![]() Dalla radio dell'auto lo speaker annunciò che attualmente vi erano nove gradi Celsius a Mosca e una pioggerellina ghiacciata prevista nel proseguo della giornata. Con questa notizia ci siamo diretti all'Università Statale di Mosca, sede di partenza della cronometro a squadre. Attualmente? Cosa significa? Il sole splenderà quando saremmo usciti dall'auto? Il mio petto era colmo di disgusto per il ciclismo, la pioggerellina, la Mosca bagnata fuori dal finestrino dell'auto e Nikolai Rogozyan. La radio stava ora diffondendo la visione della nuova Unione Sovietica di Mikhail Gorbaciov, appena incaricato dal Politburò della sua costruzione. Era il quarto Segretario Generale del Partito sotto cui vivevo, i tre precedenti erano morti uno dopo l'altro. Eravamo usciti dal sentiero, diceva, il sentiero che il nostro grande Lenin aveva tracciato sessantacinque anni fa. Il sentiero pavimentato con le ossa dei nostri antenati che ci avevano preceduto. Abbiamo marciato lungo questo sentiero, ci siamo distratti, e ora è arrivato il momento di tornare su di esso prima di perdere ciò che avevamo costruito. Perdere cosa? Cosa avevamo costruito? Una prigione per 300 milioni di persone? Fattorie collettive e negozi di alimentari vuoti? Auto che si rompevano prima di lasciare la fabbrica, le stesse che non potevi comprare da nessuna parte tranne il mercato nero? Sì, certo, abbiamo costruito stazioni spaziali e armi nucleari, jet da combattimento, l'AK-47, i sottomarini. Venite a prenderci. Un pozzo prosciugato. Dicci che grande nazione siamo. Chiamaci di nuovo alle armi, lo vogliamo. Se l'America vuole il nostro sangue, venga a prenderselo. Bombardate quei bastardi, cosa stiamo aspettando? Vogliono la guerra? Daremo loro la guerra. Non ne hanno mai avuta una, non una vera sul loro suolo, comunque, non sanno cosa significhi perdere un milione o due di vite in una battaglia. Li spazzeremo via prima che abbiano il tempo di scavare le loro stesse tombe. Morire in guerra, è quello che facciamo, lo adoriamo. Venite, cani, venite e assaggiate. Quando senti l'odore di una rissa, mio fratello mi ha detto la sera prima che iniziassi la prima elementare, non aspettare che ti travolga. Colpisci per primo. Colpisci, non smettere di colpire. La paura, la gente capisce la paura. Ho finito la scuola con le nocche sfregiate per aver rotto i denti agli altri ragazzi. I cani mangiano i cani. Avrei dovuto ascoltare mio padre e rimanere in una scuola di scacchi. Mi ha insegnato a giocare quando avevo sei anni. La domenica mattina correvo nella camera dei miei genitori con una scacchiera, saltavo sul letto di papà e gli chiedevo una partita. Non ha mai rifiutato. Metteva da parte il suo giornale, il Trud, e mi concedeva due partite, una per ogni lato. Parlò con un giocatore professionista che conosceva e iniziai ad andare alle lezioni di scacchi che teneva nel seminterrato di una scuola locale. Mio padre non ha mai mostrato che avesse a cuore i miei interessi, tranne quando ero preso dagli scacchi. “Hai gli scacchi nel sangue”, mi disse mentre ci sedevamo sul suo letto una mattina per giocare. “È un gioco per persone solitarie. Sarai un buon giocatore.” Arrivammo alla zona di partenza recintata da transenne d'acciaio e soldati in impermeabili inzuppati. Le ammiraglie sparse in un largo spiazzo assegnato dalle autorità al gruppo. I corridori, i meccanici e i direttori sportivi si muovevano avanti e indietro tra le auto con le loro giacche a vento blu marina o nere e i berretti bianchi girati all'indietro con la visiera all’insù. Parecchi ragazzi si stavano riscaldando sui rulli. Ho chiuso gli occhi per immaginare come potrebbe andare oggi la gara, come avrebbe potuto svolgersi e i diversi epiloghi. Vicino alla linea di partenza, seduto sulla sella con la schiena ritta, braccia a penzoloni, guardai un grande cronometro Omega. Dieci secondi alla partenza, mi abbassai e afferrai il manubrio per spremerlo con forza per contrarre i muscoli, percepire “ok, pronto” da dentro il tuo corpo. Il cuore inizia a pompare con battiti rumorosi, un colpo, un colpo nelle orecchie e si sente il primo bip, sei secondi alla partenza. Perché proprio sei non l'ho mai saputo, ma quando inizia a trillare, tutto gli altri rumori si zittiscono e tutto ciò che si sente è il bip dell'Omega. Cinque, quattro, tre, due, uno, via. Siamo andati a tutto gas fin dal colpo di pistola. Un buco si è creato davanti a me appena fuori dal cancelletto perché avevo saltato il riscaldamento. In questo congelatore, le mie gambe erano come travi di cemento. Poiché si trattava di una cronometro inserita in una corse a tappe le squadre erano composte da sei corridori invece di quattro. Avrei potuto chiamarmi fuori prima di raggiungere il primo chilometro. Il cronometro si fermava con il quarto corridore oltre la linea, avevamo ancora un uomo di riserva se mi fossi ritirato. Ho immaginato il sorriso subdolo che sarebbe comparso sulla faccia di Rogozyan mentre mi passava in macchina. Ti stai rammollendo, festaiolo? Stasera sarà al telefono con Elizarov per dirgli che sono saltato nei primi trenta secondi di gara. “Oh, e comunque ha passato la notte nessuno sa dove.” Trenta secondi, anche un cadavere durerebbe più di così. Ho abbassato i gomiti, spinto e cercato di non perdere ulteriore terreno. Tra pochi secondi il primo in testa dovrebbe chiedere il cambio e quindi chiudere il buco davanti a me. Sarei stato a ruota un giro o due, mi riscaldavo, entravo in gara e facevo il mio lavoro normalmente. Nessun problema. Rogozyan non si libererà di me oggi. A due chilometri dall'arrivo ho tirato fino all’attacco dell'ultima salita e mi sono fiondato a sinistra dei miei compagni di squadra. Sono fuori ragazzi, arrivederci. Stavo deragliando sulla corona piccola quando Rogozyan mi affiancò con l'auto. I nostri occhi si sono incontrati. “Che diavolo stai guardando?” avevo dipinto in faccia. “Ti avrò in pugno un giorno, bastardo che non sei altro”, lessi sul suo viso. Continua.... www.sportintranslation.com ![]() Dopo aver pranzato, ero in viaggio su un taxi con l'indirizzo di Anton che avevo scarabocchiato su un pezzo di carta quando me lo dettò al telefono. Mi disse di aver lasciato il dormitorio dell'Università e che viveva nell’alloggio del suo fratellastro che non era mai a casa. Il fratellastro lavora nell'industria cinematografica. Passa più tempo sui set che nell'appartamento di Mosca. Chiesi al tassista di fermarsi da qualche parte lungo la strada per comprare una bottiglia. “Cosa cerchi?” mi domandò. Gli raccontai che stavo andando dal mio migliore amico e che mi serviva qualcosa di speciale. “Armyanski konyak?” “Si’”, risposi “cognac armeno”. Non mi portò da nessuna parte per comprare il liquore. Aprì il portaoggetti dell’auto e tirò fuori una bottiglia decorata con lettere armene che ai miei occhi avevano senso quanto degli ideogrammi cinesi. “Oro liquido invecchiato cinque anni”, affermò, impugnando la bottiglia per il collo davanti alla mia faccia. “Dalle cantine del Cremlino.” I tassisti, in tutta la nazione, più intraprendenti vendevano vodka nei loro taxi. I negozi di liquori chiudevano alle sette in punto, non importa dove abitassi. Ma, in un Paese con una pena detentiva per la “speculazione sull'alcol”, si sarebbe potuto comprare l'alcol in qualsiasi momento, bastava sapere dove. I taxi erano una delle molte fonti di alcol fuori orario. Avresti potuto chiamarne uno alle due del mattino, aprire la porta e chiedere all'autista se aveva della vodka a bordo. Il cognac armeno di solito era troppo esclusivo e snob per questo tipo di commercio. D'altra parte questa era Mosca, dove molta gente aveva fatto fortuna. Ho pagato tre volte il prezzo in negozio della bottiglia e l'ho riposta sotto la mia giacca di pelle per tenerla al caldo. Sono sceso di fronte ad un edificio di venti piani fatto di blocchi di cemento. L'entrata aveva una porta di metallo verniciata decenni fa con quella che una volta era una tonalità di blu. Ho aperto la porta e sono entrato in un atrio buio. Un fascio di luce entrava attraverso una finestra sul muro di fronte all'entrata. Puzzava di urina, birra e profumo francese. La porta dell'ascensore era aperta come se qualcuno me lo avesse mandato. Le possibilità che un macchinario sovietico si rompesse a due piani dalla destinazione erano sempre alte. Ho guardato le scale. Per i ciclisti, camminare era già abbastanza ai limiti, salire le scale era verboten, assolutamente vietato. Entrai nell'ascensore e guardai la pulsantiera per trovare il bottone che mi serviva. Avevano tutti un buco da bruciatura di sigaretta al centro che rendeva illeggibile il numero del piano, solo il tasto del tredicesimo piano era stato risparmiato. Con il dito contai altri sei bottoni dal tredicesimo. Che burloni, non hanno sistemato l'ascensore solo per spedire i visitatori al piano sbagliato. Raggiunsi l'appartamento di Anton e suonai il campanello. Dieci secondi dopo aprì la porta. Sorriso, jeans e maglietta. “Entra, entra”, disse, facendo cenno con la mano. Entrai in un appartamento buio, immerso nella nebbia delle sigarette e nell'odore di erba. Mi portò nel luogo sacro di in un appartamento sovietico, la cucina, dove ci si incontra per festicciole e per bere tè. Una tenda copriva tre quarti della finestra lasciando al fumo una via di fuga ed uno spiraglio dove un raggio di luce si intrufolava. Tangerine dei Led Zeppelin era sparata all'interno dell'appartamento. Vidi un grande registratore a bobina piazzato dentro una libreria in soggiorno con un paio di casse a tre vie negli angoli. Un ragazzo e una ragazza erano seduti al tavolo da pranzo di legno in cucina. Il tipo aveva dei lunghi capelli biondi mossi. Cadevano sul suo viso sottile da entrambi i lati come un cappuccio. Portava una barba a coda di rondine che gli allungava la faccia come un chicco di riso. Con la luce soffusa, avvolto nel fumo di sigaretta, potrebbe passare per un santo di un'icona russo-ortodossa. Con il braccio destro alzato, si appoggiava su un gomito impugnando l'articolazione bloccata tra pollice e indice. I suoi occhi azzurri mi guardavano con un calore e benevolenza che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro. “Vuoi fare un tiro?” mi chiese. “Sì, certo”, dissi e afferrai una sedia dal tavolo. La ragazza, ho supposto che fosse la sua fidanzata, sorrideva come se le avessi riferito la migliore notizia possibile della giornata. “Privet! Sono Lena.” Lena era bella come un tramonto, una bellezza angelicata. Un viso classico slavo, rotondo, scolpito da linee dolci e contorniato da una cascata di capelli biondi che cadevano dietro la schiena. I suoi occhi azzurri, grandi come un lago, brillavano al buio. “So chi sei, Kolya”, disse. “Io e Liosha eravamo sul treno con Anton quando ha trovato quell'articolo di giornale su di te e sulle Olimpiadi che hai vinto.” “Campionato del mondo”, borbottai. Lei lo ignorò e io mi maledissi per aver pensato che le importasse o che conoscesse la differenza. Parlava con una voce di seta e ogni parola usciva dalle sue labbra come una nota musicale di cui godere. Aveva un bell'accento moscovita e un sorriso che le rimaneva sul viso anche quando parlava. In meno di due anni Liosha sarebbe andato in overdose di oppio. Lena l'avrebbe seguito dopo poco. Ma questo all'epoca era nel futuro, allora non importava. Fumavamo e parlavamo di filosofia, cristianesimo, esistenzialismo, Buddismo e rock and roll. Loro parlavano. I nomi di Jean Paul Sartre, Hermann Hesse, Jorge Luis Borges, Julio Cortazar e Max Frisch rimbalzavano nella cucina affumicata. Non riuscivo ad entrare nella conversazione e mi dava fastidio. Mi dava fastidio che non avessi letto un libro da anni, anche se leggevo continuamente a scuola. Mi dava fastidio il fatto di conoscere Robert Plant o Eddy Merckx, ma non Borges o Cortazar. Mi dava fastidio che non sapessi neanche chi fosse esattamente Gesù Cristo. Le superstizioni russo-ortodosse e l'ateismo avevano inquinato la mia mente stantia. Portavo una Bibbia nella mia borsa ovunque andassi, ma non era la fonte della conoscenza di Dio, era un feticcio portafortuna. Ne avevo letto dieci o venti pagine da quando Anton me l'aveva regalata un paio di anni fa. Liosha continuava a lanciare le sue frecciatine una dopo l'altra. Il cognac armeno che avevo portato si era dileguato prima di quanto pensassi. A mezzanotte, affrontammo il problema eterno dei sovietici: dove prendiamo altro alcol? Anton disse che conosceva un bar dove avremmo potuto comprare alcolici da un cameriere, ma sarebbe costato una mancia. Erano al verde da due giorni. Dalla mattina avevano mangiato un sacchetto di mele, nient'altro. Gli ultimi dieci rubli li avevano spesi in tre bottiglie di chardonnay, bevute prima che arrivassi. I soldi non sono un problema, portami al bar. Fu quando Lena disse la frase che mi ha accompagnato per anni. Disse: “Kolya può avere tutto, ma non ha nessuno che sia come lui.” Abbiamo riso. In quel momento, proprio allora, non c'era nessuno come me, aveva ragione. Io e Anton abbiamo preso un taxi e cinque minuti dopo siamo scesi di fronte a un edificio vecchio di un secolo con un bar nel seminterrato. Diedi al buttafuori dieci rubli per zittirlo ed entrammo. Il posto era saturo di parolacce proferite da dozzine di ubriachi. Tutti, compreso un barista grasso, fumavano. Si sarebbe potuto lanciare un'ascia in aria e avrebbe galleggiato nel fumo di sigaretta. Io e