. “Tanto tempo fa, ha smesso di essere qualcosa di reale per me.” “Lascia che ti dica io cosa è reale. Hai mentito al governo con piena cognizione delle conseguenze. Hai firmato il modulo. Sapevi di possibili ripercussioni per aver mentito al governo. Hai mentito per avere un passaporto, un documento che diamo a quelli di cui ci fidiamo. Sai a quanto ammonta la reclusione per questo crimine?” Fece una smorfia dicendo: “No? Penso di no.” “Cosa avrei dovuto fare?” Gli chiesi. “Senza passaporto, non posso correre all'estero. Inutile per la nazionale.” “Pensi troppo, Nikolai, e arrivi a conclusioni affrettate. Ipotizzi false conclusioni su cose di cui non sai niente. Pensi che non ti avremmo dato un passaporto perché tuo fratello è stato dentro dieci anni fa? Non sono affari tuoi, a pensarci bene. Il tuo compito è essere onesto e aperto con noi quando ti chiediamo di essere onesto e aperto con noi. Potremmo o non potremmo tenere conto delle informazioni stesse. Voglio dire, chi se ne frega di quello che ha fatto tuo fratello dieci anni fa, giusto? È quanto tu sia sincero con noi che vogliamo sapere. E finora, temo che tu non stia andando molto bene.” Sterzammo per Via Vladimirskaya e ci dirigemmo al quartier generale del KGB di Kiev. È così che ti fanno fuori, un piccolo errore ed è tutto finito, nessuna seconda possibilità. A pochi metri dal parcheggio riservato di fronte all'edificio, gli occhi dell'autista rivolti a Bogdan spuntarono nello specchietto. “Prosegui” gli disse facendo cenno con la mano. La Porta D'oro era sulla nostra destra quando Bogdan disse: “Hai cercato di defezionare in Francia, vero?” Guardai nella sua direzione, le budella che si contorcevano, la gola secca, il cuore che pompava sangue con gettate che si potevano udire dall’esterno. Esci dalla macchina e corri, nasconditi da qualche parte, ovunque, vai sottoterra e aspetta la tempesta sia passata. E poi? Per quanto tempo puoi nasconderti? Quanto lontano puoi correre? Come diciamo in Unione Sovietica, non si può correre più lontano della Siberia. “Perché pensate che avrei voluto defezionare?” “L'abbiamo sentito alla radio della BBC.” “Cosa?” “Lascia che ti legga qualcosa.” Fece un ghigno e aprì la cartellina che conteneva un fascicolo di fogli consunti battuti a macchina tenuti insieme da una graffetta. In cima vi era la prima pagina del mio modulo di richiesta del passaporto. Voltò pagina e fissò la pagina successiva scritta a mano con bella grafia. Scorse il testo impugnando la pagina con una mano. Quando ebbe trovato quello che stava cercando, puntò il suo indice e disse: “Ecco, una descrizione di quello che abbiamo trovato nel tuo borsone in Francia: “…conteneva i seguenti beni: duemilaquattrocento dollari USA; novecento marchi tedeschi; duemilaottocento franchi francesi; un passaporto; una medaglia d'oro, la maglia e l'attestato di campione del mondo; due paia di calze e mutande; uno spazzolino da denti; un quaderno; una penna a biro Bic e una Bibbia in russo stampata a Londra.” Questa, amico mio, sembra una borsa pronta per una fuga. Che ne dici?” Qualcuno mi ha tradito. Qualcuno ha frugato nella mia borsa, per caso o di proposito, e ha redatto un rapporto. Ho escluso il mio compagno di stanza a Caen. Entrambi dalla Titan, eravamo amici intimi, non è possibile che sia stato lui. La grafia ordinata, il linguaggio asciutto e formale. Merda, una Bibbia in russo stampata a Londra? Non è lui, non è il suo stile. Continua.... ww.sportintranslation.com Original English version below. By the time I came back to Kiev after the break, the city was deep in the autumn. Frosty mornings, fog everywhere, chestnut trees turning rusty yellow. Titan had gone to Crimea to prepare for the Sotsindustriya stage race. The season was over for me and I wasn’t going to race it but I couldn’t stay in Kiev and do nothing either. Elizarov told me to fly to Simferopol, join the team and spend the next few weeks riding in warm weather. I went to our service course to pack my bike for a pick up in the morning on the way to the airport. I did an average bike-packing job and spent an hour talking trash with the team mechanic. I decided to catch a cab instead of waiting for a lift to the hotel and walked out on the street. The buildings were casting long shadows over the cobbled Krasnoarmeyskaya Street. The chilled, moist air was pleasant to breathe. I wanted a Kashtan ice cream from the shop on the Kreshchatik street before catching a cab. A ten-minute walk. I saw a black Volga parked ahead, facing me with a rear door opened. A man in an unbuttoned taupe trench coat stood next to it, looking at me. I kept walking, wondering if he was staring at me because he had nothing else to do or there was something else to it. When I approached, he stepped away from the car and pulled out a red korochka from the coat’s pocket. He stuck it in my face and said, “Nikolai?” I looked at the ID. It had the guy’s black and white photo on the left and the KGB header on the right with rank, name, and authorization to carry a weapon below it. I couldn’t read the surname, something long and convoluted. Before he closed the korochka, I caught his first name, Bogdan. Crap, what’s going on, what did I do? I made a quick mental inventory of my pockets. No dollars, nothing illegal. What do they want? Bogdan nodded toward the rear seat of the Volga, and said, “Get in, we need to talk.” I climbed into the car, he shut my door and walked around, got into the seat next to me and said to the driver: “Poekhali.” Let’s go. 4 We drove toward Kreshchatyk, down the Vladimirsky Descent, past the Pochtovaya Square, and came to Podol’s narrow streets. Outside, pedestrians in winter jackets and coats scurried on the sidewalks. They don’t teach you in school what to do when the KGB sends an officer with an uber-Ukrainian name like Bogdan, in a black Volga for goodness’ sake, to pick you up. Don’t ask where you’re going, stay calm. Patience and respect, show them that. “Are you a member of the Komsomol, Nikolai?” Bogdan said. Is this what it’s about? Me, slipping through the system and never taking out the Komsomol membership? Don’t you guys have CIA spies to catch? Becoming a member of the Komsomol, or All-Union