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Costruire campioni era lo scopo del sistema. Erano regole non scritte: nessun codice, nessun manuale di istruzioni e nessun percorso chiaro da seguire. Si ascoltava quelli che ci erano passati prima di te come Piotr Trumheller e se ti piaceva quello che avevi visto ti buttavi nella mischia.
Quello che avevo visto mi piaceva. L'uomo che ora era al volante era il migliore esempio di come si dovesse agire secondo il sistema e adesso si godeva una bella vita. Quando correva non era un campione. Buona fama, un corridore su cui si poteva contare, ma non materiale con cui si potesse costruire la storia dello sport. Ma oggi aveva una vita migliore di molti ex campioni olimpici con cui aveva corso. Piotr Trumheller aveva capito come funzionava il sistema, l'aveva usato per plasmare una vita per sé stesso e per la sua famiglia che la maggior parte dei Sovietici poteva solo sognare. Mi chiese cosa ne pensavo della gara di Maykop e risposi che avevo sofferto come un cane dall'inizio alla fine. “Cosa ti aspettavi? Una passeggiata nel parco?” Non mi aspettavo una passeggiata nel parco, ma se il ciclismo era quello che avevo passato a Maykop, non faceva per me. Volevo ritirami. Ogni tappa pensavo di ritirarmi, non sapevo come arrivare all'ultima tappa. “Ritirarmi mi spaventava”, dissi. “Ma era quello che volevo fare”. “Ah, sì? “disse. “Lascia che ti dica una cosa. Facciamo che hai abbandonato il ciclismo. Tra due anni avrai finito la scuola, quando compirai diciotto anni partirai per il servizio di leva e potresti anche finire in Afghanistan, lì potresti morire o tornare con il cervello in pappa. A vent’anni anni, otterrai un lavoro in fabbrica dove produrrai roba inutile. Dopo due anni di lavoro senza senso, inizierai a bere. Entro i trentacinque, avrai distrutto il tuo fegato e sarai pronto ad andartene da questo mondo prima dei quarantacinque. Potresti sopravvivere di stenti per un po' e quindi morire nel tuo stesso vomito chiedendoti cosa saresti potuto diventare se avessi continuato a correre. Che ti pare di questa prospettiva?” Non dissi nulla. “Invece trai qualcosa di buono dal mucchio di merda in cui viviamo, o puoi anche uscirne da questa discarica”. “Cosa?” Gli chiesi. “Cosa intendi?” Dopo dieci secondi di silenzio, disse “Amo mia moglie e i miei figli. Vivo una bella vita qui in Unione Sovietica. Una cosa di cui mi pento, però, è non essere rimasto in Italia quando ne ho avuto l'occasione. Pensavo di poter lasciarmi alle spalle questo buco quando volevo, ma quel viaggio in Italia fu l'unico”. Fece una pausa, rifletté per un momento e disse: “Sono di origini tedesche. È possibile che il KGB abbia odorato qualcosa o qualcuno mi abbia denunciato, chissà. Spioni, un sacco di spie in giro. Corridori, direttori sportivi, meccanici, non si sa mai chi sparla di te. Hanno pensato che potessi essere un “runner”, un fuggitivo. Non sono mai più andato da nessuna parte dopo quel viaggio. Bloccato qui per il resto della mia vita. Un idiota”. Mi guardò e aggiunse: “Non voglio che tu faccia lo stesso errore. Non sprecare la tua occasione nel momento in cui ne hai una, non aspettare. Il primo paese occidentale in cui vai, corri come un dannato, non guardarti indietro”. Continuammo il viaggio senza dire una parola per molti minuti: quello che mi ha aveva detto, se il KGB lo avesse scoperto, lo avrebbe portato dietro le sbarre per molto tempo. Insegnare a un ragazzino di quindici anni a fare carriera nello sport solo per commettere un atto di tradimento era un crimine grave. “Ti aiuterò a crescere”, disse “Quando sarai pronto parlerò con le persone giuste e troveremo la squadra giusta per te, se vuoi farti il mazzo e farcela in questo sport”. La vita di cui parlava Trumheller era quello che desideravo: correre gare importanti su di una Colnago vestendo una divisa della Castelli, guadagnare soldi e, dopo quello che mi aveva detto, fuori dall'Unione Sovietica a correre il Tour de France un giorno. Pazzo. Uno scenario dopo l'altro mi passò per la testa. È la realtà? Posso farlo? Ho quello che serve per farlo? Vivrò da qualche parte in Francia o in Italia? Sì, l'Italia, mi piace l'Italia. Dissi: “Farò tutto quello che mi dirai: qualsiasi cosa”. Tornò nel suo silenzio. Senza guardarmi mi disse: “Se è questo quello che desideri, il ciclismo sarà il tuo lavoro per i prossimi quindici anni. Inizia a vivere da professionista: il tuo corpo è uno strumento con cui procurarti da vivere, come un martello o una pala. Impara come prendertene cura, impara a leggerlo e a sapere quando sei in forma, quando invece sei stanco e hai bisogno di riposo. Tutto quello che farai ti renderà più veloce o più lento. Vivi per allenarti e riposare. Mangia perché devi pedalare e dormi perché hai bisogno di riposo. Tutto il resto... cancellalo dalla tua vita. Mi ascolti? “ “Sì”. “Un'altra cosa”, disse. “Puoi essere il prossimo Eddy Merckx, vivere come un professionista e comunque fallire. Ricordati: tieni la bocca chiusa. Ti ho detto delle spie, non saprai mai chi sono, non fidarti di nessuno. Quello che pensi sia il tuo migliore amico può denunciarti. Non parlare con nessuno di quello di cui stiamo parlando ora. Il KGB, non ti rinchiuderanno se non hai fatto niente. Se solo pensano che potresti essere un “runner” non ti daranno mai un passaporto e non lascerai mai questo paese. Non ora, non tra vent'anni. Una volta che ti hanno messo nella lista nera, sei finito, è una condanna a vita”. La teoria darwiniana, per cui sopravvive chi meglio si adatta, trovava conferma perfettamente nel meccanismo del ciclismo su strada sovietico. Una religione di stato sposata ad un processo di selezione progettato per separare il