Anton discutemmo su chi avrebbe chiesto dell'alcol a un cameriere. “Io pago e tu parli come concordato” e lui mi fece notare la giacca di pelle che indossavo che mi faceva sembrare un gangster. “Ferma un cameriere e digli cosa vuoi”. “Parla come è nostra abitudine nel Caucaso settentrionale. Abbiamo una certa reputazione qui”. Corrotto da cima a fondo, il Caucaso settentrionale era famoso per il traffico di droga e le bande di criminali. Se vieni dal Caucaso del Nord la gente di solito pensa che tu sia un fuorilegge, non scendi a patti, non ragioni e probabilmente sei armato. Qualcuno da evitare, se non cercate problemi. “Tieni una mano nella giacca”. “Il coglione si piscerà addosso pensando che tu abbia una pistola in tasca.” Lo guardai per capire se fosse serio e ridemmo di nuovo, i bambini non crescono mai. Non ho dovuto inseguire un cameriere in giro per il bar, uno ci approcciò e ci chiese cosa volessimo. Tirai fuori un biglietto da 50 rubli per infilarglielo nella tasca della camicia e gli chiesi se aveva un paio di bottiglie di cognac decenti da qualche parte che prendevano polvere. Uscimmo con due bottiglie di brandy Napoléon e tornammo a casa di Anton a piedi per schiarirci le idee e parlare. Facemmo delle soste al parco giochi e su alcune panchine del tutto a caso sulla via del ritorno bevendo dalla bottiglia a turno e parlammo. Venni a conoscenza dei festival cinematografici e della proiezione di film proibiti a cui Anton aveva assistito attraverso i contatti nel settore di suo fratello. Mi parlò di Tarkovskij, Fellini e Buñuel come se avesse cenato con loro la sera precedente. Eccitato, mi chiedeva se avessi visto questo o quel film. La risposta era sempre la stessa: “no, mai sentito nominare”. “Oh, cavolo”, sospirava, dovresti vedere questo o quello. Gli chiesi se gli mancasse il ciclismo e mi disse che gli mancava il divertimento e il cazzeggio intorno ad esso, ma non l'allenamento e le corse. “Quelle cadute, amico, no grazie”. Tre anni prima, in discesa, si era schiantato di fronte a me contro una macchina parcheggiata. La sua bici mi era volata sopra la testa, lui atterrò sull'asfalto e sembrava che non si sarebbe mai rialzato. Eravamo vicino al suo appartamento quando mi disse: “Perché non ti trasferisci a Mosca?” “Perché?” “Amico, non hai idea di quanto sia figo questo posto.” “Certo“, dissi. “Una Parigi russa.” “Non conosco Parigi. Mosca è una bomba.” “Mi caccerebbero dalla Titan se lasciassi Kiev.” “Titan shmitan. Dimentica quella fottuta Titan. Ricordi cosa ci ha detto Trumheller?” “Cosa?” “Prepara il tuo piano B. Domani cadi e il ciclismo per te è finito. Qual è il tuo piano B?” “Amico, non sono sicuro di avere un piano A, tanto meno uno B.” “Esattamente. È perché sei stupido. Pensi che gareggerai per sempre e quei cretini della Titan si prenderanno cura di te per tutta la vita. Sbagliato. Ti guardano e vedono una macchina senza cervello con due gambe per spingere sui pedali. Sei una macchina senza cervello, fratello?” “Mi piacerebbe pensare di no, ma sei tu il veggente, lo sai bene.” “Non sono un veggente. Tra dieci anni ti guarderai indietro e dirai, merda, avrei dovuto mollare nel 1985, quando ero giovane.” “E perché dovrei dirlo?” “Perché cosa succede se, Dio non voglia, domani cadi e non riesci più a correre?” Cosa farai?” “Io non cado in quella maniera.” “Certo che no. Sei fatto di acciaio, vero?” “Qualcosa del genere.” “Senti, c’è una scuola in specializzazione post laurea in medicina dello sport a Tallinn. Corso di due anni. Trasferimento da Kiev a Mosca, finisci l'Università qui e poi vai a Tallinn. Puoi rimanere lì dopo la laurea se vuoi o puoi tornare a Mosca. Lascia che siano gli ucraini puzzolenti a vivere nella tua puzzolente Kiev. Che ne dici come piano B?” “Impressionante. Adoro la parte della medicina. Non riesco a distinguere la chimica dalla fisica e tu vuoi che studi medicina?” “Medicina sportiva. Lavorerai con atleti e altri idioti. Somministragli la vitamina C, digli che li renderà più forti e, voilà, sono più forti. Non è che curerai i malati di cancro. Gli atleti, gli shmos.” Era fatto così, creare piani per entrambi era da lui. Ha fatto piani che non ho mai seguito. Liosha era da solo in cucina quando tornammo con l'ultima bottiglia di brandy. Due siringhe riutilizzabili erano posate sul tavolo riempite a metà con del liquido marrone. Oppio cotto in casa. “Ho preparato questo per voi ragazzi”. “Lena è andata a letto, voglio andarci anche io. Divertitevi” Con cronometro a squadre di 50 chilometri da correre il mattino dopo dissi che per me era meglio tornare al Krylatskoye. I primi raggi di sole facevano capolino da dietro le nuvole quando respirai l'aria di strada satura delle fredde goccioline della pioggerella mattutina. Anton mi accompagnò sulla strada principale per prendere un taxi. Un letto caldo in questo momento sarebbe stato il paradiso. Camminavamo in silenzio e guardavamo l'asfalto umido e gli edifici in cemento e le strade vuote e i corvi che zampettavano sull'erba e si mandavano messaggi gracchianti. “Dai, torniamo indietro, dormi sul divano”, disse Anton. “Digli che sei malato. Cammini come se qualcuno ti avesse sparato.” Abbiamo aspettato mezz'ora per un taxi e ci siamo arresi. Un autobus per la metropolitana e un altro autobus funzionarono alla bisogna. Mi intrufolai nella mia stanza senza far scattare l'allarme. Il mio compagno di stanza era già sveglio, si stava lavando i denti in bagno, nudo. “Sembri morto”, disse, fissandomi dallo specchio sul muro di fronte a lui. “Rogozyan era qui cinque minuti fa. Gli ho detto che eri andato a fare una passeggiata.” “Cosa ha detto?” “Niente. Sembra che nel tuo letto non ci abbia dormito nessuno. L'ha visto.” “Esci dal bagno”, gli dissi. “Ho bisogno di una doccia.” “Puzzi come se avessi passato la notte in una fabbrica di tabacco”, disse e se ne andò. Nikolai Rogozyan, il secondo nella gerarchia della Titan, non dimostrò di sospettare in alcun modo che avessi commesso alcun peccato quando lo vidi fuori mentre riforniva l’ammiraglia di cibo e pezzi di ricambio. Con Yuri Elizarov a Kiev per lavoro, aveva il potere di cacciarmi dalla corsa e far finire la mia carriera se mi avesse beccato a fare qualcosa di sbagliato. Si comportava come se il suo unico obiettivo nella vita fosse quello di beccarci in un atto di violazione della disciplina della Titan. Non girare la chiave nella serratura la notte, in modo che Rogozyan controlli se sei dentro o fuori. Ci incatenerebbe alle bici se potesse, costruirebbe una staccionata verso il mondo esterno e ci farebbe pensare solo alle corse. Per vederti soffrire si accostava con la macchina, ti guardava negli occhi e sorrideva. Rogozyan era un Pinochet che faceva credere di essere tuo amico per poi strangolarti nel momento in cui commettevi uno sbaglio. “Hai dormito bene stanotte?” mi chiese mentre gli passavo la bici per metterla sul tetto dell'ammiraglia. “Seh.” “Sono passato stamattina e non ti ho visto in camera tua.” “Sono andato a fare una passeggiata.” Continua.... www.sportintranslation.com Notte prima della gara Nikolai e Anton Dopo aver pranzato ero in viaggio su un taxi con l'indirizzo di Anton che avevo scarabocchiato su un pezzo di carta quando me lo dettò al telefono. Mi disse di aver lasciato il dormitorio dell'Università e che viveva nell’alloggio del suo fratellastro che non era mai a casa. Il fratellastro lavora nell'industria cinematografica. Passa più tempo sui set che nell'appartamento di Mosca. Chiesi al tassista di fermarsi da qualche parte lungo la strada per comprare una bottiglia. “Cosa cerchi?” mi domandò. Gli raccontai che stavo andando dal mio migliore amico e che mi serviva qualcosa di speciale. “Armyanski konyak?” “Si’”, risposi “cognac armeno”. Non mi portò da nessuna parte per comprare il liquore. Aprì il portaoggetti dell’auto e tirò fuori una bottiglia decorata con lettere armene che ai miei occhi avevano senso quanto degli ideogrammi cinesi. “Oro liquido invecchiato cinque anni”, affermò, impugnando la bottiglia per il collo davanti alla mia faccia. “Dalle cantine del Cremlino.” I tassisti, in tutta la nazione, più intraprendenti vendevano vodka nei loro taxi. I negozi di liquori chiudevano alle sette in punto, non importa dove abitassi. Ma, in un Paese con una pena detentiva per la “speculazione sull'alcol”, si sarebbe potuto comprare l'alcol in qualsiasi momento, bastava sapere dove. I taxi erano una delle molte fonti di alcol fuori orario. Avresti potuto chiamarne uno alle due del mattino, aprire la porta e chiedere all'autista se aveva della vodka a bordo. Il cognac armeno di solito era troppo esclusivo e snob per questo tipo di commercio. D'altra parte questa era Mosca, dove molta gente aveva fatto fortuna. Ho pagato tre volte il prezzo in negozio della bottiglia e l'ho riposta sotto la mia giacca di pelle per tenerla al caldo. Sono sceso di fronte ad un edificio di venti piani fatto di blocchi di cemento. L'entrata aveva una porta di metallo verniciata decenni fa con quella che una volta era una tonalità di blu. Ho aperto la porta e sono entrato in un atrio buio. Un fascio di luce entrava attraverso una finestra sul muro di fronte all'entrata. Puzzava di urina, birra e profumo francese. La porta dell'ascensore era aperta come se qualcuno me lo avesse mandato. Le possibilità che un macchinario sovietico si rompesse a due piani dalla destinazione erano sempre alte. Ho guardato le scale. Per i ciclisti, camminare era già abbastanza ai limiti, salire le scale era verboten, assolutamente vietato. Entrai nell'ascensore e guardai la pulsantiera per trovare il bottone che mi serviva. Avevano tutti un buco da bruciatura di sigaretta al centro che rendeva illeggibile il numero del piano, solo il tasto del tredicesimo piano era stato risparmiato. Con il dito contai altri sei bottoni dal tredicesimo. Che burloni, non hanno sistemato l'ascensore solo per spedire i visitatori al piano sbagliato. Raggiunsi l'appartamento di Anton e suonai il campanello. Dieci secondi dopo aprì la porta. Sorriso, jeans e maglietta. “Entra, entra”, disse, facendo cenno con la mano. Entrai in un appartamento buio, immerso nella nebbia delle sigarette e nell'odore di erba. Mi portò nel luogo sacro di in un appartamento sovietico, la cucina, dove ci si incontra per festicciole e per bere tè. Una tenda copriva tre quarti della finestra lasciando al fumo una via di fuga ed uno spiraglio dove un raggio di luce si intrufolava. Tangerine dei Led Zeppelin era sparata all'interno dell'appartamento. Vidi un grande registratore a bobina piazzato dentro una libreria in soggiorno con un paio di casse a tre vie negli angoli. Un ragazzo e una ragazza erano seduti al tavolo da pranzo di legno in cucina. Il tipo aveva dei lunghi capelli biondi mossi. Cadevano sul suo viso sottile da entrambi i lati come un cappuccio. Portava una barba a coda di rondine che gli allungava la faccia come un chicco di riso. Con la luce soffusa, avvolto nel fumo di sigaretta, potrebbe passare per un santo di un'icona russo-ortodossa. Con il braccio destro alzato, si appoggiava su un gomito impugnando l'articolazione bloccata tra pollice e indice. I suoi occhi azzurri mi guardavano con un calore e benevolenza che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro. “Vuoi fare un tiro?” mi chiese. “Sì, certo”, dissi e afferrai una sedia dal tavolo. La ragazza, ho supposto che fosse la sua fidanzata, sorrideva come se le avessi riferito la migliore notizia possibile della giornata. “Privet! Sono Lena.” Lena era bella come un tramonto, una bellezza angelicata. Un viso classico slavo, rotondo, scolpito da linee dolci e contorniato da una cascata di capelli biondi che cadevano dietro la schiena. I suoi occhi azzurri, grandi come un lago, brillavano al buio. “So chi sei, Kolya”, disse. “Io e Liosha eravamo sul treno con Anton quando ha trovato quell'articolo di giornale su di te e sulle Olimpiadi che hai vinto.” “Campionato del mondo”, borbottai. Lei lo ignorò e io mi maledissi per aver pensato che le importasse o che conoscesse la differenza. Parlava con una voce di seta e ogni parola usciva dalle sue labbra come una nota musicale di cui godere. Aveva un bell'accento moscovita e un sorriso che le rimaneva sul viso anche quando parlava. In meno di due anni Liosha sarebbe andato in overdose di oppio. Lena l'avrebbe seguito dopo poco. Ma questo all'epoca era nel futuro, allora non importava. Fumavamo e parlavamo di filosofia, cristianesimo, esistenzialismo, Buddismo e rock and roll. Loro parlavano. I nomi di Jean Paul Sartre, Hermann Hesse, Jorge Luis Borges, Julio Cortazar e Max Frisch rimbalzavano nella cucina affumicata. Non riuscivo ad entrare nella conversazione e mi dava fastidio. Mi dava fastidio che non avessi letto un libro da anni, anche se leggevo continuamente a scuola. Mi dava fastidio il fatto di conoscere Robert Plant o Eddy Merckx, ma non Borges o Cortazar. Mi dava fastidio che non sapessi neanche chi fosse esattamente Gesù Cristo. Le superstizioni russo-ortodosse e l'ateismo avevano inquinato la mia mente stantia. Portavo una Bibbia nella mia borsa ovunque andassi, ma non era la fonte della conoscenza di Dio, era un feticcio portafortuna. Ne avevo letto dieci o venti pagine da quando Anton me l'aveva regalata un paio di anni fa. Liosha continuava a lanciare le sue frecciatine una dopo l'altra. Il cognac armeno che avevo portato si era dileguato prima di quanto pensassi. A