Leninist Young Communist League, was a formality. Most fourteen-year-olds went with the flow without thinking too much about it. Nobody forced you to join. Stay out of it and you’d set yourself up for problems in the future you never thought would be there waiting for you. When it was my time to join, I didn’t bother with it. Boring membership classes and, once you’re in, after-school meetings to waste time. My training started one hour after the last class, Komsomol didn’t fit in. First time Komsomol bit me in the ass was when I applied to Kiev Sports University. The application form asked if I was a member. Part of the Titan team by then, I knew the Uni wanted me more than I wanted the Uni and I ticked the yes box. Nobody checks this. Then came the passport application form with dozens of trivial questions. One was about Komsomol again. This time it was an important document checked for veracity by the KGB. You couldn’t apply for a passport in the USSR and go anywhere you liked. KGB controlled comings and goings, and the passports. You want one, tell them everything about yourself. Have a reason to go abroad. No reason, no passport. Most people never bothered with it. Not that they had any secrets to hide. Too hard. Athletes, artists, scientists, these are the face and the image of the People, the Idea, and the System. The privileged minority, the golden boys and girls of the workers’ paradise. These can have their passports but only after we check what they eat, breathe, and think. Stuck again, I told Nikolai Rogozyan about Komsomol and he said to tick the yes box. If you’re not a member, the Party’s ideals don’t fit you or you don’t fit the Party’s ideals. Either way, the KGB will choke your passport application if you’re not a member of the Komsomol. Will fix it up later, Rogozyan said, when we come back to Kiev. I ticked the box and forgot about it. I wasn’t a member I said to Bogdan. “So, you lied on your passport application form?” I told him how busy I was in school and missed the Komsomol boat and how I was going to fix this later but cycling got in the way. He grinned and leaned over to the front passenger seat. He grabbed a black, plastic briefcase by its handle. He placed the briefcase flat on his lap and, looking straight ahead, said: “Where’s your brother, Nikolai?” Not about Komsomol. “Kamchatka,” I said. “End of the world,” he said and turned his head toward me. “Why so far away from home?” “Money. He’s making good money in Kamchatka. Long holidays. He likes it there.” “I see. Let me ask you this. Are you a liar, Nikolai?” How he said my name at the end of the questions, he could’ve been my physics teacher chatting about an overdue assignment. Words flew from his lips with a chummy tone of a guillotine blade falling on your neck. He set the trap and nudged me to step into it. “I’m not a liar.” He opened the briefcase and pulled out a shabby, buff-colored manila folder. It had my black-and-white passport photo clipped to its corner. My name hand-written in capital letters was under a file and volume number heading. He placed the folder on top of the briefcase and said, “Who filled out your passport application form?” “I did.” “Very well. Do you remember a question about your immediate family?” “Which one?” “The one that asked you if anyone from your immediate family has ever been sentenced for a criminal offense.” “I was a kid when my brother went to jail,” I said. “So long ago, stopped being real to me.” “Let me tell you what’s real. You lied to the government in full knowledge of the consequences for doing so. You signed the form. You acknowledged possible repercussions for lying to the government. You lied to get a passport, a document we give to those only we trust. Do you know how long the sentence is for this crime?” He sneered saying, “No? I didn’t think so.” “What was I supposed to do?” I said. “Without a passport, I can’t race abroad. Useless to the national team.” “Thinking too much, Nikolai, and running ahead of yourself. You make false conclusions about things you know nothing about. You think we wouldn’t give you a passport because your brother served time ten years ago? It’s none of your business, to think. What is your business is to be honest and open with us when we ask you to be honest and open with us. We may or may not care about the information itself. I mean, who cares what your brother did ten years ago, right? It’s how truthful you’re with us we want to know. And so far, you’re not doing too well I’m afraid.” We turned on Vladimirskaya street and headed to Kiev’s KGB headquarters. This is it, this is how they take you out, a small slip-up and it’s all over, no second chances. Meters away from the parking bay in front of the building, the driver’s eyes popped into the rear-view mirror and glanced at Bogdan. “Keep going,” he told him with a hand wave. The Golden Gate was on our right when Bogdan said, “You tried to defect in France, didn’t you?” I looked in his direction, ice melting in my guts, dry throat, heart pumping blood with loud thumps. Get the hell out of the car and run, hide somewhere, anywhere, go underground and wait out the storm to pass over. And then what? How long can you hide? How far can you run? As we say in the Soviet Union, you can’t run farther than Siberia. “Why do you think I was going to defect?” “We heard it on the BBC radio.” “What?” “Let me read you something.” He smirked and opened the folder with a sheaf of loose and stapled printing paper in it. The one at the top was the first page of my passport application form. He flipped it over and stared at the next page with a neat handwriting on it. He scanned the text holding the page with one hand. When he found what he was looking for, he stuck the index finger at it and said, “Here, a description of what we found in your sling bag in France: ‘contained the following: two thousand four hundred US dollars; nine hundred Deutschmarks; two thousand eight hundred French francs; a passport; a gold medal, world champion’s jersey and diploma; two pairs of socks and underwear; a toothbrush; a notebook; a Bic Cristal pen, and a London-printed Russian Bible.’ This, my friend, looks like a bag made ready for a run. What do you think?” Someone sold me out. Someone went through my bag, by chance or on purpose, and wrote a report. I ruled out my roommate in Caen. Both from Titan, we were close friends, no way this was him. That tidy handwriting, the dry, formal language. Crap, a London-printed Russian Bible? That’s not him, he wouldn’t write that. ![]() Anton era su un treno per pendolari diretto a Mosca quando siamo atterrati all'aeroporto Sheremetyevo da Parigi. I palazzi clonati scorrevano nella direzione opposta fuori dal finestrino del treno. Ha girato la testa lontano dagli edifici in movimento e ha guardato dentro la carrozza affollata. La maggior parte delle persone leggeva. L'Intelligentsiya, libri e riviste letterarie. Il Gapota, il Plebes, quotidiani e riviste illustrate. Cosa diavolo potresti leggere su queste pagine artefatte dagli spin doctors della macchina della propaganda? Annebbia la mente anche solo guardare i titoli. “Nuova Era nella storia Dell'umanità”. “Grande eroismo di un grande popolo”. “Potenti ali della nostra madrepatria”. “Principi eterni del marxismo-leninismo”. Chi scrive tutto questo? Probabilmente dei pazzi. Come possono scriverlo senza impazzire? Si dondolò la faccia con entrambe le mani, posò i gomiti sulle ginocchia e guardò il pavimento attraverso gli interstizi tra le dita. Sotto il sedile vide un giornale arrotolato tremare all'unisono con il treno. Da quello che si poteva capire tra i listelli di legni, non era una copia della Pravda o dell'Izvestiya. L'afferrò per farsi una risata delle acrobazie linguistiche degli imbecilli e lo sfogliò. Era il nuovo numero di Sovetskiy Sport, il giornale meno avvelenato da Mosca. Era ancora pieno di sciocchezze, ma i tirapiedi del partito non avevano ancora capito come distorcere a loro vantaggio i risultati dello sport. Un punteggio è un punteggio e secondi e minuti sono gli stessi ovunque, non si può piegare troppo la realtà nello sport. Le prime pagine analizzavano le possibilità dello Spartak Mosca nell'imminente primo turno di Coppa UEFA. Affrontavano una squadra finlandese e tutti gli esperti prevedevano che lo Spartak avrebbe asfaltato i finlandesi. Non essendo un grande tifoso di calcio, sfogliò il giornale cercando qualcosa da leggere. Alla fine, una frase attirò la sua attenzione. Ritornò sulla pagina, la scansionò e trovò cosa stava cercando. Un breve rapporto su quattro ciclisti sovietici “schiacciare la squadra americana nella sconfitta umiliante” ai mondiali juniores. Lesse nuovamente e sobbalzò sul sedile. Braccia al cielo, urlò nella carrozza piena di passeggeri: “Mio fratello è campione del mondo!” Si girò verso il suo amico addormentato sul sedile accanto per scuoterlo. “Liosha! Svegliati, Kolya è un campione del mondo!” “Cosa?” Replicò Liosha. “Kolya è un campione del mondo!” “Chi?” “Kolya, fratello mio.” “Quale fratello?” “Mio Fratello, stupido, mio fratello.” * * * Se non fosse stato per il ciclismo, uno come Anton e me non sarebbero mai potuti diventare amici. Era il figlio unico di un preside di scuola, senza amici, cresciuto da sua madre su Cechov e Dostoevskij. Mia madre proveniva da un piccolo villaggio sul fiume Volga. Lasciò la scuola all'età di quattordici anni dopo la guerra per aiutare a mantenere la famiglia. Era una contabile quando ero piccolo e mio padre era un idraulico. Ho bevuto tè georgiano da una tazza da mezzo litro. In casa di Anton, il tè proveniva dallo Sri Lanka ed era servito in porcellane cinesi. A scuola indossava i jeans della Levi's e scarpe da ginnastica di importazione jugoslava. Io non avrei mai osato chiedere a mia madre di comprarmi dei jeans, perché si sarebbero potuti comprare solo al mercato nero per una cifra folle. Mi avrebbe riso in faccia se glielo avessi chiesto. Aveva due anni più di me, una grande differenza di età a tredici anni, quando l'ho conosciuto. Avevo un fratello maggiore che scomparve dalla mia vita quando avevo sei anni. Undici anni più vecchio di me, non posso dire che siamo stati molto insieme. Di ogni volta potrei ripetere di qui all'eternità nella mia mente come abbiamo passato il tempo, ogni parola e ogni battuta che mi ha detto. Iniziò ad andare in giro con le compagnie sbagliate sin da bambino. Un giorno non tornò a casa. Lo aspettammo giorno dopo giorno, ma non fece ritorno. Pensavamo fosse morto. Mia madre piangeva ogni notte in cucina e la sua angoscia mi arrivava al midollo. Amava i cavalli e lei seppe che viveva in una scuderia sulle montagne. Io e mamma salimmo su un autobus e andammo al villaggio dove era stato visto. Mamma lo trovò, ma lui rifiutò di tornare a casa, qualcosa a che fare con la polizia. Ero troppo piccolo per capire. Una mattina la porta si aprì e Sergey, mio fratello, entrò. Papà era vicino alla porta, pronto ad andare al lavoro. Sergey entra e si guardano per un secondo. Papà, un uomo robusto con muscoli scolpiti, si ruota sul torso, si volta e scarica un pugno sulla faccia di Sergey. Il diretto lo manda a terra come se qualcuno gli avesse tolto un tappeto da sotto. Atterra col sangue che sgorga dal naso inondando tutta la faccia. Il pugno l'ha steso. Giaceva sul pavimento con le nostre scarpe, giacche e cappotti che si erano sparsi intorno a lui mentre si schiantava contro l'armadio. Mi sono seduto per terra e ho pianto mentre mia madre assisteva Sergey per farlo rinvenire. Sangue sul viso e sul petto, questo era un ribelle, un figliol prodigo che ha avuto la sua ricompensa per i problemi che aveva creato. Sul pavimento, in una pozza di sangue, ai miei occhi appariva come l'esempio del non obbedire alla forza, a non cedere all'autorità in qualsiasi forma essa si manifesti. Quando Sergey, non ancora diciottenne, disse che si sarebbe sposato, i miei genitori non protestarono. Pensavano che il matrimonio lo avrebbe portato sulla retta via, ma non lo fece. Ha litigato con l'uomo sbagliato e l'hanno rinchiuso per tre anni a novemila chilometri da casa. Quando mamma ha sentito il verdetto, si è inginocchiata e ha pianto. Mesi dopo, mi sveglio una notte per andare in bagno. La mamma è in salotto seduta da sola al tavolo della cucina con una fotografia sei per quattro di Sergey tra le mani. Le lacrime scorrevano, diceva: “Signore