grano dalla crusca. Gli insegnanti ci avevano spiegato che eravamo animali, sofisticati, ma pur sempre animali: giochiamo a scacchi e scriviamo poesie, costruiamo armi nucleari e ci uccidiamo a vicenda col piombo. Esaminate la storia umana e vedrete, dicevano, che terribile casino sia. Guarda indietro il più possibile e cosa vedi? Guerra, dopo guerra, dopo guerra, non ci fermiamo mai, vero? O uccidi o qualcun altro ti ucciderà. Ammanta il darwinismo della retorica comunista. Fai il lavaggio del cervello a tutti su quanto sarà luminoso e glorioso il futuro. Anche l'Occidente, quegli idioti ignoranti, un giorno vedrà la luce del marxismo e ci crederà. Dopo di che impiccheranno tutti quelli che non lo avranno fatto e si uniranno a noi nel nostro paradiso in terra. Nel frattempo, chiudi il becco. Lo sport che hai scelto tirerà fuori l'animale primordiale in te. O ti arrendi e ti unisci al branco o ti sputeranno via come il catarro. Translation from the original English version below. Making champions was the system’s purpose. Its rules were not spelled out. No rule book, no instruction manual, and no clear path to take. You listen to those who have gone before you, like Piotr Trumheller, and if you liked what you saw, you went for it. I liked what I saw. This man behind the steering wheel was the best example I knew who played the system right and was now enjoying a decent life. When he raced, he wasn’t a star. Well known, reliable rider but not the sports historians’ material. And yet, he was better off today than some former Olympic champions he raced with. Piotr Trumheller understood how the system worked. He used it to shape a life for himself and his family most Soviets could only dream about. He asked me what I thought of the Maykop race and I said I suffered like a dog from start to finish. “What did you expect?” he said. “A walk in a park?” I didn’t expect a walk in a park but if cycling was what I went through in Maykop, it wasn’t for me. I wanted to quit. Every stage I was thinking about quitting. I didn’t know how I made it to the last stage. “I was afraid to quit,” I said. “But that’s what I wanted to do.” “Oh yeah?” he said. “Let me tell you something. Let’s say you quit cycling. In two years, you’ll finish school. When you turn eighteen, the state will conscript you to the army and you might even end up in Afghanistan. You’ll either die there or come back with a messed up head. By twenty, you’ll get a job in a factory making some useless widgets. After two years of mindless labor, you’ll start drinking. By thirty-five, you’ll wreck your liver and will be good to go out of this world by forty-five. You might linger on for a while and die in your own vomit wondering what you could have become had you kept racing. How’s that sounds for a life story?” I didn’t say anything. “Instead, make something good from the pile of shit we live in or even break loose from this dump.” “What?” I said. “What do you mean?” Silent for ten seconds, he said, “I love my wife and my kids. I live a good life here in the Soviet Union. One thing I regret though is not staying in Italy when I had the chance. I thought I could leave this hole behind when I wanted to but that trip to Italy was the only one I’ve ever had.” He paused, thought about something and said, “I’m an ethnic German. It’s possible the KGB smelled something or someone ratted me in, who knows. Snitches, a lot of snitches around. Riders, coaches, mechanics, you never know who’s telling on you. They figured I could be a ‘runner.’ Never went anywhere after that trip. Stuck here for the rest of my life. Stupid.” He looked at me and said, “I don’t want you to make the same mistake. Don’t waste your chance the moment you have one. Don’t wait. The first Western country you go to, run like hell, don’t look back.” We drove without saying a word for several minutes. What he told me, if KGB found out, they’d lock him up for a long time. Teaching a fifteen-year-old kid to make a career in sport only to commit an act of treason was a serious crime. “I’ll help you grow,” he said. “When you’re ready, I’ll talk to the right people. We’ll find the right team for you if you want to work your ass off and make it in this sport.” The life Trumheller was talking about was what I wanted. Big races, riding Colnago in a Castelli kit and making money. And now, clear out of the Soviet Union and doing the Tour de France one day. Mad. One scenario after another rushed through my head. Is it real? Can I do this? Do I have what it takes to do it? Will I live somewhere in France, or Italy? Yeah, Italy, I like Italy. I said, “I’ll do whatever you say. Anything.” He went quiet again. Not looking at me, he said, “If you’re going to do this, cycling will be your job for the next fifteen years. Start living like a pro now. Your body is a tool to make a living with, like a hammer or a shovel. Learn how to look after it. Learn how to read it and know when you’re in form and when you’re tired and need rest. Everything you do will make you either faster or slower. Live for training and recovery. Eat because you need to ride and sleep because you need rest. All other things — blot them out of your life. You listen?” “Yes.” “One other thing,” he said. “You can be the next Eddy Merckx, live like a pro and still fail. Remember this — keep your mouth shut. I told you about the snitches. You’ll never know who they are. Trust no one. The guy you think is your best friend can rat you out. Don’t talk to anybody about what we’re talking about now. The KGB, they won’t lock you up if you haven’t done anything. If they think you’re a ‘runner’ they’ll never give you a passport and you’ll never leave this country. Not