mezzanotte, affrontammo il problema eterno dei sovietici: dove prendiamo altro alcol? Anton disse che conosceva un bar dove avremmo potuto comprare alcolici da un cameriere, ma sarebbe costato una mancia. Erano al verde da due giorni. Dalla mattina avevano mangiato un sacchetto di mele, nient'altro. Gli ultimi dieci rubli li avevano spesi in tre bottiglie di chardonnay, bevute prima che arrivassi. I soldi non sono un problema, portami al bar. Fu quando Lena disse la frase che mi ha accompagnato per anni. Disse: “Kolya può avere tutto, ma non ha nessuno che sia come lui.” Abbiamo riso. In quel momento, proprio allora, non c'era nessuno come me, aveva ragione. Io e Anton abbiamo preso un taxi e cinque minuti dopo siamo scesi di fronte a un edificio vecchio di un secolo con un bar nel seminterrato. Diedi al buttafuori dieci rubli per zittirlo ed entrammo. Il posto era saturo di parolacce proferite da dozzine di ubriachi. Tutti, compreso un barista grasso, fumavano. Si sarebbe potuto lanciare un'ascia in aria e avrebbe galleggiato nel fumo di sigaretta. Io e Anton discutemmo su chi avrebbe chiesto dell'alcol a un cameriere. “Io pago e tu parli come concordato” e lui mi fece notare la giacca di pelle che indossavo che mi faceva sembrare un gangster. “Ferma un cameriere e digli cosa vuoi”. “Parla come è nostra abitudine nel Caucaso settentrionale. Abbiamo una certa reputazione qui”. Corrotto da cima a fondo, il Caucaso settentrionale era famoso per il traffico di droga e le bande di criminali. Se vieni dal Caucaso del Nord la gente di solito pensa che tu sia un fuorilegge, non scendi a patti, non ragioni e probabilmente sei armato. Qualcuno da evitare, se non cercate problemi. “Tieni una mano nella giacca”. “Il coglione si piscerà addosso pensando che tu abbia una pistola in tasca.” Lo guardai per capire se fosse serio e ridemmo di nuovo, i bambini non crescono mai. Non ho dovuto inseguire un cameriere in giro per il bar, uno ci approcciò e ci chiese cosa volessimo. Tirai fuori un biglietto da 50 rubli per infilarglielo nella tasca della camicia e gli chiesi se aveva un paio di bottiglie di cognac decenti da qualche parte che prendevano polvere. Uscimmo con due bottiglie di brandy Napoléon e tornammo a casa di Anton a piedi per schiarirci le idee e parlare. Facemmo delle soste al parco giochi e su alcune panchine del tutto a caso sulla via del ritorno bevendo dalla bottiglia a turno e parlammo. Venni a conoscenza dei festival cinematografici e della proiezione di film proibiti a cui Anton aveva assistito attraverso i contatti nel settore di suo fratello. Mi parlò di Tarkovskij, Fellini e Buñuel come se avesse cenato con loro la sera precedente. Eccitato, mi chiedeva se avessi visto questo o quel film. La risposta era sempre la stessa: “no, mai sentito nominare”. “Oh, cavolo”, sospirava, dovresti vedere questo o quello. Gli chiesi se gli mancasse il ciclismo e mi disse che gli mancava il divertimento e il cazzeggio intorno ad esso, ma non l'allenamento e le corse. “Quelle cadute, amico, no grazie”. Tre anni prima, in discesa, si era schiantato di fronte a me contro una macchina parcheggiata. La sua bici mi era volata sopra la testa, lui atterrò sull'asfalto e sembrava che non si sarebbe mai rialzato. Eravamo vicino al suo appartamento quando mi disse: “Perché non ti trasferisci a Mosca?” “Perché?” “Amico, non hai idea di quanto sia figo questo posto.” “Certo“, dissi. “Una Parigi russa.” “Non conosco Parigi. Mosca è una bomba.” “Mi caccerebbero dalla Titan se lasciassi Kiev.” “Titan shmitan. Dimentica quella fottuta Titan. Ricordi cosa ci ha detto Trumheller?” “Cosa?” “Prepara il tuo piano B. Domani cadi e il ciclismo per te è finito. Qual è il tuo piano B?” “Amico, non sono sicuro di avere un piano A, tanto meno uno B.” “Esattamente. È perché sei stupido. Pensi che gareggerai per sempre e quei cretini della Titan si prenderanno cura di te per tutta la vita. Sbagliato. Ti guardano e vedono una macchina senza cervello con due gambe per spingere sui pedali. Sei una macchina senza cervello, fratello?” “Mi piacerebbe pensare di no, ma sei tu il veggente, lo sai bene.” “Non sono un veggente. Tra dieci anni ti guarderai indietro e dirai, merda, avrei dovuto mollare nel 1985, quando ero giovane.” “E perché dovrei dirlo?” “Perché cosa succede se, Dio non voglia, domani cadi e non riesci più a correre?” Cosa farai?” “Io non cado in quella maniera.” “Certo che no. Sei fatto di acciaio, vero?” “Qualcosa del genere.” “Senti, c’è una scuola in specializzazione post laurea in medicina dello sport a Tallinn. Corso di due anni. Trasferimento da Kiev a Mosca, finisci l'Università qui e poi vai a Tallinn. Puoi rimanere lì dopo la laurea se vuoi o puoi tornare a Mosca. Lascia che siano gli ucraini puzzolenti a vivere nella tua puzzolente Kiev. Che ne dici come piano B?” “Impressionante. Adoro la parte della medicina. Non riesco a distinguere la chimica dalla fisica e tu vuoi che studi medicina?” “Medicina sportiva. Lavorerai con atleti e altri idioti. Somministragli la vitamina C, digli che li renderà più forti e, voilà, sono più forti. Non è che curerai i malati di cancro. Gli atleti, gli shmos.” Era fatto così, creare piani per entrambi era da lui. Ha fatto piani che non ho mai seguito. Liosha era da solo in cucina quando tornammo con l'ultima bottiglia di brandy. Due siringhe riutilizzabili erano posate sul tavolo riempite a metà con del liquido marrone. Oppio cotto in casa. “Ho preparato questo per voi ragazzi”. “Lena è andata a letto, voglio andarci anche io. Divertitevi” Con cronometro a squadre di 50 chilometri da correre il mattino dopo dissi che per me era meglio tornare al Krylatskoye. I primi raggi di sole facevano capolino da dietro le nuvole quando respirai l'aria di strada satura delle fredde goccioline della pioggerella mattutina. Anton mi accompagnò sulla strada principale per prendere un taxi. Un letto caldo in questo momento sarebbe stato il paradiso. Camminavamo in silenzio e guardavamo l'asfalto umido e gli edifici in cemento e le strade vuote e i corvi che zampettavano sull'erba e si mandavano messaggi gracchianti. “Dai, torniamo indietro, dormi sul divano”, disse Anton. “Digli che sei malato. Cammini come se qualcuno ti avesse sparato.” Abbiamo aspettato mezz'ora per un taxi e ci siamo arresi. Un autobus per la metropolitana e un altro autobus funzionarono alla bisogna. Mi intrufolai nella mia stanza senza far scattare l'allarme. Il mio compagno di stanza era già sveglio, si stava lavando i denti in bagno, nudo. “Sembri morto”, disse, fissandomi dallo specchio sul muro di fronte a lui. “Rogozyan era qui cinque minuti fa. Gli ho detto che eri andato a fare una passeggiata.” “Cosa ha detto?” “Niente. Sembra che nel tuo letto non ci abbia dormito nessuno. L'ha visto.” “Esci dal bagno”, gli dissi. “Ho bisogno di una doccia.” “Puzzi come se avessi passato la notte in una fabbrica di tabacco”, disse e se ne andò. Nikolai Rogozyan, il secondo nella gerarchia della Titan, non dimostrò di sospettare in alcun modo che avessi commesso alcun peccato quando lo vidi fuori mentre riforniva l’ammiraglia di cibo e pezzi di ricambio. Con Yuri Elizarov a Kiev per lavoro, aveva il potere di cacciarmi dalla corsa e far finire la mia carriera se mi avesse beccato a fare qualcosa di sbagliato. Si comportava come se il suo unico obiettivo nella vita fosse quello di beccarci in un atto di violazione della disciplina della Titan. Non girare la chiave nella serratura la notte, in modo che Rogozyan controlli se sei dentro o fuori. Ci incatenerebbe alle bici se potesse, costruirebbe una staccionata verso il mondo esterno e ci farebbe pensare solo alle corse. Per vederti soffrire si accostava con la macchina, ti guardava negli occhi e sorrideva. Rogozyan era un Pinochet che faceva credere di essere tuo amico per poi strangolarti nel momento in cui commettevi uno sbaglio. “Hai dormito bene stanotte?” mi chiese mentre gli passavo la bici per metterla sul tetto dell'ammiraglia. “Seh.” “Sono passato stamattina e non ti ho visto in camera tua.” “Sono andato a fare una passeggiata.” Continua.... www.sportintranslation.com . ![]() Nel 1985 cadde il quarantesimo anniversario della vittoria nella seconda guerra mondiale sulla Germania nazista. Per la prima e l'unica volta della sua storia la Corsa della Pace iniziava a Mosca. Simbolicamente, e di proposito, la gara sarebbe finita a Berlino. Era una sceneggiatura scritta per la squadra sovietica che avrebbe distrutto i tedeschi. Maggio 1945, la versione ciclistica. Sulla carta eravamo amici dei tedeschi. Alleati del Patto di Varsavia, compagni comunisti e tutto quello che ne consegue. In pratica, nessun nemico era più odiato da noi dei fascisti. L'odio per i tedeschi era, ed è ancora, profondo nella psiche russa. Quello che ci hanno fatto in guerra, nessuno lo dimenticherà mai. Cresci imparando che vi sono dei mostri ad ovest del nostro confine. Bestie che ci hanno attaccato senza preavviso nel 1941 e ucciso trenta milioni dei nostri uomini e donne. Sorridiamo e ci diamo pacche sulle spalle a vicenda ora, senza rancore, a parte ordinarci di inseguirli. Ci ordinano di dare loro un'altra lezione e di ricordargli di non venire qui se non in pace. Chiamala Corsa della Pace. Lascia che ci credano. Kapitonov, per quella occasione, dovette costruire una squadra di ferro. Inserirono anche una crono-squadre a Mosca per assicurare la classifica a squadre all'URSS fin dalla prima tappa. All'inizio della stagione mi dissero di tenermi fuori dalla lotta tra cani per la Corsa della Pace. Troppo giovane ed inesperto, non avrei avuto alcuna possibilità di essere selezionato. Mi concentrai, invece, ancora una volta, sulla crono-squadre. Chi era in lizza per la Corsa della Pace sarebbe andato a una serie di gare in Germania e Olanda. Ho visto il mio nome sulla lista di chi sarebbe andato in Germania. Tre giorni prima della partenza mi dissero che non sarei rimasto a casa. Andarono in Germania e quindi in Inghilterra per la Milk Race senza di me. Le prime due le ho mancate, ho pensato: va bene, non sono al mio massimo. Il protocollo standard era di far maturare i giovani attraverso un programma di corse a tappe. Nessuno mi spiegò perché ero stato escluso, quindi mi dissero di non preoccuparmi per i mondiali. Calmati, è solo la tua prima stagione ai massimi livelli, quello che mi dissero. A metà estate arrivò un invito dalla Coors Classic, America. I pezzi grossi erano impegnati a prepararsi per i mondiali in Italia e rimasero in Lituania ad allenarsi. “Fai bagagli e preparati a gareggiare contro Bernard Hinault e Greg Lemond”, mi dissero, “che andrai negli Stati Uniti”. La sera prima di partire, il presidente della Titan mi disse che mi avevano scambiato con un altro all'ultimo minuto. Qualcosa non andava. Chiamai Zyama, il nostro collegamento militare tra la Titan e l'esercito, per scoprire cosa stesse succedendo. “Il tuo passaporto è sospeso”, mi disse. “Non lo hai saputo da me, capito? Ma ho fatto delle ricerche, ho chiesto a dei contatti al dipartimento dei servizi segreti e ho saputo, beh… sei fottuto. Hanno qualcosa su di te, non so cosa, ma sei fottuto.” Non andare alla Coors Classic mi ha fatto perdere la voglia di correre. Tutta questa storia del ciclismo, falla finita e vattene sbattendo la porta. È iniziato tutto andando in giro per Kiev con Bodgan e ora questo. Tutto bloccato. In gabbia. Se vuoi uscirne, continua a bussare alle pareti. Potresti trovare un buco dove passare. In aprile, dopo la corsa a tappe di Sochi, volammo a Mosca per le prove della Corsa della Pace. Le autorità avevano chiuso parti della città come se si trattasse della vera Corsa della Pace e noi ne avremmo corso in anteprima tutte le tappe. Viktor Kapitonov aveva già scelto la squadra a Sochi, ma si era riservato di apportare modifiche. Uno o due candidati che speravano ancora di farcela ebbero un'ultima possibilità di dimostrare che meritavano un posto nella squadra per la Corsa della Pace. Ad eccezione dei corridori selezionati, tutti i membri della squadra nazionale gareggiavano per le loro squadre societarie. Per me era la Titan. Uno dei nostri ragazzi, Sergei Gavrilko, una eterna promessa per la Corsa della Pace, aveva la possibilità di essere selezionato in extremis. Uno dei migliori corridori a tappe del Paese, aveva fallito anno dopo anno di far parte della squadra per la Corsa della Pace. Gli piaceva correre la sua corsa e non si preoccupava degli ordini di squadra. Il suo atteggiamento da attaccante, e il suo carattere che non sia arrendeva mai, gli fecero guadagnare rispetto, ma il solo rispetto non poteva comprargli un biglietto per la Corsa della Pace. Ne avrebbe avuto per tutti, se solo qualcuno si fosse lamentato delle sue intemperanze in gara. La sua tattica non permetteva a Kapitonov di fidarsi di lui, uno che ballava da solo, per vincere la Corsa della Pace: un buon corridore con probabilità di farcela prossime allo zero. Non che fosse egoista o avido. A volte, la voglia di fare la sua gara era più forte del piano di gara di squadra. Nessuno sapeva quando avrebbe avuto uno di questi giorni. A Mosca il mio lavoro sarebbe stato tenere d'occhio le fughe e tamponare tutte quelle dove non c'era dentro Sergei Gavrilko. Chiamai Anton dall'Hotel Krylatskoye non appena feci il check-in. Dopo aver conseguito la laurea in scienze due mesi prima era in città. È ora di beccarci dopo il nostro viaggio