Dio, puniscimi. Puniscimi, ma ti prego, risparmia mio figlio.” L'amicizia di Anton ha colmato il vuoto che Sergey aveva lasciato quando era andato in prigione. Abitavamo due condomini di distanza e pedalavamo insieme per raggiungere la sede della squadra per l'allenamento. Sulla strada del ritorno, dopo esserci allenati con gli altri ragazzi, ci separavano e attraversavamo la città. Eravamo quelli che abitavano più distanti dalla squadra. È in queste pedalate che abbiamo perfezionato le nostre abilità di guida. Impennare, inchiodare con il freno anteriore e sollevare la ruota posteriore il più in alto possibile. Aprirsi gli sganci rapidi delle ruote l'uno con l'altro. E, la madre di tutte le abilità, procedere con i piedi sul manubrio. Facevamo le volate ai cartelli stradali e ai pali della luce nelle nostre pedalate verso casa. A nessuno interessavano queste volate tranne me e Anton che non ha mai perso uno sprint e non mi sarei dato pace finché non lo avrei battuto. Abbiamo disputato centinaia di questi sprint e non ho mai vinto una sola volta. Ho cercato di ingannarlo con volate a bassa velocità, brevi e dietro la curva. Individuavo un palo della luce a cinquanta metri di distanza, prendevo un po' di velocità da dietro e urlavo “L'arrivo è al palo!” e quindi lui faceva esplodere la sua potenza e mi batteva sulla linea immaginaria con le braccia alzate. Ho provato a colpirgli il manettino del cambio posteriore con la mano per indurirgli il rapporto e quindi sprintare. Non ha mai funzionato, mi batteva, rapporto troppo lungo o meno. Anni dopo, quando ormai aveva smesso correre, andammo a fare un giro intorno a Nalchik in una delle mie visite a casa dalla Titan. Pedalava la mia vecchia bici da inverno indossando sandali senza grip con una sigaretta in bocca. Io ero in buono stato di forma dopo un blocco di corse, era la mia occasione per batterlo in uno sprint. Aveva un rapporto troppo lungo per la velocità a cui stavamo andando. Scalai su un rapporto più agile, strinsi i cinghietti dei puntapiedi, mi misi in presa bassa, cinquanta metri da un palo della luce e urlai “Volata!” Mi ha ripreso a cinque metri dal palo e ha lanciato la bici sul “traguardo”, battendomi di mezza ruota. “Amico”, ha detto dopo aver ripreso a respirare. “Mi hai fatto perdere la sigaretta.” Quando Anton mi ha chiamato bratka, fratellino, per la prima volta, una parola che solo un vicino, fratello di sangue avrebbe usato, ho pensato che avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Si trasferì a Mosca per studiare e io andai a Kiev e non lo sentivo da più di un anno. Mi ero dimenticato del mio amico come avevo dimenticato tutto quello che non era rilevante per gli obiettivi che volevo raggiungere. Anche lui non era più lo stesso ragazzo di una piccola città provinciale nel Caucaso settentrionale. Era un moskvitch, un moscovita, che nuotava nelle acque bohemien degli eccentrici locali di Mosca. Aveva anche preso l'accento di Mosca, un'idiosincrasia irritante di cui non riuscivo a smettere di ridere quando ci siamo incontrati di nuovo a Nalchik. La Titan mi mandò a casa per rilassarmi dopo il mondiale e Anton tornò a Nalchik per un paio di settimane. Mi dissero di pedalare per almeno due ore al giorno. Non mi presi neanche la briga di togliere la bici dalla borsa e la nascosi sotto il letto lontano dai miei occhi. È il momento della fiesta. Il Comitato di Stato ucraino per la cultura fisica e lo sport mi diede duemila rubli per i miei risultati in Francia. Si sarebbe potuto vivere per un anno in URSS con quei soldi, ma volevo bruciarne un po' con il mio amico. Io e Anton salimmo su un jet Yak-40 da 24 posti e 45 minuti atterrammo a Sochi. Prendemmo un taxi all'aeroporto e andammo direttamente al ristorante Chaika nel porto di Sochi. Il Chaika era il tipo di posto dove si doveva corrompere il maître per entrare anche se non c'era nessuno nel locale. Un edificio in stile neoclassico stalinista con colonne e soffitti alti dieci metri. È dove si va a bruciare i soldi con stile. Servivano tutto al Chaika, dal beluga alla pizza. Gli ospiti speciali potevano ordinare vodka di qualità per l'esportazione conservata nel freezer. Ho dato un chetvertak, un biglietto da 25 rubli, al maître appena entrati e abbiamo chiesto un tavolo sulla veranda. Prese i soldi e li infilò nella tasca della giacca con due dita. Annuì ad un cameriere dall'aspetto effeminato con un grembiule con merletti della borgogna e una camicia bianca ed inamidata che stava in piedi come una sfinge accanto a lui in attesa del comando del maître. Appena vide il cenno, ci portò ad un tavolo con vista sulle navi da crociera ancorate a cento metri di distanza. Ci siamo seduti e abbiamo ordinato vodka Stolichnaya fredda e caviale nero. Il cameriere tornò con la vodka in un decantar di cristallo, una ciotola di caviale e un piatto di funghi di pino rosso marinati. “Dallo chef”, indicò i funghi con un sorriso. “Chiamatemi quando siete pronto per ordinare.” Entro la sera, dirigenti del governo in sovrappeso e personaggi della malavita riempirono il ristorante. Le ore volarono mentre parlavamo e ridevamo. Ridevamo sempre. Ci inventavamo battute che nessuno avrebbe capito. Ridevamo delle persone intorno a noi, ridevamo di noi stessi per delle cose ridicole che avevamo fatto. “Ehi, ti ricordi ...” era spesso l'introduzione di un aneddoto che sarebbe finito in un mare di risate. Abbiamo finito di cenare e ordinato una bottiglia di cognac da portar via, pagato il conto e siamo andati fuori per cercare un taxi. Un viaggio a Sochi non sarebbe stato un viaggio a Sochi se non avessimo nuotato nel Mar Nero. Un tassista armeno pazzo guidò come se gli rimanesse solo un'ora di vita. Ci portò in una spiaggia deserta a Dagomys dove nuotammo nudi, bevemmo cognac per riscaldarci e ridemmo. “Ehi, ti rendi conto di quello che hai fatto in Francia?” Anton disse dopo che ci fummo rivestiti e trovammo un posto dove sederci su un frangiflutti. “Ho vinto i mondiali?” “No, voglio dire, sì, ma...