now, not in twenty years. Once they blacklist you, that’s it, you’re done, it’s a life sentence.” Darwin’s survival of the fittest theory matched the Soviet road cycling machine. A state religion married to a selection process designed to sort out the wheat from the tares. Teachers said we’re animals, sophisticated but still animals. We play chess and write poetry, build nuclear weapons and scorch each other with fire. Examine the human history, they said, and see what a bloody mess it is. Look as far back as you can and what do you see? War after war after war. We never stop, do we? You either kill or someone else kills you. Mask Darwinism with communist rhetoric. Brainwash everyone about how bright and glorious the future will be. Even the West, those ignorant idiots, will see the light of Marxism one day and believe in it. After that, they’ll hang everyone who doesn’t and join us in our man-made heaven on earth. In the meantime, toughen the hell up. The sport you chose will bring out that primeval animal from within you. Either give in and join the pack or it will spit you out as a lukewarm waste. ![]() In questo radioso futuro, canta Bob Marley, non puoi dimenticare il tuo passato. Ho seppellito il mio passato in un paese che oggi non troverai su una mappa: è esploso settant'anni dopo essere salito sulla scena mondiale nel 1917. Eravamo unici, ecco cosa ci insegnavano i nostri maestri. Circondati da paesi capitalisti, eravamo la prima nazione sulla terra che dava inizio ad una nuova era nella storia dell’umanità. Eravamo sulle ginocchia e ci siamo rialzati per costruire una società di pace e prosperità. In meno di vent'anni trasformammo un impero basato sull’agricoltura in una nazione industriale. Abbiamo sepolto trenta milioni di uomini per liberare il mondo dal nazismo. Siamo risorti dalle ceneri della seconda guerra mondiale per lanciare la prima navicella spaziale della storia. Per proteggere il nostro stile di vita abbiamo costruito un arsenale nucleare letale a sufficienza da distruggere il pianeta più volte. Osservavamo il mondo corrotto rincorrere beni materiali dalla culla alla tomba. Mente osservavamo abbiamo mostrato la supremazia del socialismo nell’arena internazionale dello sport. Abbiamo mandato una squadra di hockey su ghiaccio in tour in Canada e negli Stati Uniti negli anni settanta per dimostrare la nostra superiorità sulla NHL. Abbiamo costruito decine di campioni olimpici. Marciavamo verso il dominio del mondo su tutti i fronti con un passo implacabile. Credevo in tutto ciò quando ho iniziato a correre in bici all'età di dodici anni. La Corsa delle Pace e le Olimpiadi erano le gare più importanti del nostro sport. I professionisti e il loro Tour de France erano alimentati da droghe e soldi: fai sparire il doping e li avremmo avuti in pugno, come chiunque altro. Il mio allenatore, Piotr Trumheller, guidava la sua Lada rossa in silenzio sulla via del ritorno dalla mia prima gara a tappe. Avevo quindici anni e mentre viaggiavamo guardavo fuori dal finestrino e ripercorrevo ogni tappa che avevo corso. Il ragazzo che ero prima di questa corsa non c'era più: il ciclismo che conoscevo una settimana prima era Topolino al confronto, un fumetto per bambini. La prima tappa sulle strade ghiacciate di Maykop fu lo spartiacque tra il ciclismo che conoscevo, un gioco, e quello vero. Due ore di disperazione in bicicletta ed erano solo l'antipasto delle sette tappe che avevo di fronte. Abbiamo corso con neve, pioggia e fango a temperature di una sola cifra sopra lo zero. Alla terza tappa avevo esaurito tutte le divise asciutte perché me ne avevano fornite solo due. Il posto in cui eravamo alloggiati non disponeva né di acqua calda, riscaldamento o docce. Indossai i pantaloncini di lana, ormai sformati, impregnati dei granelli sabbia dalla seconda tappa. Non ero riuscito a lavare via la sabbia nell'acqua fredda del lavandino del bagno e la sabbia si strofinava contro la pelle delle cosce ad ogni colpo di pedale. Non mi dava fastidio durante la gara, mentre lottavo per rimanere nel gruppo pieno di ragazzi più grandi di me. Superai il traguardo con le cosce che bruciavano come se qualcuno avesse passato le ultime tre ore a strofinarmi il soprassella con la carta vetrata. Alla fine della quarta tappa sanguinavo tra le gambe. Alla quinta tappa le ferite si sono infettate e avevo difficoltà a camminare, figuriamoci a pedalare. Ho finito la sesta tappa con un rivolo di sangue che scorreva da sotto i pantaloncini fino ai calzini. Ogni sera andavo a letto sperando di svegliarmi il mattino e scoprire una crepa nel telaio per avere una scusa per ritirarmi. Volevo cadere e rompermi una clavicola, un braccio o un osso qualsiasi. Qualsiasi cosa per evitare un’altra giornata in bicicletta in una primavera piovosa e con venti laterali. Vorrei aver pianto la notte, ma non lo feci. Vorrei poter dire di aver resistito, pieno di perseveranza. Vorrei poter dire che scavai nella profondità della mia anima per rimanere in gara o cose del genere, ma non lo feci. Nelle ultime quattro tappe volevo ritirarmi. Continuavo a pensare che a casa i miei compagni di scuola erano seduti in un'aula riscaldata. Io, invece, ero in attesa su una linea di partenza, gelato fino al midollo e terrorizzato dagli stronzi che mi circondavano, pronti a rendermi la vita un inferno. Sono caduto alla settima tappa facendomi un buco nel palmo della mano destra, mi tenevo il polso, fingendo di essermelo rotto. “Alzati!” Riecheggiò il grido di Trumheller. Arrestò l'ammiraglia e corse verso di me, afferrò la bici e fece girare prima una poi l’altra ruota per controllare che fossero a posto. Di nuovo, gridò: “Su! Alzati!” Venti chilometri dopo stavo ancora