a Sochi di otto mesi fa. Il telefono squillò in una marea di drin prima che il “Pronto” familiare borbottasse all'altro capo della linea. Raffigurandomi Leonid Brezhnev, il fu dittatore sovietico sotto cui siamo cresciuti, gli dissi: “È una flotta di torpediniere?” “Forse”, rispose stando al gioco. “Non ne ho idea”. “Voglio parlare con il Maresciallo Ustinov”, proseguii. Ustinov, ministro della difesa e amico di Brezhnev erano morti. Abbiamo riso. Ridevamo sempre dei nostri stupidi scherzi. “Non sei a Mosca, vero?” disse. Gli dissi che ero in città e avremmo potuto vederci questo pomeriggio, dopo aver completato alcuni giri di perlustrazione del circuito di Krylatskoye. Cinque anni prima, allora eravamo due ragazzini di quattordici e sedici anni, avevano guardato la gara su strada delle Olimpiadi di Mosca a casa di mia sorella. Era l'unica persona che conoscevamo che possedesse un televisore a colori. Ci avrebbe lasciato guardare la diretta, se avessimo promesso di non svegliare il figlio appena nato. Quello che è successo quel giorno sulla strada fa ora parte della leggenda del ciclismo su strada dell'era sovietica: Sergei Soukhoruchenkov distrusse il gruppo e conseguì una vittoria epica. Ho sentito commenti su quanto fosse senza senso il circuito. Costruito da un’ingegnera femminista, il suo scopo era quello di affliggere gli uomini il più possibile. Nel corso degli anni ha assunto uno status mitico perché nessun ciclista di alto livello vi ha più corso dalla fine dei Giochi. Tutti avevano sentito che il circuito fosse senza senso, ma quanto male facesse, nessuno lo sapeva. Ho messo le ruote da gara e sono andato a farci un giro. Avevano tenuto il circuito chiuso al traffico per anni. Un sottile strato di polvere e sabbia copriva la sua superficie. Sono scivolato in una curva, ma sono rimasto in piedi. Mi sono fermato e ho sgonfiato un po' le gomme e ho continuato la mia ricognizione. Hanno costruito questa strada con in mente una rissa. Tu contro tutti gli altri. Tu contro la strada. Se avesse piovuto, come poi effettivamente accade, sarebbe diventata una pista di pattinaggio. Sarebbe stato un buon risultato anche solo arrivare al traguardo tutto intero. ![]() Mentre mi crogiolavo al sole e percorrevo facili chilometri in Crimea, ricevetti la notizia che ero stato convocato per la prima squadra della nazionale. Tre settimane più tardi avrei pedalato a fianco dei giganti del ciclismo sovietico. Questo era il gradino più alto della scala, non si poteva raggiungere nessuna vetta più alta, ero in cima. Solo un anno fa ero seduto alla riunione della Titan e ascoltavo Yuri Elizarov parlare del suo piano per la medaglia d'oro. La porta verso la nazionale élite e le Olimpiadi del 1988. Ed eccomi qui, all'Hotel Primorskaya, a parlare con una receptionist e spiegarle il motivo del mio soggiorno. “Oh,” disse sorridendo, “tu devi essere uno dei ragazzi di Viktor Arsentyevich. Vediamo in che stanza sei.” Mi consegnò le chiavi della mia stanza e aggiunse: “Meglio che tu corra al ristorante, la colazione è già iniziata. Viktor Arsentyevich è una persona molto puntuale.” Viktor Kapitonov, o Viktor Arsentyevich per coloro il cui solo nome di battesimo non dica nulla, è stato uno dei grandi dello sport sovietico e una leggenda del ciclismo. Il dramma e il trionfo della corsa olimpica del 1960 diede inizio al dominio dell'Unione Sovietica tra i dilettanti. La gente parlava dell'era pre e post-Kapitonov, di quello che abbiamo fatto e di come abbiamo fatto le cose prima e dopo Roma. Ha scritto il primo libro che abbia mai letto sul ciclismo in cui raccontava la sua vittoria olimpica. Pedalando nelle colline nel Caucaso settentrionale, dove sono cresciuto, mi piaceva immaginarmi mentre correvo quella gara. Scivolare nei panni di Kapitonov e sognare ad occhi aperti di affrontare Livio Trapè tra le mura dei boati dei tifosi [in italiano anche nella versione originale, NdT]. Avrei trovato il modo di sconfiggere il nemico perché conoscevo ogni dettaglio di quella gara. Qual era il piano, come tutto fosse andato storto. Come gli Italiani avessero annientato tutti. Come Kapitonov portò Trapè sulla linea del traguardo, fece un errore e sprintò per la volata con un giro di anticipo. Come Trapè attaccò a sua volta quando vide quanto idiota fosse Kapitonov. L'inseguimento, l'aggancio, il secondo sprint, quello vero, quello che contava, e poi la vittoria. Il monumento e l'orgoglio del mio sport, del mio Paese e del nostro sistema. A ripensarla decine di volte, quella gara ha smesso di essere reale e si è trasformata in un film visto al cinema. L'eroe, sapevo che era reale, era da qualche parte, ma la possibilità di incontrarlo, per non parlare di lavorare con lui, era nulla. Si ritirò nel 1965 e prese il controllo della nazionale facendo diventare l'Unione Sovietica la nazione più importante del ciclismo. Il suo palmares: tre medaglie d'oro olimpiche nella cronometro a squadre dal 1972 al 1980. Tra campionati del mondo e giochi olimpici, la cento chilometri a squadre divenne il marchio di fabbrica dei sovietici. A partire dalla metà degli anni settanta e fino agli anni ottanta, gli uomini in maglia rossa CCCP dominarono anche la Corsa della Pace. Guardare in televisione quattro di loro che andavano in fuga nel 1984 per suggellare la seconda vittoria di Sergey Soukhorouchenkov fu un'emozione indimenticabile. Quando entrai nel ristorante del Primorskaya quella mattina, varcai la soglia di una stanza affollata dai più grandi corridori dell'epoca. Due campioni olimpici e cinque del mondo, ragazzi che avevo visto in TV o di cui avevo letto sui giornali. La porta di legno si aprì su di una sala con il soffitto alto dalle pareti bianche, illuminata da finestre alte come un uomo. La tovaglia bianca ricamata che arrivava fino al pavimento pendeva dai tavoli. I ciclisti sedevano a due o tre a tavola sul lato opposto della stanza chiacchierando mentre erano intenti a mangiare dal loro piatto. Non c'era nessun altro nel ristorante. Quando la squadra nazionale era a tavola gli altri clienti non potevano mangiare al Primorskaya. Mi bloccai e passai in rassegna i tavoli in cerca di uno vuoto a cui sedermi. Alcuni ragazzi mi guardarono mentre continuavano a parlare e a masticare. Due o tre mi guardavano con lo sguardo che diceva “chi-è-questo-buffone”. Gli sguardi bruciarono la mia pelle e i miei occhi saltarono da un volto all'altro, alla fine della stanza, al pavimento e alle finestre. Qualcuno mi stava guardando. Il volto mi era familiare dalle trasmissioni sulla Corsa della Pace: Yuri Kashirin, un campione olimpico e mondiale. Annuì con il mento rivolto verso il tavolo a cui era seduto con un tipo che non avevo mai visto prima. Mi sono diretto verso il suo tavolo e mi sono impossessato immediatamente di una sedia. “Yura”, si presentò e mi porse la mano. “Kolya”, mi presentai a mia volta, gli strinsi la mano e guardai l'altro tizio per sapere come si chiamasse “Quanti anni hai, figliolo? “disse. “Diciotto.” Si rivolse a Kashirin e disse: “È legale?” “Legale cosa?” Kashirin chiese. “Portare bambini diciottenni in nazionale.” “Sono sicuro che compirà 19 anni l'anno prossimo, giusto?” Disse Kashirin osservandomi. “È questo il piano”, dissi. “Di che squadra sei?” disse l'altro. “Titan.” “Vi cucinano a decine in Ucraina, vero?” mi chiese. “Non sono ucraino. Vengo dal Caucaso settentrionale”, fu la mia risposta. “Caucaso settentrionale? Dove esattamente nel Caucaso settentrionale?” “Nalchik.” “Naaalchik? Conosci Peter Trumheller?” “É il mio direttore sportivo. Beh, lo era. È stato il mio primo direttore sportivo.” “Come sei finito in Ucraina?” “La Titan mi ha offerto un passaggio.” “Pensavo che tutti i ragazzini russi andassero alla Kuybyshev al giorno d'oggi.” “Non io.” “Perché?” “Trumheller mi ha detto di andare alla Titan, ci sono andato.” Si versò una tazza di caffè nero da una caffettiera in acciaio inossidabile e si distese sulla sedia a fissare fuori dalla finestra il Mar Nero. Kashirin richiamò l'attenzione di un cameriere. “Questo giovanotto, “disse e mi indicò,” ha bisogno della colazione. Era in ritardo.” Senza aver bisogno di sapere altro, il cameriere si girò e si affrettò a portarmi la colazione. “Io e Volodya Malakhov veniamo da Rostov”, disse Kashirin. “Quasi vicini”, aggiunge. A più di trecento chilometri da Nalchik, Rostov era geograficamente nel Caucaso settentrionale, la più grande città della regione. Vicini sì, sono stato a Rostov e da quello che ho visto, non vorrei passarvi più di un'ora, troppo sporca e piena di fabbriche. Allora, questo è Vladimir Malakhov, il velocista di punta e un campione nazionale su strada. “Abbiamo avuto alcuni ucraini negli ultimi due anni”, ha detto Kashirin. “Volodya non è molto entusiasta dell'idea.” Volse lo sguardo verso Malakhov, sorrise e disse: “Perché non ti piacciono gli ucraini, nazista?” “Io nazista? Non sono io a ingoiare anabolizzanti tutto il giorno.” “Ingoiare cosa?” Gli chiesi. Sapevo cosa fossero gli anabolizzanti. Ormai il segreto era di dominio pubblico. Chiunque volesse fare due più due sapeva di cosa fossero piene le nuotatrici della Germania Est. Assomigliavano più a delle foche che a degli esseri umani, avevano perso le ultime tracce di femminilità anche nei loro volti. Erano una truffa e tutti lo sapevano. Ma il ciclismo? La voce che circolava: gli anabolizzanti rimpiccioliscono i piselli e rendono gli uomini impotenti. Era tutto quello che sapevo sugli anabolizzanti e ora sembrava che ci fosse qualcosa più di quanto pensassi. “Che vuol dire ‘ingoiare anabolizzanti tutto il giorno’?” Chiesi dopo che aveva ignorato la mia domanda. “Ho sentito vi ingozzate di anabolizzanti a palate in Ucraina”, disse. Il “voi“ che usò era in una forma generica che non si riferiva a nessuno in particolare. Abbandonai la diplomazia e chiesi, usando il “noi” che includeva anche me personalmente: “E perché dovremmo prendere gli anabolizzanti?” “Per strizzare un qualcosa in più dalle gambe?” “Non si ingrassa in questo modo?”. “Se ti comporti bene, un giorno ti dirò cosa può fare un chilo o due di massa magra alla tua prestazione. Anche in salita. Nel frattempo, fai colazione, stai zitto e assicurati di essere al tuo meglio ogni giorno, se vuoi sopravvivere qui.” Colsi il velato suggerimento e mi tenni fuori dai piedi di Malakhov che d’ora in poi avrebbe sempre avuto una lezione di vita per me o un'intuizione brillante da offrirmi. “Perché in un ritiro invernale pedalavo con un pacco con il 24 finale invece che con il 27?”. Beh, mi ero risposto tra me e me, perché non me ne frega niente. Era la prima ruota che avevo preso dal mucchio, non siamo in gara. “Hai messo troppo zucchero nel caffè”, mi disse una mattina a colazione. “Ti rovina i denti e ti fa il culo pesante come un camion.” Mi stupiva quanto immacolata fosse la sua divisa, anche dopo diversi giorni di pioggia in bici. Non avevamo lavatrici negli hotel in cui soggiornavamo e dovevamo lavare le nostre divise a mano nella vasca da bagno o nel lavandino. Quando pioveva spesso mi dava fastidio fare il bucato ogni giorno. Da maestro di scorciatoie, asciugavo superficialmente la divisa al sole, scuotevo via la sabbia e ci pedalavo di nuovo. Malakhov invece si presentava con una divisa pulita, immacolato ogni volta, non importa quanto fosse stato brutto il tempo il giorno prima: la classe. Avrei gareggiato con il piumino, se Malakhov ne avesse indossato uno. Un berretto sopra il casco o sotto? Guarda Malakhov. Manicotti su o giù? Guarda Malakhov. Mi diceva di indossare sempre i guanti in corsa e quando, un giorno, dimenticai di metterli, mi fece tornare al pullman per prenderli. Arrivai in ritardo per la partenza e inseguii il gruppo per i primi chilometri di gara. Quando provavo a dire la mia mi zittiva, ma un giorno ho imparato quanto fosse una brava persona. Stavo prendendo del cibo dalle tasche della maglia con entrambe le mani quando qualcuno davanti a me ha fatto cadere una borraccia. È rotolata sotto la mia ruota anteriore, ho perso il controllo e sono rovinato a terra. Malakhov era sulla mia ruota, urtò la mia bici ed atterrò vicino a me. Pensavo che mi avrebbe ucciso proprio lì, sulla strada. Invece, la prima cosa che gli è uscita dalla bocca appena fermi fu: “Stai bene, ragazzo?” Era il tipo di un ciclista che sostituiva il 53 con il 52 perché sapeva che la volata era in falsopiano. Non attaccava mai, eppure, una fuga vincente non sarebbe quasi mai andata via senza di lui. Non parlava quasi mai di corse, ma ogni volta che lo faceva, ascoltavo. Non importa quanto credessi di essere pronto per la parte alta della classifica, non lo ero. Sedersi con Malakhov e Kashirin per il pasto tre volte al giorno ha cambiato le cose. Le gare juniores a livello nazionale erano dure e aggressive. Iniziavano con i fuochi d'artificio, continuavano senza criterio per un po' per scremare il gruppo di testa, quindi si calmavano mentre ci si interrogava su quale sarebbe stata la prossima mossa. Si poteva vincere una gara facendo una mossa furtiva mentre tutti gli altri si guardavano. Gli élite iniziavano tranquilli e si davano il tempo di scaldarsi. In una giornata fredda, si spargeva la voce di andare piano per i primi dieci chilometri. Poi il ritmo si alzava. Se non portavi il culo in testa in tempo la cacca avrebbe colpito il ventilatore, e ti avrebbe coperto dalla testa ai piedi prima di sapere cosa stesse succedendo. Quando il martello dava la mazzata lo faceva con il botto. Ti ritrovi in un ventaglio e se non sei tra i primi venti avrai difficoltà anche a rimanerci. Il gruppo impazzisce, tutti lottano per stare a ruota, torturati da una velocità che si può a malapena tenere così a lungo. Il gruppo di testa non cede neanche dopo che i ventagli lo hanno eroso per chilometri. Nessuno si arrende, non importa quanto la velocità ti faccia male. I ragazzi di testa rimangono uniti fino a quando la pressione finisce. Mentre il ritmo cala, orde calano verso la testa prima della prossima sferzata. Non c'è tempo per rilassarsi, devi stare collegato e guardare dove ti ritrovi ad ogni colpo di pedale. La maglia rossa della squadra nazionale era un altro fardello che non avrei mai potuto ignorare. Il credo di Kapitonov era: se indossi la maglia della CCCP, la onori con la tua prestazione ogni volta, senza eccezioni. L'aspettativa era che i suoi scalatori andassero meglio in salita degli altri scalatori, che gli sprinter dominassero gli sprint ogni volta, e che i diesel vincessero le cronometro. Non accettava nessuna scusa per la tua prestazione di merda. Kapitonov ti avrebbe concesso un po' di tregua per una o due volte, ma se avessi continuato a fare casini saresti stato fuori dalla porta senza nessun preavviso. Continua.... www.sportintranslation.com ![]() Mentre il mondo si appassiona alla serie TV sul disastro nucleare di Chernobyl, Nikolai lo ha vissuto in prima persona, ovviamente dalla sua bici. Ecco un estratto, continuate a seguirci per la storia completa! "Atterrammo a Kiev e sulla strada dall'aeroporto Tolik ci disse che la centrale nucleare di Chernobyl era esplosa la sera precedente. Male, questo sarà un problema, dicemmo. “Sapete dov'è Chernobyl?”