“si fermò e osservò l'orizzonte illuminato dalla luna. “Cosa?” “Ora sei un campione del mondo. Lo capisci?” Credo di sì.” “Ho detto a tutti a Mosca che il mio migliore amico è un campione del mondo e nessuno mi crede.” “Sono degli idioti.” “Pensano che vi creino nei laboratori in luoghi segreti assieme ai cosmonauti. Ma eccoti qui, un idiota di Nalchik con una maglia iridata. Mi spaventa questo pensiero.” “Non esagerare, era solo un campionato juniores.” “Chi se ne frega, junior-giovanile. Un campione del mondo è un campione del mondo. È un titolo per la vita. Tra trent'anni sarai ancora campione del mondo. Sai che tipo di porte questo titolo ti aprirà?” “Dimmi.” “Non fare lo scemi, lo sai?” “No, dico sul serio. Dimmi che tipo di porte si apriranno per me?” “Non lo so. Di tutti i tipi. D'ora in poi, presentati come Nikolai Razouvaev, un campione del mondo. Vediamo che succede.” Abbiamo riso di nuovo. “Finiamo la bottiglia e andiamocene”, disse Anton. “Si sta facendo freddo.” Original English version below. Anton was on a commuter train to Moscow when we touched down in Sheremetyevo airport from Paris. The cloned housing estates rushed in the opposite direction outside the train window. He turned his head away from the moving buildings and gazed inside the packed car. Most people were reading. The Intelligentsiya — books and literary journals. The Gapota, the plebes — newspapers and illustrated magazines. What the hell could you be reading on these pages cooked up by the spin doctors of the propaganda machine? It’s mind-numbing to even look at the headlines. New Era in the History of Humanity. Great Heroism of a Great People. Mighty Wings of Our Motherland. Everlasting Principles of Marxism-Leninism. Who writes this? They must be insane, those writers. How can they write this and not go mad? He cradled his face with both hands, rested the elbows on the knees and looked at the floor through the holes between his fingers. He saw a rolled up newspaper under the seat, jiggling in unison with the train. From what he could make out of the masthead it wasn’t a Pravda or Izvestiya. He picked it up to snigger at the imbeciles’ doublespeak and spread it open in his hands. It was a fresh issue of Sovetskiy Sport, the least poisoned newspaper out of Moscow. Still full of drivel, the Party’s minions hadn’t figure out yet how to distort sports’ results. A score is a score and seconds and minutes are the same everywhere, you can’t bend reality too much in sport. The first few pages analyzed FC Spartak Moscow’s chances in the upcoming first round of UEFA Cup. They played a Finnish team and all experts predicted Spartak will walk all over the Finns. Not a huge football fan, he flipped through the paper looking for something to read. At the end, a sentence caught his eye. He flipped back a page, scanned it and saw what it was. A short report about four Soviet cyclists “crushing American team in humiliating defeat” at junior worlds. He read the story again and jumped out of his seat. Arms in the air, he screamed into the car crammed with passengers, “My brother is a world champion!” He turned to his sleeping friend in the next seat to shook him. “Liosha! Wake up, Kolya is a world champion!” “What?” Liosha said. “Kolya is a world champion!” “Who?” “Kolya, my bro.” “What bro?” “My bro, you silly, my bro.” * * * If not for cycling, someone like Anton and I could have never become friends. He was the only son of a school principal raised alone by his mother on Chekhov and Dostoevsky. My mother was from a small village on Volga river. She quit school at the age of fourteen after the war to help raise the family. She was an accountant when I was growing up and my father was a plumber. I drank Georgian tea from a half-liter mug. Anton’s place, Ceylon tea brewed and served in imported china. He wore Levi’s jeans and Yugoslavian shoes to school. Me, I wouldn’t dare to ask my mom to buy me jeans because you could only buy them on the black market for the insane amount of money. She’d laugh in my face if I asked. He was two years older than me, a big gap at thirteen when I met him. I had an older brother who disappeared from my life when I was six. Eleven years older than me, I can’t say we hung out together a lot. Every time we did, I’d replay over and over in my mind the time he spent with me, every word and every joke he said. He bummed around with the wrong crowd since he was a kid. One day he didn’t come home. Day after day we waited for him to turn up but he wouldn’t. We thought he was dead. My mother wept every night in the kitchen and her anguish echoed in my bones. He loved horses and she heard a rumor he’d been living on a horse farm in the mountains. Mom and I boarded a bus and rode to the village where people saw him. She found him but he refused to come home, something to do with the police. I was too little to understand. One morning the door opens and Sergey, my brother, walks in. Dad was standing not far from the door ready to go to work. Sergey walks in and they look at each other for a second. Dad, a sturdy man sculpted by muscle chunks, swings back his torso, uncoils, and lands a blow on Sergey’s face. The jab sends him down to the floor as if someone pulled a carpet from under him. He lands with blood pouring from his nose all over the face. The punch knocked him out. He laid on the floor with our shoes, jackets, and coats scattered around him as he crashed into a wardrobe. I sat on the floor and cried while my mom nursed Sergey back into cognition. Blood on his face and chest, this was a rebel, a prodigal son who got his reward for the trouble he’d made. On the floor in a pool of blood, this is me fixed on not to obey force, not to yield to authority in whatever form it came. When Sergey said he’s getting married before he turns eighteen, my parents didn’t protest. They reasoned marriage would settle him down. It didn’t. He got into a fight with a wrong guy and they locked him up for three years nine thousand kilometres away from home. When Mom heard the verdict, she kneeled to the floor and wept. Months later, I wake one night to go to the toilet. Mom’s in the living room sitting alone at the dinner table with Sergey’s six-by-four portrait in her hands. Tears running down, she says, “Lord God, punish me. Punish me but please spare my boy.” Anton’s friendship patched the hole Sergey left when he’d gone to jail. We lived two apartment buildings from