inseguendo il gruppo. Nessuna possibilità di riprenderlo. Mi affiancò e mi chiese se avessi bisogno di qualcosa, gli mostrai la mano e gli dissi che non sarei durato a lungo con quel dolore. Avevo difficoltà ad impugnare il manubrio su quelle strade dissestate. Inchiodò e un minuto dopo tornò sporgendo un braccio fuori dal finestrino che impugnava un paio di guantini. Li teneva in auto, un'abitudine dei tempi delle corse. “Mettiteli” mi disse. “Ci vediamo all'arrivo.” Non mi ritirai, il sistema di cui facevo già parte non lo permetteva: o dentro o fuori. O ti impegni completamente al cento per cento o niente. Nessun problema se non lo fai, ma non ti vogliamo e non abbiamo bisogno di te. Non farci perdere tempo, vai a fare qualcos'altro: gioca a calcio, studia, trovati un lavoro, costruisci il comunismo e servi il tuo Paese. Translation from the original English version below. In this great future, Bob Marley sang, you can’t forget your past. I’ve buried my past in a country you won’t find on a map today. It crashed to the ground seventy years after it rose to the global stage in 1917. We stood alone, our teachers taught. Surrounded by capitalist countries, we were the first nation on earth to start a new era in human history. We stood up from our knees to build a society of peace and prosperity. In less than twenty years, we turned an agrarian empire into an industrial nation. We laid down thirty million of our fellow men to rid the world of Nazism. We crawled from the Second World War’s ashes to launch the first spacecraft in the humankind’s history. To safeguard our way of life, we built a nuclear arsenal deadly enough to destroy the planet more than once. We watched the rotten world race for earthly possessions from birth to death. Watching, we went on to show socialism’s supremacy on the international sports arena. We sent an ice hockey team on the tour of Canada and the USA in the 1970s to take on the NHL. We made Olympic champions by the dozens. We marched to the world dominance on all fronts in steady stride. That’s what I believed when I started cycling at the age of twelve. The Peace Race and the Olympic Games were the two most important events in the sport. The pros had their Tour de France fuelled by drugs and money. Take away the dope and we’d own them as we own everyone else. My coach, Piotr Trumheller, drove his red Lada in silence on the way back from my first stage race. I was fifteen. As we drove, I looked out the window and played back every stage I raced. The kid I was before this race had faded away. The cycling I knew a week ago was a Mickey Mouse version of it, a comic strip. The first stage on the frozen streets of Maykop was the divide between the mock cycling I knew and the real thing. Two hours of misery on a bike was a preface to seven more road races still to come. We raced through sleet, rain, and mud in temperatures a single digit degree above zero. By stage three I ran out of dry cycling kit because I only had two sets. The place we stayed in had no hot water, no heating, and no showers. I pulled on the soggy wool shorts infested with sand grains before the second stage. Couldn’t wash the sand off in a toilet sink’s cold water. The sand, it rubbed against the skin on my thighs with every pedal stroke. It didn’t bother me in the race as I fought to stay in the bunch full of guys years older than me. I crossed the line with thighs burning as if someone spent the last three hours rubbing my perineum with sandpaper. I bled between my legs by the end of stage four. By stage five the wounds got infected and I had trouble walking, never mind riding. I finished stage six with a tiny blood creek going down from under my shorts to the sock. Every night I went to bed hoping to discover a crack in my frame the next morning as an excuse to quit the race. I wanted to crash and break a collarbone, or an arm, or whatever. Anything to dodge another day on a bike in spring rain and cross winds. Wish I cried at night but I didn’t. Wish I could say I soldiered on, full of perseverance. Wish I could say I reached out to the depths of my soul to stay in the race or some nonsense like that, but I didn’t. The last four stages I wanted to quit. I kept thinking about my schoolmates sitting in a warm classroom back in my hometown. Me, I’m standing on a start line, frozen to the bone and scared of the assholes around me who made my life hell. I crashed on stage seven and ripped a hole in the palm of my right hand and sat on the road, nursing my wrist, pretending I broke it. “Get up!” I heard Trumheller’s shout. He pulls to a stop in his car and runs toward me, grabs my bike and spins each wheel to check if they’re good. Yells again: “C’mon! Get up!” Twenty kilometres later I’m still chasing the peloton. Not a chance to get back on. He pulls up alongside me and asks if I need anything. I show him my hand and tell him I won’t last long with this pain. I had trouble holding on to the handlebar on the rough roads. He slams on the brakes. A minute later he’s back with his arm stuck out the car’s window holding a pair of cycling gloves. He kept them in his car, a habit from the racing days. “Put them on,” he says. “I’ll see you at the finish.” I didn’t quit. The system I was already a part of didn’t allow it. You’re either in, or you’re out. You either commit your entire self hundred percent, or you don’t. It’s okay if you don’t, but then we don’t want you and we don’t need you. Don’t waste our time. Go do something else. Play soccer. Study. Get a job. Build communism. Serve the country.
Il secondo capitolo sui miti da sfatare nelle tre discipline del triathlon secondo Brett Sutton - Home of Triathlon: la bici.