. Qualcuno provò ad indovinare e disse che era in Ucraina, da qualche parte. “A cento chilometri da Kiev”, disse. Si zittì e guidò come se non avesse niente altro da aggiungere. Ci accodiamo, non dicemmo nulla, e a chi importa, comunque. “Incendio o qualcosa del genere”, disse singhiozzando nel suo sedile che aveva modificato per molleggiare sui sobbalzi della strada. “È quello che ho sentito. Se ne sono andati tutti da Pripyat. Evacuata. È tremendo”. Mandarono i pompieri a spegnere un incendio senza dir loro che il reattore nucleare si era crepato, sputa tossine radioattive uccidendo tutta quello che incontra. Tienilo segreto. A mille chilometri da Chernobyl un allarme nucleare suonò in Svezia. È così che il mondo ne venne a conoscenza. Ma noi non ci preoccupiamo. Il vino rosso rimuove le radiazioni dal corpo. Questo non lo sanno in Svezia o in Germania. Nessuno sa niente. Mentono in televisione. Chiamano un giornale Verità [Pravda in russo, NdT] e lo riempiono di bugie. Suonano Tchaikovsky alla radio come se metà del Paese fosse Romeo e l'altra metà Giulietta. Ti sintonizzi su la gracchiante Voice of America per capire cosa sta succedendo. Ascolti. Qualcuno ha liberato un genio della morte da una bottiglia e ora se ne va in giro spargendo distruzione. Alcune persone sono morte subito, altre moriranno in seguito" #Chernobyl #NikolaiRazouvaev #cycling #translationservices ![]() Quando tornai a Kiev dopo la pausa la città era nel bel mezzo dell'autunno. Mattine gelide, nebbia ovunque, castagni che diventano giallo ruggine. La Titan era andata in Crimea per prepararsi ad una gara a tappe, la Sotsindustriya. La stagione era finita per me e non volevo correre, ma non potevo restare a Kiev e non fare niente. Elizarov mi disse di volare a Simferopoli, unirmi alla squadra e trascorrere le settimane successive pedalando in un clima caldo. Andai nei nostri locali di servizio per preparare la bici così da essere trasportata in mattinata all'aeroporto. Feci un mediocre lavoro di impacchettamento della bici e passai un'ora a parlare a vanvera con il meccanico. Decisi di prendere un taxi invece di aspettare un passaggio per l'hotel e, da solo, mi incamminai per strada. Gli edifici gettavano lunghe ombre sull'acciottolata Krasnoarmeyskaya. L'aria fresca e umida era piacevole da respirare. Volevo un gelato Kashtan dal negozio in Via Kreshchatik prima di prendere un taxi. Dieci minuti a piedi. Vidi una Volga nera parcheggiata davanti a me, con una porta posteriore aperta. Un uomo con uno spolverino beige sbottonato stazionava in piedi vicino all'auto, guardandomi. Continuai a camminare, chiedendomi se mi stesse fissando perché non aveva nient'altro da fare o vi era qualcos'altro sotto. Quando mi avvicinai, si allontanò dalla macchina e tirò fuori un korochka rosso dalla tasca dello spolverino. Me lo piazzò in faccia e mi chiese: “Nikolai?” Guardai il documento: c'era la foto in bianco e nero del tizio a sinistra e l'intestazione del KGB a destra con grado, nome e autorizzazione al porto d'armi sotto. Non riuscivo a leggere il cognome, qualcosa di lungo e contorto. Prima che chiudesse il korochka, memorizzai il suo nome: Bogdan. Merda, che succede, che cosa ho combinato? Feci un rapido inventario mentale delle mie tasche: niente dollari, niente di illegale, quindi cosa vogliono? Bogdan fece un cenno con la testa verso il sedile posteriore della Volga e disse: “Sali, dobbiamo parlare.” Salii in macchina, lui chiuse la porta, camminò intorno all’auto, salì sul sedile accanto a me e disse al guidatore: “Poekhali.” Andiamo. Andammo verso la Kreshchatyk, per la discesa della Vladimirsky, oltre la Piazza Pochtovaya ed arrivammo alle strette strade di Podol. All’esterno i pedoni in giacche invernali e cappotti sfrecciavano sui marciapiedi. Non ti insegnano a scuola cosa fare quando il KGB manda un agente con un nome stra-ucraino come Bogdan, in una Volga nera, il motivo solo il cielo lo sa, a prenderti. Non chiedere dove stai andando, stai calmo. Pazienza e rispetto, dimostraglieli. “Sei un membro della Komsomol, Nikolai?” chiese Bogdan. È di questo che si tratta? Io che mi insinuo nel sistema senza mai essermi iscritto alla Komsomol? Non avete spie della CIA da catturare? Diventare membro della Komsomol, o lega Comunista leninista, era una formalità. La maggior parte dei quattordicenni si lasciavano trasportare dalla corrente senza pensarci troppo. Nessuno ti costringeva ad iscriverti, ma stanne fuori e ti saresti preparato per problemi in futuro che non avresti mai pensato di trovarti ad affrontare. Quando fu il mio momento non me ne preoccupai. Noiosi corsi per diventare un membro e, una volta dentro, riunioni dopo la scuola che erano solo una perdita di tempo. Il mio allenamento iniziava un'ora dopo l'ultima lezione a scuola, la Komsomol non si incastrava. La prima volta che la Komsomol mi ha dato problemi è stato quando ho fatto domanda all’Università dello Sport di Kiev. Il modulo di domanda chiedeva se fossi un membro. Ero un membro della Titan a quel punto, sapevo che l'Università mi voleva più di quanto io volessi l'Università e ho spuntato la casella sì. Nessuno fa dei controlli. Poi è arrivato il modulo di richiesta del passaporto con decine di domande banali. Uno riguardava di nuovo la Komsomol. Questa volta era un documento importante la cui veridicità era controllata dal KGB. Non potevi chiedere un passaporto in URSS e andare dove volevi. Il KGB controllava gli spostamenti e i passaporti. Se ne vuoi uno, digli tutto di te. Hai un motivo per andare all'estero, altrimenti nessun motivo, nessun passaporto. La maggior parte delle persone non se ne preoccupava, non che avessero segreti da nascondere, solo non era qualcosa che li riguardasse. Atleti, artisti, scienziati, questi sono il volto e l'immagine del Popolo, l'Idea, e il Sistema. La minoranza privilegiata, i “golden boys and girls” del Paradiso dei lavoratori. Questi possono avere il passaporto, ma solo dopo aver controllato cosa mangiano, respirano e pensano. Bloccato di nuovo, chiesi a Nikolai Rogozyan cosa fare per la Komsomol e lui mi disse di spuntare la casella “Sì”. Se non sei un membro, gli ideali del Partito non ti vanno bene o non combaci con gli ideali del Partito. In ogni caso, il KGB bloccherà la tua richiesta di passaporto se non sei un membro della Komsomol. “Lo sistemeremo dopo”, disse Rogozyan, “quando torneremo a Kiev”. Ho spuntato il riquadro e me ne sono dimenticato. Non ero un membro, lo dissi a Bogdan. “Quindi hai mentito sul modulo di richiesta del passaporto?” Gli dissi quanto ero impegnato a scuola e come avessi perso il treno Komsomol e come avrei voluto sistemare la cosa in seguito, ma il ciclismo si era messo in mezzo. Sorrideva e si chinava verso il sedile anteriore del passeggero. Prese una valigetta di plastica nera per il manico. Mise la valigetta in grembo e, guardandomi diretto in faccia, mi disse detto: “Dov'è tuo fratello, Nikolai?” Non c'entrava la Komsomol. “Kamchatka”, ho detto. “Alla fine del mondo”, disse e voltò la testa verso di me. “Perché così lontano da casa?” “Soldi. Sta facendo dei bei soldi in Kamchatka. Lunghe vacanze. Gli piace stare lì.” “Capisco. Lascia che ti chieda una cosa. Sei un bugiardo, Nikolai?” Da come diceva il mio nome alla fine delle domande, avrebbe potuto essere il mio insegnante di fisica che parlava di un compito consegnato in ritardo. Le parole uscivano dalle sue labbra con il tono pietoso di una lama della ghigliottina che ti cade sul collo. Ha teso la trappola e mi ha spinto ad entrarci. “Non sono un bugiardo.” Aprì la valigetta e tirò fuori una cartellina malridotta e scolorita. Vi era la foto in bianco e nero del mio passaporto attaccata ad un angolo. Il mio nome scritto a mano in lettere maiuscole era sotto un numero di registro. Ha messo la cartella sopra la valigetta e ha detto: “Chi ha compilato il modulo di richiesta del passaporto?” “Io stesso.” “Molto bene. Ti ricordi una domanda sulla tua famiglia?” “Quale?” “Quella in cui ti si chiedeva se qualcuno della tua famiglia è mai stato condannato per un reato penale.” “Ero un bambino quando mio fratello è andato in prigione”, ho detto. “Tanto tempo fa, ha smesso di essere qualcosa di reale per me.” “Lascia che ti dica io cosa è reale. Hai mentito al governo con piena cognizione delle conseguenze. Hai firmato il modulo. Sapevi di possibili ripercussioni per aver mentito al governo. Hai mentito per avere un passaporto, un documento che diamo a quelli di cui ci fidiamo. Sai a quanto ammonta la reclusione per questo crimine?” Fece una smorfia dicendo: “No? Penso di no.” “Cosa avrei dovuto fare?” Gli chiesi. “Senza passaporto, non posso correre all'estero. Inutile per la nazionale.” “Pensi troppo, Nikolai, e arrivi a conclusioni affrettate. Ipotizzi false conclusioni su cose di cui non sai niente. Pensi che non ti avremmo dato un passaporto perché tuo fratello è stato dentro dieci anni fa? Non sono affari tuoi, a pensarci bene. Il tuo compito è essere onesto e aperto con noi quando ti chiediamo di essere onesto e aperto con noi. Potremmo o non potremmo tenere conto delle informazioni stesse. Voglio dire, chi se ne frega di quello che ha fatto tuo fratello dieci anni fa, giusto? È quanto tu sia sincero con noi che vogliamo sapere. E finora, temo che tu non stia andando molto bene.” Sterzammo per Via Vladimirskaya e ci dirigemmo al quartier generale del KGB di Kiev. È così che ti fanno fuori, un piccolo errore ed è tutto finito, nessuna seconda possibilità. A pochi metri dal parcheggio riservato di fronte all'edificio, gli occhi dell'autista rivolti a Bogdan spuntarono nello specchietto. “Prosegui” gli disse facendo cenno con la mano. La Porta D'oro era sulla nostra destra quando Bogdan disse: “Hai cercato di defezionare in Francia, vero?” Guardai nella sua direzione, le budella che si contorcevano, la gola secca, il cuore che pompava sangue con gettate che si potevano udire dall’esterno. Esci dalla macchina e corri, nasconditi da qualche parte, ovunque, vai sottoterra e aspetta la tempesta sia passata. E poi? Per quanto tempo puoi nasconderti? Quanto lontano puoi correre? Come diciamo in Unione Sovietica, non si può correre più lontano della Siberia. “Perché pensate che avrei voluto defezionare?” “L'abbiamo sentito alla radio della BBC.” “Cosa?” “Lascia che ti legga qualcosa.” Fece un ghigno e aprì la cartellina che conteneva un fascicolo di fogli consunti battuti a macchina tenuti insieme da una graffetta. In cima vi era la prima pagina del mio modulo di richiesta del passaporto. Voltò pagina e fissò la pagina successiva scritta a mano con bella grafia. Scorse il testo impugnando la pagina con una mano. Quando ebbe trovato quello che stava cercando, puntò il suo indice e disse: “Ecco, una descrizione di quello che abbiamo trovato nel tuo borsone in Francia: “…conteneva i seguenti beni: duemilaquattrocento dollari USA; novecento marchi tedeschi; duemilaottocento franchi francesi; un passaporto; una medaglia d'oro, la maglia e l'attestato di campione del mondo; due paia di calze e mutande; uno spazzolino da denti; un quaderno; una penna a biro Bic e una Bibbia in russo stampata a Londra.” Questa, amico mio, sembra una borsa pronta per una fuga. Che ne dici?” Qualcuno mi ha tradito. Qualcuno ha frugato nella mia borsa, per caso o di proposito, e ha redatto un rapporto. Ho escluso il mio compagno di stanza a Caen. Entrambi dalla Titan, eravamo amici intimi, non è possibile che sia stato lui. La grafia ordinata, il linguaggio asciutto e formale. Merda, una Bibbia in russo stampata a Londra? Non è lui, non è il suo stile. Continua.... ww.sportintranslation.com Original English version below. By the time I came