each other and rode to our cycling club together to train. On the way back, we’d start riding with a few other boys and they’d split as we went along through the city. We lived the farthest from the club. It is on these rides we polished our bike handling skills. The wheelies, braking with the front brake and lifting the rear wheel as high as possible. Undoing each others’ quick releases. And, the mother of all skills, riding with your feet on the handlebar. We sprinted to street signs and light poles on these home rides. No one cared for these sprints except me and Anton. He never lost a sprint and I couldn’t rest until I’d beat him. We’ve had hundreds of these sprints and I’d never won once. I tried to trick him on these low speed, short, small-ring sprints. I’d mark a light pole fifty meters away, pick up some speed from behind and yell “Finish at the pole!” and he’d detonate a blast and beat me to the imaginary line with arms in the air. I tried hitting his rear shifter with my hand to overgear him and then sprint. It never worked, he’d beat me overgeared or not. Years later, when he stopped racing, we went for a ride around Nalchik on one of my visits home from Titan. He rode my old winter bike in slide sandals with a cigarette in his mouth. In good shape after a block of racing, now was my chance to beat him in a sprint. He was overgeared for the speed we were rolling at. I clicked into an easier gear and tightened the pedal straps, grabbed the drops fifty meters from a light pole and yelled “Sprint!” He caught me with five meters to go and threw the bike to the ‘line’, undercutting me by half a wheel. “Dude,” he said after he got his breathing back. “You made me lose my cigarette.” When Anton called me bratka, little brother, for the first time, a word only a close, blood brother would use, I thought I’d do anything for him. He moved to Moscow to study and I went to Kiev and haven’t heard from him for over a year. I forgot about my friend like I forgot everything else that wasn’t relevant to the goals I set out to achieve. He too wasn’t the same kid from a small, provincial city in North Caucasus. He was a moskvitch, a Muscovite, swimming in bohemian waters of Moscow’s eccentric hangouts. He even picked up the Moscow’s accent, an annoying idiosyncrasy I couldn’t stop myself laughing at when we met again in Nalchik. Titan sent me home to wind down after the championship and Anton came to Nalchik for a couple of weeks. They told me to ride for at least two hours a day. I didn’t bother to unpack the bike and hid it under my bed away from my eyes. Fiesta time. Ukrainian State Committee of Physical Culture and Sports gave me two thousand rubles for my efforts in France. You could live for a year in USSR with this money but I wanted to burn some of it with my friend. Anton and I boarded a twenty-four-seat Yak-40 jet and forty-five minutes later landed in Sochi. We took a cab from the airport and went straight to Chaika restaurant in Sochi’s seaport terminal. Chaika was the kind of a place where you had to bribe maître d’hôtel to get in even if no one was dining inside. A neo-classicism Stalinist style building with columns and ten-meter-high ceilings. It’s where you go to burn cash in style. They served everything from beluga to pizza in Chaika. Special guests could order export-quality vodka from the freezer. I gave a chetvertak, a twenty-five-ruble note, to the maître when we walked in and asked for a table on the veranda. He took the money and slid it into the vest’s pocket with two fingers. He nodded at an effeminate-looking waiter in a burgundy bib apron and a crisp white shirt who stood as a sphinx next to him waiting for the maître’s command. The moment he saw the nod, he took us to a spot with the view on cruise ships anchored a hundred meters away. We sat down and ordered iced Stolichnaya and black caviar. The waiter came back with vodka in a crystal decanter, a bowl of caviar, and a plate of marinated red pine mushrooms. “From the chef,” he pointed at the mushrooms with a smile. “Call me when you’re ready to order.” By the evening, overweight government executives and underworld characters filled the restaurant. The hours fled by as we talked and laughed. We always laughed. We made up jokes nobody would understand. We laughed at people around us, laughed at ourselves for goofy stuff we’ve done. “Hey, do you remember…” was often an opening remark to an anecdote that would end in a laughing storm. We finished the dinner and ordered a bottle of cognac to go, paid the bill and headed outside to find a cab. A trip to Sochi wouldn’t be a trip to Sochi if we hadn’t swam in the Black Sea. A crazy Armenian cabbie drove us as if he had only an hour to live. He took us to a deserted beach in Dagomys where we swum naked, drank cognac to keep ourselves warm and laughed. “Hey, do you realize what you’ve done in France?” Anton said after we got dressed and found a place to sit down on a wave breaker. “Won the worlds?” “No, I mean yes, you have, but — ” he paused and looked into the moon lit horizon. “What?” “You’re a world champion now. Do you understand that?” I guess.” “I told everyone in Moscow my best friend is a world champion and no one believes me.” “They’re stupid.” “They think they breed you guys in labs at secret locations next to the cosmonauts. But here you are, a bonehead from Nalchik with a rainbow jersey. Freaks me out this thought.” “Don’t get carried away,” I said. “It was only a junior championship.” “Who cares, junior-shmunior. A world champion is a world champion. It’s a title for life. Thirty years from now, you still be a world champion. Do you know what kind of doors this title will open for you?” “Tell me.” “You’re stupid, you know that?” “No, I’m serious. Tell me what kind of doors it will open for me?” “I don’t know. All kinds. From now on, introduce yourself as Nikolai Razouvaev, a world champion. See what happens.” We laughed again. “Let’s finish the bottle and get out of here,” Anton said. “It’s getting cold.” ![]() Vinsi la prima tappa a cronometro a Samarcanda e proseguimmo con una vittoria nella cronometro a squadre. Il giorno dopo misi la ciliegina sulla torta con un altro primo posto