![]() In seguito ad un'accoglienza molto positiva su un articolo sui falsi miti del nuoto che sono emersi dal ritiro di Cozumel il mese scorso, ho pensato di scrivere una serie in tre parti per sfatare i falsi miti, non solo nel nuoto, ma anche nella bici e nella corsa. Più che mettermi a scrivere un articolo, ho chiesto ai nostri allenatori e ai loro atleti cosa avessero sentito dire da me nei campi di allenamento riguardo le tre discipline. Attenersi alla realtà, più che alla teoria. Quindi questo articolo tratta della bici. * "Dimentica cosa ti hanno detto sul pedalare agile. Una cadenza di 100 rpm è una scemenza assoluta. Così pestiamo. Non pedaliamo agile". * "Puoi essere troppo aerodinamico davanti sulle prolunghe. Uno dei più grandi errori che ho visto tra gli amatori è avere i poggia gomiti, e di conseguenza i gomiti, così ravvicinati da non avere il controllo della ruota anteriore. Così zigzagano per la strada, percorrendo più distanza, inficiando tutti i benefici di avere una posizione aerodinamica". * "Se gareggi sempre con la bici da cronometro, allora allenati su di essa. Allenati come gareggi! Nella nostra squadra contiamo solo i chilometri passati sulle prolunghe!". * "Non cedere alla tentazione di pedivelle più lunghe ti farà essere alla fine più veloce. Siamo triatleti, le pedivelle più lunghe potrebbero renderti più veloce in una cronometro, ma avranno effetti negativi sulla tua corsa." * "Prova a dimenticare che la pedalata dovrebbe essere un cerchio completo. Continuare a spingere verso il basso con il tallone che conduce la pedalata e tirare verso l'alto rallenta la tua corsa". * "Facciamo in modo di recuperare ad ogni pedalata. Recuperiamo quando nuotiamo. Tutti gli "esperti" sono concordi su questo. Recuperiamo quando corriamo. Tutti gli "esperti" sono concordi su questo. Ma ci hanno insegnato che una buona tecnica ciclistica non necessita assolutamente di nessun recupero! Trai le tue conclusioni su questa teoria. La mia è che non vale nulla. * "Poiché non tiriamo dal basso non abbiamo bisogno di avere il tallone basso. Le dita che puntano in basso vanno bene per noi. Impostiamo una posizione aggressiva sul movimento centrale che rende difficile spingere di tallone. E poiché non ricerchiamo nessuna potenza nel tirare dal basso non abbiamo bisogno di un piede piatto". * "Cerchiamo una posizione in bici per utilizzare il meno possibile il polpaccio e il tendine di Achille. Ascolta attentamente, dobbiamo correre per tre, quattro o cinque ore dopo la bici. Dreniamo anche energie dai muscoli posteriori della coscia con il movimento a tirare. Ci stiamo preparando per il triathlon non per il ciclismo...". * "I telai sono il componente più sopravvalutato tra l'equipaggiamento sul mercato. Risparmiare sul loro acquisto ha una ragione economica se si comprende che le prolunghe, la catena, le coperture, la sella e le ruote sono molto più importanti nel rendere veloce la bici, e permetterà di comprare i due più importanti pezzi dell'equipaggiamento per migliorare di molto in gara. Questo porta a un altro punto dei suggerimenti... * "I due più importanti attrezzi per l'allenamento sono dei rulli che permettano una bassa cadenza e il tapisroulant. Senza dubbio, sono i due più importanti attrezzi nel triathlon. Li ho usati entrambi per trent'anni. Sono stati il mio primo acquisto come allenatore. In trent'anni non ho visto nulla che mi abbia fatto cambiare opinione. In conclusione. Posso sentire che qualcuno sta dicendo: "E quindi niente a proposito dei watt?". Il miglio suggerimento sui watt che vi posso dare è leggere il fantastico articolo di Cam Watt. È il mio Watt favorito, e sarà anche il vostro dopo avere letto l'articolo. Il grande dibattito sulla cadenza. Posso assicurare tutti i lettori che se seguiranno quanto scritto sopra miglioreranno oltre ogni aspettativa. Se si è appena approdati al triathlon e non si ha un passato da ciclista agonista, le tecniche dei migliori ciclisti al mondo sono solo "specchietti per le allodole" per noi Smettetela di prendervi in giro e mettetevi al lavoro. Brett Sutton 22 marzo #Sport#endurance #Sport #endurance #translation #copywryting #triathlon #swimming #cycling #running #English #Italian #Australia #traduzioni #articoli #nuoto, #ciclismo #corsa #inglese #italiano #localizzazione #localization #Italia #Italy ![]() Primarily, thanks to my friend Robin Haywood, Brett Sutton's right hand, for permission to publish this article. Brett Sutton is among the most unorthodox coaches in Triathlon, maybe is THE most one unorthodox, but one among the most winning as well, just to mention the four Ironman Hawaii winner Daniela Ryf. Following you can read my translation of his article about the camp he held in Cozumel and myth busting in swimming. You can find the original version at team.homeoftriathlon.ch. Enjoy and let me know what do you think about it as a triathlete/swimmer. La settimana scorsa è stata per me come un viaggio nel tempo, sono infatti tornato ai precedenti campi di allenamento. Una squadra di professionisti e una programmazione per socializzare nell'idilliaca isola di Cozumel dove grandi amicizie sono state strette e, dal punto di vista triatletico, ho ottimi ricordi che includono "The Champ" Nicola Spirig vincere un Ironman dopo sole cinque settimane di allenamento. E l'isola è stata anche la sua gara del rientro dopo il ritiro, ha infatti vinto la tappa della coppa del mondo ITU a Cozumel dopo essere tornata a correre nel 2013. L'isola è anche dove "The Angry Bird" Daniela Ryf ha passato due settimane in un campo di allenamento che sono culminate con un terzo posto nel 70.3 di Cozumel nel 2013. E, cosa più importante, ci siamo stretti la mano su "vediamo dove ci porta una collaborazione". Si, i ricordi sono riaffiorati durante il mio nuovo soggiorno a Cozumel. Mi si perdoni il mio personalissimo punto di vista, ma quest'isola significa molto per me. Mentre sono seduto sul traghetto del ritorno dopo la settimana del campo di allenamento, mi chiedo se sia stata una settimana proficua. Spero lo sia stata per tutti i nostri partecipanti, i tanti amatori di ogni età, gli allenatori che hanno completato la parte pratica delle loro formazione, alcuni amatori che seguo personalmente e un atleta professionista Trisutto, tutti assieme senza distinzioni per una serie di conferenze e sessioni di allenamento. Per essere onesti, mentre nessuno dei partecipanti ha detto di non aver apprezzato il ritiro, ho apprezzato il riscontro da parte di un allenatore non fazioso che era in completo disaccordo con i nostri metodi nel nuoto il primo giorno ed è venuto da me l'ultimo giorno per dirmi: "Non posso credere che sia lo stesso gruppo di lunedì scorso, adesso sì che sembrano tutti dei nuotatori! Come hai fatto?' Devo quindi sottolineare cosa ho chiesto di osservare ai nostri amici allenatori Trisutto. Vi sono cinque fondamentali che si ritiene siano necessari per migliorare nel nuoto, eppure non se ne è mai, assolutamente, parlato durante il campo o le sessioni. Nessun rinforzo verbale positivo per: 1) Gomito piegato 2) Distanza per bracciata 3) Necessità della gambata 4) Fermare il rollio del corpo 5) Non far passare le mani sotto il corpo Aggiungiamo altre cinque miti, non tra i fondamentali, ma corollario dei primi. In ordine sparso: A) Non abbassare la teste e guarda al fondo della piscina B) La "trazione" C) Il gomito basso D) Respirare su entrambi i lati per gli uomini E) Allungarsi il più possibile per le donne Ma abbiamo terminato il campo con tutti gli atleti che nuotavamo meglio e in maniera più efficiente di quando erano arrivati, chiedetelo a chiunque lo abbia frequentato. Il nuoto non è un massimo sistema e la maniera in cui è presentato alle masse è un enorme disservizio per il novanta percento degli amatori. Abbiamo anche ignorato la "Palestra per il proprio ego" e, dopo una sessione di quarantacinque minuti, è stato piacevole, mentre stavamo uscendo, sentirsi dire da un personal trainer "Coach, questa palestra non ha mai visto un allenamento come questo da quando sono qui. Come misura il risultato finale?". "Usiamo la sudologia, vai a vedere il pavimento". Mi ha reso estremamente orgoglioso vedere persone al di fuori nostro gruppo approvare tutto quello che facevamo. Quando, quindi, abbiamo veleggiato via da questa isola magica avevo il sorrisetto stampato in faccia. Compito eseguito! Grazie a tutti quelli che hanno partecipato, è stata una settimana che ricorderò. Anche il vostro allenatore torna a casa felice, complimenti anche a tutti voi, e che la stagione che va ad iniziare sia priva di problemi meccanici alla bici. È così che la vedo io. Sutto Translation from the original English version below. More myth busting in Cozumel! Brett Sutton. January 27 This past week was like time travel, back to previous years of running camps, a pro team, and a social program out of the idyllic island of Cozumel. Great friends were made, and from a Triathlon point of view, there where also great memories, including 'The Champ' Nicola Spirig winning an Ironman on 5 weeks training. Also the island was her 'back from retirement' race, in winning the ITU World Cup at Cozumel in her come back race in 2013. This island is also where 'The Angry Bird', Daniela Ryf put two weeks in at a trial camp that ended with a 3rd place in the 70.3 Cozumel race in 2013. More importantly, we shook hands on 'let's see where a partnership together leads us'. Yes, the memories all came flooding back while staying again in Cozumel. Forgive me for my whimsical navel gazing but this island means so much to me. So, as I sit here on the ferry leaving after our week of camp, one asks oneself if it was a successful week? I hope it was for all our participants - a great cross section of age group athletes, coach's completing the practical component of their coaching certification, some of my private age group team, and a Trisutto pro, all mixed together for a series of lectures and training fest. While to be honest none of the participants are going to say it was a terrible camp, I appreciated the feedback from an unbiased coach that completely disagreed with our methods in swimming on the first day, and then came to me on the last day and said 'I can't believe that they are the same group you had here on Monday, they all look like swimmers now! How do you do it?' So I thought I would point out what I asked our budding Trisutto coaches to observe. Here are the 5 fundamentals that are supposed to be needed to improve swimming, however these are not talked on at any time during our camp or sessions: No positive reinforcement on any of these 1/ No talk on bent elbows 2/ No mention of distance per stroke 3/ No mention of the need to kick 4/ Stop body rolling 5/ No talk of get your hands under your body Plus we will add five more, not fundamentals,but articulations of more myths. In no particular order: A/ Don't put your head down and look at the bottom of pool B/ We never used the 'pull' word C/ Not one mention of dropped elbows to any athletes D/ No mention of breathing on each side for men E/ No mention of stretching out for females But here we are leaving the camp with every athlete swimming better and more efficiently than when they arrived. Ask any that attended the camp. Swimming is not rocket science, and the way it is described to the masses is a huge disservice for 90% of age group triathletes. We