back to Kiev after the break, the city was deep in the autumn. Frosty mornings, fog everywhere, chestnut trees turning rusty yellow. Titan had gone to Crimea to prepare for the Sotsindustriya stage race. The season was over for me and I wasn’t going to race it but I couldn’t stay in Kiev and do nothing either. Elizarov told me to fly to Simferopol, join the team and spend the next few weeks riding in warm weather. I went to our service course to pack my bike for a pick up in the morning on the way to the airport. I did an average bike-packing job and spent an hour talking trash with the team mechanic. I decided to catch a cab instead of waiting for a lift to the hotel and walked out on the street. The buildings were casting long shadows over the cobbled Krasnoarmeyskaya Street. The chilled, moist air was pleasant to breathe. I wanted a Kashtan ice cream from the shop on the Kreshchatik street before catching a cab. A ten-minute walk. I saw a black Volga parked ahead, facing me with a rear door opened. A man in an unbuttoned taupe trench coat stood next to it, looking at me. I kept walking, wondering if he was staring at me because he had nothing else to do or there was something else to it. When I approached, he stepped away from the car and pulled out a red korochka from the coat’s pocket. He stuck it in my face and said, “Nikolai?” I looked at the ID. It had the guy’s black and white photo on the left and the KGB header on the right with rank, name, and authorization to carry a weapon below it. I couldn’t read the surname, something long and convoluted. Before he closed the korochka, I caught his first name, Bogdan. Crap, what’s going on, what did I do? I made a quick mental inventory of my pockets. No dollars, nothing illegal. What do they want? Bogdan nodded toward the rear seat of the Volga, and said, “Get in, we need to talk.” I climbed into the car, he shut my door and walked around, got into the seat next to me and said to the driver: “Poekhali.” Let’s go. 4 We drove toward Kreshchatyk, down the Vladimirsky Descent, past the Pochtovaya Square, and came to Podol’s narrow streets. Outside, pedestrians in winter jackets and coats scurried on the sidewalks. They don’t teach you in school what to do when the KGB sends an officer with an uber-Ukrainian name like Bogdan, in a black Volga for goodness’ sake, to pick you up. Don’t ask where you’re going, stay calm. Patience and respect, show them that. “Are you a member of the Komsomol, Nikolai?” Bogdan said. Is this what it’s about? Me, slipping through the system and never taking out the Komsomol membership? Don’t you guys have CIA spies to catch? Becoming a member of the Komsomol, or All-Union Leninist Young Communist League, was a formality. Most fourteen-year-olds went with the flow without thinking too much about it. Nobody forced you to join. Stay out of it and you’d set yourself up for problems in the future you never thought would be there waiting for you. When it was my time to join, I didn’t bother with it. Boring membership classes and, once you’re in, after-school meetings to waste time. My training started one hour after the last class, Komsomol didn’t fit in. First time Komsomol bit me in the ass was when I applied to Kiev Sports University. The application form asked if I was a member. Part of the Titan team by then, I knew the Uni wanted me more than I wanted the Uni and I ticked the yes box. Nobody checks this. Then came the passport application form with dozens of trivial questions. One was about Komsomol again. This time it was an important document checked for veracity by the KGB. You couldn’t apply for a passport in the USSR and go anywhere you liked. KGB controlled comings and goings, and the passports. You want one, tell them everything about yourself. Have a reason to go abroad. No reason, no passport. Most people never bothered with it. Not that they had any secrets to hide. Too hard. Athletes, artists, scientists, these are the face and the image of the People, the Idea, and the System. The privileged minority, the golden boys and girls of the workers’ paradise. These can have their passports but only after we check what they eat, breathe, and think. Stuck again, I told Nikolai Rogozyan about Komsomol and he said to tick the yes box. If you’re not a member, the Party’s ideals don’t fit you or you don’t fit the Party’s ideals. Either way, the KGB will choke your passport application if you’re not a member of the Komsomol. Will fix it up later, Rogozyan said, when we come back to Kiev. I ticked the box and forgot about it. I wasn’t a member I said to Bogdan. “So, you lied on your passport application form?” I told him how busy I was in school and missed the Komsomol boat and how I was going to fix this later but cycling got in the way. He grinned and leaned over to the front passenger seat. He grabbed a black, plastic briefcase by its handle. He placed the briefcase flat on his lap and, looking straight ahead, said: “Where’s your brother, Nikolai?” Not about Komsomol. “Kamchatka,” I said. “End of the world,” he said and turned his head toward me. “Why so far away from home?” “Money. He’s making good money in Kamchatka. Long holidays. He likes it there.” “I see. Let me ask you this. Are you a liar, Nikolai?” How he said my name at the end of the questions, he could’ve been my physics teacher chatting about an overdue assignment. Words flew from his lips with a chummy tone of a guillotine blade falling on your neck. He set the trap and nudged me to step into it. “I’m not a liar.” He opened the briefcase and pulled out a shabby, buff-colored manila folder. It had my black-and-white passport photo clipped to its corner. My name hand-written in capital letters was under a file and volume number heading. He placed the folder on top of the briefcase and said, “Who filled out your passport application form?” “I did.” “Very well. Do you remember a question about your immediate family?” “Which one?” “The one that asked you if anyone from your immediate family has ever been sentenced for a criminal offense.” “I was a kid when my brother went to jail,” I said. “So long ago, stopped being real to me.” “Let me tell you what’s real. You lied to the government in full knowledge of the consequences for doing so. You signed the form. You acknowledged possible repercussions for lying to the government. You lied to get a passport, a document we give to those only we trust. Do you know how long the sentence is for this crime?” He sneered saying, “No? I didn’t think so.” “What was I supposed to do?” I said. “Without a passport, I can’t race abroad. Useless to the national team.” “Thinking too much, Nikolai, and running ahead of yourself. You make false conclusions about things you know nothing about. You think we wouldn’t give you a passport because your brother served time ten years ago? It’s none of your business, to think. What is your business is to be honest and open with us when we ask you to be honest and open with us. We may or may not care about the information itself. I mean, who cares what your brother did ten years ago, right? It’s how truthful you’re with us we want to know. And so far, you’re not doing too well I’m afraid.” We turned on Vladimirskaya street and headed to Kiev’s KGB headquarters. This is it, this is how they take you out, a small slip-up and it’s all over, no second chances. Meters away from the parking bay in front of the building, the driver’s eyes popped into the rear-view mirror and glanced at Bogdan. “Keep going,” he told him with a hand wave. The Golden Gate was on our right when Bogdan said, “You tried to defect in France, didn’t you?” I looked in his direction, ice melting in my guts, dry throat, heart pumping blood with loud thumps. Get the hell out of the car and run, hide somewhere, anywhere, go underground and wait out the storm to pass over. And then what? How long can you hide? How far can you run? As we say in the Soviet Union, you can’t run farther than Siberia. “Why do you think I was going to defect?” “We heard it on the BBC radio.” “What?” “Let me read you something.” He smirked and opened the folder with a sheaf of loose and stapled printing paper in it. The one at the top was the first page of my passport application form. He flipped it over and stared at the next page with a neat handwriting on it. He scanned the text holding the page with one hand. When he found what he was looking for, he stuck the index finger at it and said, “Here, a description of what we found in your sling bag in France: ‘contained the following: two thousand four hundred US dollars; nine hundred Deutschmarks; two thousand eight hundred French francs; a passport; a gold medal, world champion’s jersey and diploma; two pairs of socks and underwear; a toothbrush; a notebook; a Bic Cristal pen, and a London-printed Russian Bible.’ This, my friend, looks like a bag made ready for a run. What do you think?” Someone sold me out. Someone went through my bag, by chance or on purpose, and wrote a report. I ruled out my roommate in Caen. Both from Titan, we were close friends, no way this was him. That tidy handwriting, the dry, formal language. Crap, a London-printed Russian Bible? That’s not him, he wouldn’t write that. ![]() Anton era su un treno per pendolari diretto a Mosca quando siamo atterrati all'aeroporto Sheremetyevo da Parigi. I palazzi clonati scorrevano nella direzione opposta fuori dal finestrino del treno. Ha girato la testa lontano dagli edifici in movimento e ha guardato dentro la carrozza affollata. La maggior parte delle persone leggeva. L'Intelligentsiya, libri e riviste letterarie. Il Gapota, il Plebes, quotidiani e riviste illustrate. Cosa diavolo potresti leggere su queste pagine artefatte dagli spin doctors della macchina della propaganda? Annebbia la mente anche solo guardare i titoli. “Nuova Era nella storia Dell'umanità”. “Grande eroismo di un grande popolo”. “Potenti ali della nostra madrepatria”. “Principi eterni del marxismo-leninismo”. Chi scrive tutto questo? Probabilmente dei pazzi. Come possono scriverlo senza impazzire? Si dondolò la faccia con entrambe le mani, posò i gomiti sulle ginocchia e guardò il pavimento attraverso gli interstizi tra le dita. Sotto il sedile vide un giornale arrotolato tremare all'unisono con il treno. Da quello che si poteva capire tra i listelli di legni, non era una copia della Pravda o dell'Izvestiya. L'afferrò per farsi una risata delle acrobazie linguistiche degli imbecilli e lo sfogliò. Era il nuovo numero di Sovetskiy Sport, il giornale meno avvelenato da Mosca. Era ancora pieno di sciocchezze, ma i tirapiedi del partito non avevano ancora capito come distorcere a loro vantaggio i risultati dello sport. Un punteggio è un punteggio e secondi e minuti sono gli stessi ovunque, non si può piegare troppo la realtà nello sport. Le prime pagine analizzavano le possibilità dello Spartak Mosca nell'imminente primo turno di Coppa UEFA. Affrontavano una squadra finlandese e tutti gli esperti prevedevano che lo Spartak avrebbe asfaltato i finlandesi. Non essendo un grande tifoso di calcio, sfogliò il giornale cercando qualcosa da leggere. Alla fine, una frase attirò la sua attenzione. Ritornò sulla pagina, la scansionò e trovò cosa stava cercando. Un breve rapporto su quattro ciclisti sovietici “schiacciare la squadra americana nella sconfitta umiliante” ai mondiali juniores. Lesse nuovamente e sobbalzò sul sedile. Braccia al cielo, urlò nella carrozza piena di passeggeri: “Mio fratello è campione del mondo!” Si girò verso il suo amico addormentato sul sedile accanto per scuoterlo. “Liosha! Svegliati, Kolya è un campione del mondo!” “Cosa?” Replicò Liosha. “Kolya è un campione del mondo!” “Chi?” “Kolya, fratello mio.” “Quale fratello?” “Mio Fratello, stupido, mio fratello.” * * * Se non fosse stato per il ciclismo, uno come Anton e me non sarebbero mai potuti diventare amici. Era il figlio unico di un preside di scuola, senza amici, cresciuto da sua madre su Cechov e Dostoevskij. Mia madre proveniva da un piccolo villaggio sul fiume Volga. Lasciò la scuola all'età di quattordici anni dopo la guerra per aiutare a mantenere la famiglia. Era una contabile quando ero piccolo e mio padre era un idraulico. Ho bevuto tè georgiano da una tazza da mezzo litro. In casa di Anton, il tè proveniva dallo Sri Lanka ed era servito in porcellane cinesi. A scuola indossava i jeans della Levi's e scarpe da ginnastica di importazione jugoslava. Io non avrei mai osato chiedere a mia madre di comprarmi dei jeans, perché si sarebbero potuti comprare solo al mercato nero per una cifra folle. Mi avrebbe riso in faccia se glielo avessi chiesto. Aveva due anni più di me, una grande differenza di età a tredici anni, quando l'ho conosciuto. Avevo un fratello maggiore che scomparve dalla mia vita quando avevo sei anni. Undici anni più vecchio di me, non posso dire che siamo stati molto insieme. Di ogni volta potrei ripetere di qui all'eternità nella mia mente come abbiamo passato il tempo, ogni parola e ogni battuta che mi ha detto. Iniziò ad andare in giro con le compagnie sbagliate sin da bambino. Un giorno non tornò a casa. Lo aspettammo giorno dopo giorno, ma non fece ritorno. Pensavamo fosse morto. Mia madre piangeva ogni notte in cucina e la sua angoscia mi arrivava al midollo. Amava i cavalli e lei seppe che viveva in una scuderia sulle montagne. Io e mamma salimmo su un autobus e