in una tappa in linea. Se uno tappa era sufficiente per qualificarsi, cosa sarebbe successo con tre di fila? Il direttore tecnico della nazionale raggiunse la nostra ammiraglia dopo la terza tappa per stringermi la mano e darmi il benvenuto in nazionale. Ero dentro. Qualificarsi significava andare a gareggiare nell'Europa occidentale e, se avessi avuto il coraggio di fare il salto, non tornare mai più in URSS. La prima trasferta arrivò in giugno, la corsa a tappe Schleswig-Holstein Rundfahrt nella Germania Ovest. Avevo due giorni da far passare prima di volare ad Amburgo. Saltai su un aereo e andai a trovare Piotr Trumheller a Nalchik, la mia città natale. Appena seduti nel suo appartamento per la cena mi versò un colpo di vodka, un uomo che condivide un pasto con un altro uomo. Gli dissi che la nazionale della Germania dell'Est schierava Olaf Ludwig, il campione del mondo su strada Uwe Raab e Uwe Ampler. “Sei preoccupato? “ mi chiese. “Sì. Soukhorouchenkov li ha annientati nella Corsa della Pace un paio di settimane prima. Vorranno vendicarsi ed eccoci qua, con le nostre maglie rosse. Ci inseguiranno come cani rabbiosi”. “Ti faranno vedere i sorci verdi, di sicuro”, disse. “Ma questi sono i ragazzi contro cui gareggerai l'anno prossimo. Prima impari come funziona, più sarai preparato. È la stessa cosa che abbiamo fatto a Maykop. Hai affrontato ragazzi di un livello superiore per forgiarti. Ha funzionato, non è così?” Mi disse come fosse bizzarro che io avrei visto la Germania prima di lui, un tedesco etnico. Gli risposi che avrebbe dovuto andare a Berlino e saltare il muro. “Chi si prenderebbe cura di mia moglie e dei miei figli se lo facessi?” replicò. Ci zittimmo per un attimo e bevemmo un altro bicchiere di vodka. “Tornerai?” mi chiese e ci versò un altro cicchetto. “Non lo so. Voglio la maglia iridata. Solo allora me ne andrò. E se non mi convocano per i Mondiali? Quindi? Dovrei defezionare in Germania?” Lasciò la stanza per un minuto, tornò con un mucchio di tubolari avvolti nella carta da pacchi. “Cento”, disse, annuendo al mucchio con la testa. “Una scorta che ti ho preparato quando ho saputo che eri entrato in nazionale. Portali in Germania, fai un po' di soldi prima di andare in Francia e lì prendi la fuga. Hai bisogno di quella medaglia d'oro”. Il rublo era un pezzo di carta senza valore fuori dall'URSS, i tubolari sovietici erano la valuta di scambio. La matematica alla base di questo affare indotto dal socialismo era semplice. Il prezzo di mercato dei nostri tubolari in Unione Sovietica era di quattro rubli, il dollaro statunitense aveva lo stesso valore al mercato nero: un tubolare, un dollaro USA. Spendi duecento rubli per cinquanta tubolari e li rivendi agli Italiani o ai Tedeschi per dieci dollari l'uno. Prodotti della stessa qualità in Europa occidentale costano il doppio. Una volta che hai la valuta straniera, la porti a casa e la scambi al mercato nero per meno di quattro rubli per dollaro. I 500 dollari che hai portato da una gara sono ora quasi duemila rubli. I miei genitori insieme guadagnavano quattrocento rubli al mese. Avrei potuto fare duemila dollari con una sola gara in Europa portando cinquanta tubolari oltre il confine per venderli. Volare fuori dal paese non mi preoccupava tanto quanto tornare indietro. Perdere il valore di duecento rubli in tubolari, se la dogana li avesse confiscati era un rischio di impresa, ma portare i dollari in patria non lo era: possedere, comprare, vendere, o contrabbandare valuta estera dentro o fuori dall'URSS era un reato punito con un periodo di carcere così lungo che neanche volevo saperlo. Come fare lo imparai da un compagno di squadra che ci era già passato: il cannotto reggisella. Ho saputo del ruolo del reggisella nel contrabbando quando ad alta voce mi sono chiesto quale fosse il modo più sicuro per far passare una mazzetta di contanti attraverso la dogana. “Arrotolali, fasciali e mettili nel reggisella. Non controllano mai le bici. I bagagli, quelli sì. Ti perquisiranno se avrai un'aria preoccupata. Ma la bici…mai”. Continua.... www.sportintranslation.com
HTTPS://BIKE.SHIMANO.COM/EN-US/INFORMATION/NEWS/SHIMANO-GRX--THE-WORLD-S-FIRST-DEDICATED-GRAVEL-COMPONENT-GROUP.HTML
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Ad inizio maggio, Shimano ha lanciato il suo primo gruppo dedicato al gravel, cyclocross o bikepacking, ossia il ciclismo con il manubrio "da corsa" vissuto senza i vincoli del cronometro e dell’asfalto. Il suo nome? GRX. La gamma è composta da RX400, RX600 e RX800, la cui corrispondenza, e compatibilità, va dal Tiagra all’Ultegra o Deore XT, SLX e Deore per chi è più avvezzo al mondo MTB, gruppi di cui Shimano raccomanda l’uso di pacco pignoni e catene. La casa giapponese dichiara di aver passato due anni ad ascoltare le esigenze dei praticanti per offrire una vasta gamma senza imporre scelte, il che sembra anche una giustificazione non richiesta del ritardo nel presentare un gruppo dedicato rispetto agli SRAM 1X stradali.
Il GRX per punti salienti:
I commenti della rete, come sempre, si dividono: chi pensa che Shimano con la sua forza di fuoco monopolizzerà il mercato, chi pensa che SRAM, avendo giocato d'anticipo, sia saldamente al comando. A luglio si inizieranno a vedere le bici per la stagione 2020, il mercato darà il suo responso. Un’ultima considerazione, il mercato gravel sembra non essere più un fuoco di paglia, ha allargato gli orizzonti della bici a gomme, quasi, strette, peccato non vedere Campagnolo tra in protagonisti. Era una nicchia relativamente facile da occupare, con l’avvento di Shimano nel segmento sembra che lo spazio disponibile sia quasi terminato. Per approfondimenti: http://www.cyclingnews.com/news/shimano-grx-gravel-specific-groupset-launched/#disqus_thread ![]() Mi risvegliai in una casetta di legno nel centro di Lesnoye sentendo la mano di qualcuno sulla mia pelle. Aprii gli occhi e vidi un ragazzo vicino al mio letto accosciato. Teneva il mio polso nella sua mano. Indossava una camicia arancione e un cardigan che solo una nonna avrebbe indossato. Un taglio di capelli in stile militare con una frangia dritta lo fece apparire ai miei occhi come se passasse tutta la sua vita in un laboratorio di