also over took the Ego Gym spin room, and after a 45 minute session it was also a pleasant surprise that one of the personal trainers said on the way out 'coach that room hasn't seen a workout like that since I been here'. How did you measure the output coach - 'we use sweatology, take a look at the floor'. It made me incredibly proud to see people outside of our group objectively give whatever we did a thumbs up. So as we float away from this magical island I have a small smile on my face. That job done! Thank you to all that attended, it was a week that I will remember. So coach is going home happy too. Well done to you all. And best mechanical luck for the coming season. Just the way I see it. Sutto First published in BDC-MAG.com. Original version at Nikolai Razouvaev Website ![]() Il Ribelle è una collezione di memorie che ho scritto per la rivista RIDE Cycling Review [pubblicata in Australia, NdT] tra il 2014 e il 2017. Per quanto mi è dato sapere, una prima assoluta nella letteratura in inglese per una storia di ciclismo ambientata nell'Unione Sovietica dietro la cortina di ferro. Quello che andrete a leggere è solo una parte della storia, quello che voglio raccontare. Non ho mai avuto intenzione di trascrivere la serie che ho scritto per RIDE fino a quando decine di lettori mi hanno contattato per dirmi che avrebbero apprezzato poter leggere l'intera storia sotto forma di libro. A quel punto tre o quattro numeri erano già stati pubblicati. La storia inizia quando è iniziata per la rivista, non quando sarebbe iniziata se mi fossi seduto a scrivere un libro. E la narrazione, so come narrare una storia come so pescare, e non ho mai pescato un pesce in vita mia. Questo è il motivo per cui, dopo che RIDE ha cessato le pubblicazioni nel 2017, mi sono chiuso nel mio studio notte dopo notte per tagliare e correggere questo manoscritto, per dargli uno stile più vicino a quello che ho iniziato ad utilizzare alla fine della serie. Come qualsiasi altra abilità, scrivere richiede un tempo di apprendimento. Da quando ho iniziato nel 2014 all'ultimo capitolo della serie che ho scritto, ho la sensazione di essere passato dal finire una corsa in gruppo a correre per il podio. Due cose diverse. Ho tagliato tra le seimila e le settemila parole della versione della rivista. Cose che andavano bene per una rivista, ma non si addicono ad un libro. I dialoghi, tagliati e portati all'essenziale. Parliamo dei dialoghi. Immaginatevi di dover trascrivere una conversazione che è avvenuta trent'anni fa. Anche solo ieri. Non ieri, questa mattina. O dopo aver litigato con qualcuno. Provate a trascriverlo. Provate a registrarlo e confrontare gli appunti. Non corrisponderanno. Anche la memoria difetta. Chi ha detto cosa, nel passato. Quanto buona è la vostra memoria? Quante volte vi hanno detto: “Non ho detto che...” oppure “Ma tu dicevi...” Quanto affidabile è la vostra memoria? Per quanto mi riguarda, tutto quello che ho conservato è un’immagine, un fotogramma. Quello che so con certezza è che mi conosco. So quello che avrei detto se chi mi stava di fronte avesse detto questo o quello, se. Fotogrammi che ho tirato fuori dalla memoria uno per uno e attaccati alla lavagna. È accaduto veramente? A qualcuno importa? È per questo che ho eliminato un po' di dialoghi: troppe parole, dialoghi solo ricostruiti. Si cerca di ricreare un dialogo e si finisce per scrivere quello che ci si aspetta di trovare in un libro, solo che nessuno parla in quel modo nella realtà. Non lo sapevo nel 2014 quando ho iniziato a scrivere. Non sapevo che scrivere i dialoghi sarebbe stata la parte più difficile del lavoro. Pensavo che sarebbe bastato scrivere come farebbe uno scrittore per cavarsela, peccato che non me la cavo. Quando parlo, voglio essere me stesso, quando qualcun altro parla, voglio che sia proprio lui e voglio che lei sia lei. E aggiungete che tutti i protagonisti dei dialoghi parlavano russo, è complicato. Mi merito un po' di comprensione per quanto riguarda i dialoghi: se non me la concederete, me la prenderò comunque. Sono stati adattati, quello che sto cercando di dire è che li ho resi più vivi nel manoscritto, questo per voi lettori, tutto in questo libro è pensato per voi lettori. Che cosa rimane da dire? Il prossimo passo sarà raccontare il resto della storia: la fuga dall'URSS, quando mi sono innamorato, il peregrinaggio in Europa, il viaggio in Canada, l'arrivo in Australia. Si consideri questo libro come una prima parte. Nikolai Brisbane, 25 Maggio 2018. Original English version below. Translation from the original English version below. Introduction The Renegade is a collection of memoirs I wrote for RIDE Cycling Review magazine between 2014 and 2017. As far as I know, this is the first look behind the Iron Curtain into Soviet cycling in English literature. What you'll read is only part of the story I want to tell. I never meant to turn the series I wrote for RIDE into a book until dozens of readers contacted me and said they'd like to read the whole thing in a book form.By that stage, I was already three or four issues in. The story started where it started, not where I'd have started it had I sat down to write a book. And the narrative, I knew how to narrate a story as I knew how to fish — I've never caught a fish in my life. Which is why, after the RIDE had closed down in 2017, I sat in my writing cave night after night and trimmed and edited this manuscript to carve it into a shape closer to how I started to write at the end of the series. Like any other skill, writing takes time to learn. Where I started in 2014 and the last chapter in the series I wrote is like me trying to finish a race in the main bunch and racing for a podium. Two