andammo al villaggio dove era stato visto. Mamma lo trovò, ma lui rifiutò di tornare a casa, qualcosa a che fare con la polizia. Ero troppo piccolo per capire. Una mattina la porta si aprì e Sergey, mio fratello, entrò. Papà era vicino alla porta, pronto ad andare al lavoro. Sergey entra e si guardano per un secondo. Papà, un uomo robusto con muscoli scolpiti, si ruota sul torso, si volta e scarica un pugno sulla faccia di Sergey. Il diretto lo manda a terra come se qualcuno gli avesse tolto un tappeto da sotto. Atterra col sangue che sgorga dal naso inondando tutta la faccia. Il pugno l'ha steso. Giaceva sul pavimento con le nostre scarpe, giacche e cappotti che si erano sparsi intorno a lui mentre si schiantava contro l'armadio. Mi sono seduto per terra e ho pianto mentre mia madre assisteva Sergey per farlo rinvenire. Sangue sul viso e sul petto, questo era un ribelle, un figliol prodigo che ha avuto la sua ricompensa per i problemi che aveva creato. Sul pavimento, in una pozza di sangue, ai miei occhi appariva come l'esempio del non obbedire alla forza, a non cedere all'autorità in qualsiasi forma essa si manifesti. Quando Sergey, non ancora diciottenne, disse che si sarebbe sposato, i miei genitori non protestarono. Pensavano che il matrimonio lo avrebbe portato sulla retta via, ma non lo fece. Ha litigato con l'uomo sbagliato e l'hanno rinchiuso per tre anni a novemila chilometri da casa. Quando mamma ha sentito il verdetto, si è inginocchiata e ha pianto. Mesi dopo, mi sveglio una notte per andare in bagno. La mamma è in salotto seduta da sola al tavolo della cucina con una fotografia sei per quattro di Sergey tra le mani. Le lacrime scorrevano, diceva: “Signore Dio, puniscimi. Puniscimi, ma ti prego, risparmia mio figlio.” L'amicizia di Anton ha colmato il vuoto che Sergey aveva lasciato quando era andato in prigione. Abitavamo due condomini di distanza e pedalavamo insieme per raggiungere la sede della squadra per l'allenamento. Sulla strada del ritorno, dopo esserci allenati con gli altri ragazzi, ci separavano e attraversavamo la città. Eravamo quelli che abitavano più distanti dalla squadra. È in queste pedalate che abbiamo perfezionato le nostre abilità di guida. Impennare, inchiodare con il freno anteriore e sollevare la ruota posteriore il più in alto possibile. Aprirsi gli sganci rapidi delle ruote l'uno con l'altro. E, la madre di tutte le abilità, procedere con i piedi sul manubrio. Facevamo le volate ai cartelli stradali e ai pali della luce nelle nostre pedalate verso casa. A nessuno interessavano queste volate tranne me e Anton che non ha mai perso uno sprint e non mi sarei dato pace finché non lo avrei battuto. Abbiamo disputato centinaia di questi sprint e non ho mai vinto una sola volta. Ho cercato di ingannarlo con volate a bassa velocità, brevi e dietro la curva. Individuavo un palo della luce a cinquanta metri di distanza, prendevo un po' di velocità da dietro e urlavo “L'arrivo è al palo!” e quindi lui faceva esplodere la sua potenza e mi batteva sulla linea immaginaria con le braccia alzate. Ho provato a colpirgli il manettino del cambio posteriore con la mano per indurirgli il rapporto e quindi sprintare. Non ha mai funzionato, mi batteva, rapporto troppo lungo o meno. Anni dopo, quando ormai aveva smesso correre, andammo a fare un giro intorno a Nalchik in una delle mie visite a casa dalla Titan. Pedalava la mia vecchia bici da inverno indossando sandali senza grip con una sigaretta in bocca. Io ero in buono stato di forma dopo un blocco di corse, era la mia occasione per batterlo in uno sprint. Aveva un rapporto troppo lungo per la velocità a cui stavamo andando. Scalai su un rapporto più agile, strinsi i cinghietti dei puntapiedi, mi misi in presa bassa, cinquanta metri da un palo della luce e urlai “Volata!” Mi ha ripreso a cinque metri dal palo e ha lanciato la bici sul “traguardo”, battendomi di mezza ruota. “Amico”, ha detto dopo aver ripreso a respirare. “Mi hai fatto perdere la sigaretta.” Quando Anton mi ha chiamato bratka, fratellino, per la prima volta, una parola che solo un vicino, fratello di sangue avrebbe usato, ho pensato che avrei fatto qualsiasi cosa per lui. Si trasferì a Mosca per studiare e io andai a Kiev e non lo sentivo da più di un anno. Mi ero dimenticato del mio amico come avevo dimenticato tutto quello che non era rilevante per gli obiettivi che volevo raggiungere. Anche lui non era più lo stesso ragazzo di una piccola città provinciale nel Caucaso settentrionale. Era un moskvitch, un moscovita, che nuotava nelle acque bohemien degli eccentrici locali di Mosca. Aveva anche preso l'accento di Mosca, un'idiosincrasia irritante di cui non riuscivo a smettere di ridere quando ci siamo incontrati di nuovo a Nalchik. La Titan mi mandò a casa per rilassarmi dopo il mondiale e Anton tornò a Nalchik per un paio di settimane. Mi dissero di pedalare per almeno due ore al giorno. Non mi presi neanche la briga di togliere la bici dalla borsa e la nascosi sotto il letto lontano dai miei occhi. È il momento della fiesta. Il Comitato di Stato ucraino per la cultura fisica e lo sport mi diede duemila rubli per i miei risultati in Francia. Si sarebbe potuto vivere per un anno in URSS con quei soldi, ma volevo bruciarne un po' con il mio amico. Io e Anton salimmo su un jet Yak-40 da 24 posti e 45 minuti atterrammo a Sochi. Prendemmo un taxi all'aeroporto e andammo direttamente al ristorante Chaika nel porto di Sochi. Il Chaika era il tipo di posto dove si doveva corrompere il maître per entrare anche se non c'era nessuno nel locale. Un edificio in stile neoclassico stalinista con colonne e soffitti alti dieci metri. È dove si va a bruciare i soldi con stile. Servivano tutto al Chaika, dal beluga alla pizza. Gli ospiti speciali potevano ordinare vodka di qualità per l'esportazione conservata nel freezer. Ho dato un chetvertak, un biglietto da 25 rubli, al maître appena entrati e abbiamo chiesto un tavolo sulla veranda. Prese i soldi e li infilò nella tasca della giacca con due dita. Annuì ad un cameriere dall'aspetto effeminato con un grembiule con merletti della borgogna e una camicia bianca ed inamidata che stava in piedi come una sfinge accanto a lui in attesa del comando del maître. Appena vide il cenno, ci portò ad un tavolo con vista sulle navi da crociera ancorate a cento metri di distanza. Ci siamo seduti e abbiamo ordinato vodka Stolichnaya fredda e caviale nero. Il cameriere tornò con la vodka in un decantar di cristallo, una ciotola di caviale e un piatto di funghi di pino rosso marinati. “Dallo chef”, indicò i funghi con un sorriso. “Chiamatemi quando siete pronto per ordinare.” Entro la sera, dirigenti del governo in sovrappeso e personaggi della malavita riempirono il ristorante. Le ore volarono mentre parlavamo e ridevamo. Ridevamo sempre. Ci inventavamo battute che nessuno avrebbe capito. Ridevamo delle persone intorno a noi, ridevamo di noi stessi per delle cose ridicole che avevamo fatto. “Ehi, ti ricordi ...” era spesso l'introduzione di un aneddoto che sarebbe finito in un mare di risate. Abbiamo finito di cenare e ordinato una bottiglia di cognac da portar via, pagato il conto e siamo andati fuori per cercare un taxi. Un viaggio a Sochi non sarebbe stato un viaggio a Sochi se non avessimo nuotato nel Mar Nero. Un tassista armeno pazzo guidò come se gli rimanesse solo un'ora di vita. Ci portò in una spiaggia deserta a Dagomys dove nuotammo nudi, bevemmo cognac per riscaldarci e ridemmo. “Ehi, ti rendi conto di quello che hai fatto in Francia?” Anton disse dopo che ci fummo rivestiti e trovammo un posto dove sederci su un frangiflutti. “Ho vinto i mondiali?” “No, voglio dire, sì, ma...“si fermò e osservò l'orizzonte illuminato dalla luna. “Cosa?” “Ora sei un campione del mondo. Lo capisci?” Credo di sì.” “Ho detto a tutti a Mosca che il mio migliore amico è un campione del mondo e nessuno mi crede.” “Sono degli idioti.” “Pensano che vi creino nei laboratori in luoghi segreti assieme ai cosmonauti. Ma eccoti qui, un idiota di Nalchik con una maglia iridata. Mi spaventa questo pensiero.” “Non esagerare, era solo un campionato juniores.” “Chi se ne frega, junior-giovanile. Un campione del mondo è un campione del mondo. È un titolo per la vita. Tra trent'anni sarai ancora campione del mondo. Sai che tipo di porte questo titolo ti aprirà?” “Dimmi.” “Non fare lo scemi, lo sai?” “No, dico sul serio. Dimmi che tipo di porte si apriranno per me?” “Non lo so. Di tutti i tipi. D'ora in poi, presentati come Nikolai Razouvaev, un campione del mondo. Vediamo che succede.” Abbiamo riso di nuovo. “Finiamo la bottiglia e andiamocene”, disse Anton. “Si sta facendo freddo.” Original English version below. Anton was on a commuter train to Moscow when we touched down in Sheremetyevo airport from Paris. The cloned housing estates rushed in the opposite direction outside the train window. He turned his head away from the moving buildings and gazed inside the packed car. Most people were reading. The Intelligentsiya — books and literary journals. The Gapota, the plebes — newspapers and illustrated magazines. What the hell could you be reading on these pages cooked up by the spin doctors of the propaganda machine? It’s mind-numbing to even look at the headlines. New Era in the History of Humanity. Great Heroism of a Great People. Mighty Wings of Our Motherland. Everlasting Principles of Marxism-Leninism. Who writes this? They must be insane, those writers. How can they write this and not go mad? He cradled his face with both hands, rested the elbows on the knees and looked at the floor through the holes between his fingers. He saw a rolled up newspaper under the seat, jiggling in unison with the train. From what he could make out of the masthead it wasn’t a Pravda or Izvestiya. He picked it up to snigger at the imbeciles’ doublespeak and spread it open in his hands. It was a fresh issue of Sovetskiy Sport, the least poisoned newspaper out of Moscow. Still full of drivel, the Party’s minions hadn’t figure out yet how to distort sports’ results. A score is a score and seconds and minutes are the same everywhere, you can’t bend reality too much in sport. The first few pages analyzed FC Spartak Moscow’s chances in the upcoming first round of UEFA Cup. They played a Finnish team and all experts predicted Spartak will walk all over the Finns. Not a huge football fan, he flipped through the paper looking for something to read. At the end, a sentence caught his eye. He flipped back a page, scanned it and saw what it was. A short report about four Soviet cyclists “crushing American team in humiliating defeat” at junior worlds. He read the story again and jumped out of his seat. Arms in the air, he screamed into the car crammed with passengers, “My brother is a world champion!” He turned to his sleeping friend in the next seat to shook him. “Liosha! Wake up, Kolya is a world champion!” “What?” Liosha said. “Kolya is a world champion!” “Who?” “Kolya, my bro.” “What bro?” “My bro, you silly, my bro.” * * * If not for cycling, someone like Anton and I could have never become friends. He was the only son of a school principal raised alone by his mother on Chekhov and Dostoevsky. My mother was from a small village on Volga river. She quit school at the age of fourteen after the war to help raise the family. She was an accountant when I was growing up and my father was a plumber. I drank Georgian tea from a half-liter mug. Anton’s place, Ceylon tea brewed and served in imported china. He wore Levi’s jeans and Yugoslavian shoes to school. Me, I wouldn’t dare to ask my mom to buy me jeans because you could only buy them on the black market for the insane amount of money. She’d laugh in my face if I asked. He was two years older than me, a big gap at thirteen when I met him. I had an older brother who disappeared from my life when I was six. Eleven years older than me, I can’t say we hung out together a lot. Every time we did, I’d replay over and over in my mind the time he spent with me, every word and every joke he said. He bummed around with the wrong crowd since he was a kid. One day he didn’t come home. Day after day we waited for him to turn up but he wouldn’t. We thought he was dead. My mother wept every night in the kitchen and her anguish echoed in my bones. He loved horses and she heard a rumor he’d been living on a horse farm in the mountains. Mom and I boarded a bus and rode to the village where people saw him. She found him but he refused to come home, something to do with the police. I was too little to understand. One morning the door opens and Sergey, my brother, walks in. Dad was standing not far from the door ready to go to work. Sergey walks in and they look at each other for a second. Dad, a sturdy man sculpted by muscle chunks, swings back his torso, uncoils, and lands a blow on Sergey’s face. The jab sends him down to the floor as if someone pulled a carpet from under him. He lands with blood pouring from his nose all over the face. The punch knocked him out. He laid on the floor with our shoes, jackets, and coats scattered around him as he crashed into a wardrobe. I sat on the floor and cried while my mom nursed Sergey back into cognition. Blood on his face and chest, this was a rebel, a prodigal son who got his reward for the trouble he’d made. On the floor in a pool of blood, this is me fixed on not to obey force, not to yield to authority