analisi. “Buongiorno”, disse in ucraino e sorrise. “Controllo la tua frequenza cardiaca a riposo. Scusa se ti ho svegliato. Puoi tornare a dormire se vuoi.” Le parole in ucraino mi passarono per il cervello confusamente, ma avevo capito quello che mi aveva detto. Parlò con tono educato. Prima di quella mattina, avevo sentito due o tre persone parlare in quel modo. Nel paradiso dei lavoratori abbaiamo. Non c’è spazio per “Per favore” e “Mi scusi”, mai un “Mi dispiace”, qui nessuno è mai dispiaciuto per niente. Uno studente di dottorato di Lvov: Yaroslav era una reliquia di un'epoca incontaminata dal comunismo. Diceva “Grazie” e “Per favore”, sorrideva e si prendeva cura di te. “Allora, come è il mio battito?” gli chiesi. “Se non sapessi che sei un ciclista, chiamerei subito un'ambulanza. È sotto i quaranta.” “E sotto i quaranta è positivo?” “Mettiamola così: il tuo cuore pompa la stessa quantità di sangue in una gettata come il mio pompa in due.” “Va bene?” Sorrise di nuovo, mi lasciò il polso e mi disse: “Lo sapremo dopo i test. Torna a dormire.” I test, tutti parlavano dei test. Il capo allenatore della Titan, Yuri Elizarov, credeva nella scienza e nei test. Quello che mi innervosiva era trovarmi di fronte una soglia che non conoscevo o a un numero di cui non sapevo nulla. Dammi un ciclista o un cronometro contro cui gareggiare, non una soglia. Iniziarono a prelevare un campione di sangue la mattina stessa del mio primo allenamento centrala. Pedalai al ristorante del Lesnoye e vidi due giovani donne in camice bianco sedute dietro ad un tavolo. Uno era indaffarata con delle provette, le etichettava e le disponeva in un contenitore apposito, l'altra puntava il suo indice verso una sedia pieghevole che le stava accanto. Sembravano carine e mi balenò l'idea di inchiodare, così da sollevare la ruota posteriore e spaventare le ragazze. Se solo la bravata fosse andata male sarei atterrato sul tavolo pieno di provette e sarei salito su un aereo che volava verso casa quello stesso pomeriggio. “Ho bisogno del tuo sangue”, disse la ragazza con il dito ancora rivolto verso il basso quando mi fermai. “Chiedi per favore”, dissi e allungai la mano senza scendere dalla bici. Lei ridacchiò e disse: “Siediti, cowboy, o potresti svenire quando vedrai i miei strumenti.” Mi prendevano il sangue due, anche tre volte al giorno, prima e dopo l'allenamento centrale e poi la sera. Al terzo giorno la punta del dito si gonfiò e fu una tortura prelevare il sangue da quel momento. Le vampire pizzicavano solo il dito medio e l'anulare. Dagli altri tre, dicevano, era troppo difficile spremere il sangue. Dopo una settimana, finii le dita che non mi facevano ancora male. Una mattina mugugnai su quanto fosse doloroso spremere la borraccia così la vampira disse: “Nessun problema, useremo le tue orecchie finché le tue dita non guariranno.” Quindi arrivarono i cardiofrequenzimetri. Non parliamo dei dispositivi da polso del ventunesimo secolo: il ricevitore viaggiava sull'ammiraglia alloggiato in una scatola delle dimensioni di un frigorifero portatile. Incollavamo i trasmettitori con il mastice da tubolari sulla pelle del petto perché nessuno aveva pensato a delle fasce quando furono progettati. La Titan non aveva tempo per soluzioni eleganti ai problemi logistici: se il mastice funziona, usiamo il mastice. Era compito delle vampire incollare i trasmettitori. Togliti la maglia davanti a due ragazze e lascia che ti cospargano il petto con il mastice. Brillante. Un pozzo senza fondo di battute sconce. La vendetta arrivava dopo l'allenamento quando strappavano via i trasmettitori insieme ai peli del petto. I piangina si depilarono una zona del petto per evitare la tortura. Gli altri, ci beavamo nel dolore. Il test di laboratorio arrivò senza preavviso. Era un giorno di riposo ed eravamo alla fine di un'uscita breve. Nikolai Rogozyan mi si affiancò e mi disse che dovevo preparare una borsa con un paio di pantaloncini, scarpe e calzini per un viaggio a Kiev dopo l'allenamento. “La nostra brigata scientifica non vede l'ora di vederti”, disse sorridente. “Ti piacerà il tempo passato in laboratorio. Cerca di non vomitare.” Il test si svolgeva in una grande stanza piena di strane attrezzature mediche. Un cicloergometro Monark a cinghia stazionava al centro della stanza con una piscina di sudore sotto. L'aria nella stanza era pesante a causa degli odori umani e la puzza di sigaretta. Un uomo e una donna vagavano nella stanza intorno al macchinario di fabbricazione tedesca. Mi dissero di infilarmi le scarpe e salire sul cicloergometro per il riscaldamento. Un uomo alto e magro con uno sguardo diabolico sul viso mi spiegò come si sarebbe svolta la prova. Indicò un metronomo vicino alla bici e mi disse che avrei dovuto sincronizzare la mia cadenza alla lancetta del metronomo. “Finché non collassi” e con questo le istruzioni erano terminate. “Per quanto tempo dovrei continuare?” gli chiesi. Grugnò e disse: “Siamo qui per scoprirlo.” Stavo per fermarmi quando il dottor Diavolo lasciò la sua postazione di comando. Si avvicinò e si fermò nella pozzanghera di sudore accanto a me, mi mise un braccio sulla spalla e mi disse nell'orecchio: “Continua. Ancora trenta secondi.” Tirò fuori un cronometro dal suo camice bianco e premette il pulsante per avviarlo. Dopo che fu passata almeno un'ora, mi disse: “Cinque secondi.” Un'altra ora, “Dieci secondi.” Dopo che ne furono passati altri cinque, volevo fermarmi. La luce si spense e il rumore del mio battito cardiaco era così forte nella mia testa che non riuscivo a sentire il metronomo. Chi se ne frega se resisto altri quindici secondi o no? A meno che i trenta secondi dopo che hai le gambe vuote non siano il test vero e proprio: questo festival della tortura è solo il preludio, un riscaldamento sadico per gli ultimi trenta secondi. Vogliono sapere fino a che punto possono spingerti con un tranquillo “Continua.” Non mi avevano piegato. La mia cadenza era fuori sincronia con il metronomo, ma ho fatto girare i pedali finché il Dottor Diavolo non mi ha detto di fermarmi. Continua.... www.sportintranslation.com |
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September 2020
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