different things. I chopped six or seven thousand words off the magazine version. Pieces that were fine for a magazine but didn't belong in a book. Dialogs, trimmed and chopped off some dialog meat. Speaking of dialogs. Picture yourself writing down a conversation you had thirty years ago. Yesterday even. Never mind yesterday — this morning. Or as you argue with someone. Try to write that down. Try to tape it and compare your notes. They won't match. Every memoir has this problem. Who said what in the past. How good is your memory? How many times have you heard: I didn't say that... Or: But you said... How good is your memory? Me, all I have is an image, a snapshot. All I have is — I know myself. I know what I would have said if he or she had said this or that. If. Snapshots I pull out of my memory one by one and stick them to the wall. Did this really happen? Does anyone care? This is why I buried some dialog — too much talking, bookish talking. You try to recreate a dialog and end up writing what you'd expect to see in a book except no one talks like that. I din't know that in 2014 when I started writing. I didn't know that writing dialog is the most difficult part of the job. I thought if I write like a writer, I'll be fine. Except I'm not fine. When I speak, I want me to be me. When someone else speaks, I want him to be him. I want her to be her. And we all speak Russian as I write. It's complicated. I deserve a second take on the dialog. If not, I take it anyway. t's edited. That's what I'm trying to say. I breathed more life into the manuscript. For you. Everything in this book is for you. Where to from here? Next step is to tell the rest of the story. The run from the USSR, the falling in love part, hanging out in Europe, the trip to Canada, the landing in Australia. This e-book, think of it as a preview. Nikolai Brisbane, 25 May 2018. LA OLMO SI RIPETE. PODIO NELLA SUNSHINE COASTLa settimana nella Sunshine Coast è iniziata con temperature torride, otto gradi oltre la media stagionale, umidità altissima e piogge torrenziali, tutto faceva prevedere il peggio per la tappa di coppa del mondo di Mooloolaba. Il meteo è stato invece molto clemente, niente pioggia, se non un breve acquazzone a bagnare il podio femminile che ha rinfrescato la seguente gara maschile. Anche l’oceano era una tavola, fatto veramente insolito a Moolooba, spauracchio di molti nuotatori locali, le onde avevano creato una qualche selezione nell’edizione dell’anno scorso tra i meno smaliziati nel nuoto oceanico, non quest’anno in entrambe le gare.
La gara femminile vedeva al via le Italiane Angelica Olmo, che difendeva il terzo posto dell’anno scorso, Annamaria Mazzetti e Giorgia Priarone. Le australiane Jeffcoat e Perkins hanno provato il forcing nel nuoto uscendo con una decina di secondi su tutte ed in un primo momento questa mossa ha creato un frazionamento in tre tronconi del gruppo nei primi chilometri di bici, con la Olmo e la Mazzetti attardate sul primo gruppo, ma presto i primi due gruppi si sono riuniti, l’unica tagliata fuori dalla testa della gara è risultata la Priarone. Da questo punto fino al giro finale di corsa, la Olmo e la Mazzetti hanno fatto gara di testa, spesso letteralmente gomito a gomito. Ad un giro e mezzo dalla fine l’australiana Gentle e l’americana Tomlin allungano il passo, Angelica Olmo allunga a sua volta, ma non tiene le prime due, ad Annamaria Mazzetti manca il cambio di ritmo nel finale, come ci dirà rivelerà dopo la gara, il che la relegherà ad un comunque ottimo sesto posto, davanti alla quinta classificata dei Giochi di Rio Barbara Riveros, nona al traguardo. La Gentle va a vincere in solitaria, la segue la Tomli, la Olmo a metà rettilineo finale si volta spalle per essere sicura di salire nuovamente sul terzo gradino del podio allestito sull’esplanade di Mooloolaba. Alle quindici parte la gara maschile, minacce di pioggia che non verranno mantenute. In gara per l’Italia Gianluca Pozzati, Gregory Barnaby, Davide Ucellari e Delian Stateff. Parlassimo di una gara senza scia diremmo che il canadese Tyler ha dominato dall’inizio alla fine, è uscito, infatti primo dall’acqua con cinque secondi sul secondo, il neozelandese Sam Ward. Il canadese non ha, saggiamente aggiungeremo, provato la fuga solitaria, ma ha fatto compattare il gruppo, tutti gli Italiani erano dentro. Potrebbe sembrare che la frazione ciclistica sia stata solo una tappa di trasferimento, ma non corrisponde assolutamente al vero, mantenere la posizione in un gruppo di cinquanta atleti non è semplice: al secondo giro lo svizzero Max Studer, campione europeo, era in seconda posizione nel gruppo, ottimo per uno da sub 15 nella corsa come lui, al passaggio successivo era nelle retrovie ad inseguire, alla nostra domanda sul motivo la risposta è stata la bagarre in gruppo per mantenere le posizioni degna di un criterium come se ne svolgono molti nel professionismo su strada australiano. Dopo T2 Mislawchuk allunga di nuovo il passo per andarsi a prendere la vittoria, alla fine farà registrare i migliori parziali di nuoto e corsa. Prova ad accodarsi il tedesco Valentin Wernz, inizialmente tiene il passo, ma cede e lascia il secondo posto all’australiano Copeland. Gli Italiani sono raggruppati tra il quattordicesimo posto di Pozzati e il diciannovesimo di Stateff. Prossima tappa della World Cup a fine mese dall’altra parte del Pacifico di fronte a Mooloolaba, Playmouth, in Nuova Zelanda, da cui per ora riecheggiano solo tristi notizie. #triathlon #mootri #angelica-olmo #barbara-riveros #sunshinecoast#sportintranslatione |
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September 2020
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