in whatever form it came. When Sergey said he’s getting married before he turns eighteen, my parents didn’t protest. They reasoned marriage would settle him down. It didn’t. He got into a fight with a wrong guy and they locked him up for three years nine thousand kilometres away from home. When Mom heard the verdict, she kneeled to the floor and wept. Months later, I wake one night to go to the toilet. Mom’s in the living room sitting alone at the dinner table with Sergey’s six-by-four portrait in her hands. Tears running down, she says, “Lord God, punish me. Punish me but please spare my boy.” Anton’s friendship patched the hole Sergey left when he’d gone to jail. We lived two apartment buildings from each other and rode to our cycling club together to train. On the way back, we’d start riding with a few other boys and they’d split as we went along through the city. We lived the farthest from the club. It is on these rides we polished our bike handling skills. The wheelies, braking with the front brake and lifting the rear wheel as high as possible. Undoing each others’ quick releases. And, the mother of all skills, riding with your feet on the handlebar. We sprinted to street signs and light poles on these home rides. No one cared for these sprints except me and Anton. He never lost a sprint and I couldn’t rest until I’d beat him. We’ve had hundreds of these sprints and I’d never won once. I tried to trick him on these low speed, short, small-ring sprints. I’d mark a light pole fifty meters away, pick up some speed from behind and yell “Finish at the pole!” and he’d detonate a blast and beat me to the imaginary line with arms in the air. I tried hitting his rear shifter with my hand to overgear him and then sprint. It never worked, he’d beat me overgeared or not. Years later, when he stopped racing, we went for a ride around Nalchik on one of my visits home from Titan. He rode my old winter bike in slide sandals with a cigarette in his mouth. In good shape after a block of racing, now was my chance to beat him in a sprint. He was overgeared for the speed we were rolling at. I clicked into an easier gear and tightened the pedal straps, grabbed the drops fifty meters from a light pole and yelled “Sprint!” He caught me with five meters to go and threw the bike to the ‘line’, undercutting me by half a wheel. “Dude,” he said after he got his breathing back. “You made me lose my cigarette.” When Anton called me bratka, little brother, for the first time, a word only a close, blood brother would use, I thought I’d do anything for him. He moved to Moscow to study and I went to Kiev and haven’t heard from him for over a year. I forgot about my friend like I forgot everything else that wasn’t relevant to the goals I set out to achieve. He too wasn’t the same kid from a small, provincial city in North Caucasus. He was a moskvitch, a Muscovite, swimming in bohemian waters of Moscow’s eccentric hangouts. He even picked up the Moscow’s accent, an annoying idiosyncrasy I couldn’t stop myself laughing at when we met again in Nalchik. Titan sent me home to wind down after the championship and Anton came to Nalchik for a couple of weeks. They told me to ride for at least two hours a day. I didn’t bother to unpack the bike and hid it under my bed away from my eyes. Fiesta time. Ukrainian State Committee of Physical Culture and Sports gave me two thousand rubles for my efforts in France. You could live for a year in USSR with this money but I wanted to burn some of it with my friend. Anton and I boarded a twenty-four-seat Yak-40 jet and forty-five minutes later landed in Sochi. We took a cab from the airport and went straight to Chaika restaurant in Sochi’s seaport terminal. Chaika was the kind of a place where you had to bribe maître d’hôtel to get in even if no one was dining inside. A neo-classicism Stalinist style building with columns and ten-meter-high ceilings. It’s where you go to burn cash in style. They served everything from beluga to pizza in Chaika. Special guests could order export-quality vodka from the freezer. I gave a chetvertak, a twenty-five-ruble note, to the maître when we walked in and asked for a table on the veranda. He took the money and slid it into the vest’s pocket with two fingers. He nodded at an effeminate-looking waiter in a burgundy bib apron and a crisp white shirt who stood as a sphinx next to him waiting for the maître’s command. The moment he saw the nod, he took us to a spot with the view on cruise ships anchored a hundred meters away. We sat down and ordered iced Stolichnaya and black caviar. The waiter came back with vodka in a crystal decanter, a bowl of caviar, and a plate of marinated red pine mushrooms. “From the chef,” he pointed at the mushrooms with a smile. “Call me when you’re ready to order.” By the evening, overweight government executives and underworld characters filled the restaurant. The hours fled by as we talked and laughed. We always laughed. We made up jokes nobody would understand. We laughed at people around us, laughed at ourselves for goofy stuff we’ve done. “Hey, do you remember…” was often an opening remark to an anecdote that would end in a laughing storm. We finished the dinner and ordered a bottle of cognac to go, paid the bill and headed outside to find a cab. A trip to Sochi wouldn’t be a trip to Sochi if we hadn’t swam in the Black Sea. A crazy Armenian cabbie drove us as if he had only an hour to live. He took us to a deserted beach in Dagomys where we swum naked, drank cognac to keep ourselves warm and laughed. “Hey, do you realize what you’ve done in France?” Anton said after we got dressed and found a place to sit down on a wave breaker. “Won the worlds?” “No, I mean yes, you have, but — ” he paused and looked into the moon lit horizon. “What?” “You’re a world champion now. Do you understand that?” I guess.” “I told everyone in Moscow my best friend is a world champion and no one believes me.” “They’re stupid.” “They think they breed you guys in labs at secret locations next to the cosmonauts. But here you are, a bonehead from Nalchik with a rainbow jersey. Freaks me out this thought.” “Don’t get carried away,” I said. “It was only a junior championship.” “Who cares, junior-shmunior. A world champion is a world champion. It’s a title for life. Thirty years from now, you still be a world champion. Do you know what kind of doors this title will open for you?” “Tell me.” “You’re stupid, you know that?” “No, I’m serious. Tell me what kind of doors it will open for me?” “I don’t know. All kinds. From now on, introduce yourself as Nikolai Razouvaev, a world champion. See what happens.” We laughed again. “Let’s finish the bottle and get out of here,” Anton said. “It’s getting cold.” ![]() Mi risvegliai in una casetta di legno nel centro di Lesnoye sentendo la mano di qualcuno sulla mia pelle. Aprii gli occhi e vidi un ragazzo vicino al mio letto accosciato. Teneva il mio polso nella sua mano. Indossava una camicia arancione e un cardigan che solo una nonna avrebbe indossato. Un taglio di capelli in stile militare con una frangia dritta lo fece apparire ai miei occhi come se passasse tutta la sua vita in un laboratorio di analisi. “Buongiorno”, disse in ucraino e sorrise. “Controllo la tua frequenza cardiaca a riposo. Scusa se ti ho svegliato. Puoi tornare a dormire se vuoi.” Le parole in ucraino mi passarono per il cervello confusamente, ma avevo capito quello che mi aveva detto. Parlò con tono educato. Prima di quella mattina, avevo sentito due o tre persone parlare in quel modo. Nel paradiso dei lavoratori abbaiamo. Non c’è spazio per “Per favore” e “Mi scusi”, mai un “Mi dispiace”, qui nessuno è mai dispiaciuto per niente. Uno studente di dottorato di Lvov: Yaroslav era una reliquia di un'epoca incontaminata dal comunismo. Diceva “Grazie” e “Per favore”, sorrideva e si prendeva cura di te. “Allora, come è il mio battito?” gli chiesi. “Se non sapessi che sei un ciclista, chiamerei subito un'ambulanza. È sotto i quaranta.” “E sotto i quaranta è positivo?” “Mettiamola così: il tuo cuore pompa la stessa quantità di sangue in una gettata come il mio pompa in due.” “Va bene?” Sorrise di nuovo, mi lasciò il polso e mi disse: “Lo sapremo dopo i test. Torna a dormire.” I test, tutti parlavano dei test. Il capo allenatore della Titan, Yuri Elizarov, credeva nella scienza e nei test. Quello che mi innervosiva era trovarmi di fronte una soglia che non conoscevo o a un numero di cui non sapevo nulla. Dammi un ciclista o un cronometro contro cui gareggiare, non una soglia. Iniziarono a prelevare un campione di sangue la mattina stessa del mio primo allenamento centrala. Pedalai al ristorante del Lesnoye e vidi due giovani donne in camice bianco sedute dietro ad un tavolo. Uno era indaffarata con delle provette, le etichettava e le disponeva in un contenitore apposito, l'altra puntava il suo indice verso una sedia pieghevole che le stava accanto. Sembravano carine e mi balenò l'idea di inchiodare, così da sollevare la ruota posteriore e spaventare le ragazze. Se solo la bravata fosse andata male sarei atterrato sul tavolo pieno di provette e sarei salito su un aereo che volava verso casa quello stesso pomeriggio. “Ho bisogno del tuo sangue”, disse la ragazza con il dito ancora rivolto verso il basso quando mi fermai. “Chiedi per favore”, dissi e allungai la mano senza scendere dalla bici. Lei ridacchiò e disse: “Siediti, cowboy, o potresti svenire quando vedrai i miei strumenti.” Mi prendevano il sangue due, anche tre volte al giorno, prima e dopo l'allenamento centrale e poi la sera. Al terzo giorno la punta del dito si gonfiò e fu una tortura prelevare il sangue da quel momento. Le vampire pizzicavano solo il dito medio e l'anulare. Dagli altri tre, dicevano, era troppo difficile spremere il sangue. Dopo una settimana, finii le dita che non mi facevano ancora male. Una mattina mugugnai su quanto fosse doloroso spremere la borraccia così la vampira disse: “Nessun problema, useremo le tue orecchie finché le tue dita non guariranno.” Quindi arrivarono i cardiofrequenzimetri. Non parliamo dei dispositivi da polso del ventunesimo secolo: il ricevitore viaggiava sull'ammiraglia alloggiato in una scatola delle dimensioni di un frigorifero portatile. Incollavamo i trasmettitori con il mastice da tubolari sulla pelle del petto perché nessuno aveva pensato a delle fasce quando furono progettati. La Titan non aveva tempo per soluzioni eleganti ai problemi logistici: se il mastice funziona, usiamo il mastice. Era compito delle vampire incollare i trasmettitori. Togliti la maglia davanti a due ragazze e lascia che ti cospargano il petto con il mastice. Brillante. Un pozzo senza fondo di battute sconce. La vendetta arrivava dopo l'allenamento quando strappavano via i trasmettitori insieme ai peli del petto. I piangina si depilarono una zona del petto per evitare la tortura. Gli altri, ci beavamo nel dolore. Il test di laboratorio arrivò senza preavviso. Era un giorno di riposo ed eravamo alla fine di un'uscita breve. Nikolai Rogozyan mi si affiancò e mi disse che dovevo preparare una borsa con un paio di pantaloncini, scarpe e calzini per un viaggio a Kiev dopo l'allenamento. “La nostra brigata scientifica non vede l'ora di vederti”, disse sorridente. “Ti piacerà il tempo passato in laboratorio. Cerca di non vomitare.” Il test si svolgeva in una grande stanza piena di strane attrezzature mediche. Un cicloergometro Monark a cinghia stazionava al centro della stanza con una piscina di sudore sotto. L'aria nella stanza era pesante a causa degli odori umani e la puzza di sigaretta. Un uomo e una donna vagavano nella stanza intorno al macchinario di fabbricazione tedesca. Mi dissero di infilarmi le scarpe e salire sul cicloergometro per il riscaldamento. Un uomo alto e magro con uno sguardo diabolico sul viso mi spiegò come si sarebbe svolta la prova. Indicò un metronomo vicino alla bici e mi disse che avrei dovuto sincronizzare la mia cadenza alla lancetta del metronomo. “Finché non collassi” e con questo le istruzioni erano terminate. “Per quanto tempo dovrei continuare?” gli chiesi. Grugnò e disse: “Siamo qui per scoprirlo.” Stavo per fermarmi quando il dottor Diavolo lasciò la sua postazione di comando. Si avvicinò e si fermò nella pozzanghera di sudore accanto a me, mi mise un braccio sulla spalla e mi disse nell'orecchio: “Continua. Ancora trenta secondi.” Tirò fuori un cronometro dal suo camice bianco e premette il pulsante per avviarlo. Dopo che fu passata almeno un'ora, mi disse: “Cinque secondi.” Un'altra ora, “Dieci secondi.” Dopo che ne furono passati altri cinque, volevo fermarmi. La luce si spense e il rumore del mio battito cardiaco era così forte nella mia testa che non riuscivo a sentire il metronomo. Chi se ne frega se resisto altri quindici secondi o no? A meno che i trenta secondi dopo che hai le gambe vuote non siano il test vero e proprio: questo festival della tortura è solo il preludio, un riscaldamento sadico per gli ultimi trenta secondi. Vogliono sapere fino a che punto possono spingerti con un tranquillo “Continua.” Non mi avevano piegato. La mia cadenza era fuori sincronia con il metronomo, ma ho fatto girare i pedali finché il Dottor Diavolo non mi ha detto di fermarmi. Continua.... www.sportintranslation.com |
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September 2020
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