![]() La prossima edizione dei Giochi si terrà nel 2021 e quale futuro per le Olimpiadi? La situazione mondiale sul Covid-19 è in continua evoluzione e nessuno sa quali possano essere gli sviluppi futuri. Stante la situazione attuale si può immaginare uno scenario relativamente tranquillo in Giappone nella prossima estate. Ma le Olimpiadi sono un evento di tale portata che sconvolgono la vita di un paese. Nel prossimo luglio il Giappone vorrà aprire le sue frontiere a migliaia di atleti e accompagnatori da ogni parte del mondo? Inoltre, nella prossima primavera, le gare di qualificazione si potranno svolgere regolarmente? Questi i due principali quesiti per i prossimi giochi olimpici che esigono una risposta immediata. Ma vi sono altre domande che riguardano in generale l’evento olimpiade e il suo futuro. L’attuale modello olimpico ha ancora senso? Tutti sanno che le Olimpiadi moderne sono nate dall’idea romantica del barone Pierre de Coubertin di riportare in vita i giochi olimpici che si tenevano nel periodo della Grecia classica presso la città di Olimpia. La prima edizione dei giochi moderni fu organizzata ad Atene e si svolse nell’arco di dieci giorni dell’aprile 1896. La seconda, che nei piani avrebbe dovuto essere la prima, si svolse in concomitanza dell’Expo di Parigi del 1900. I Giochi, oltre alla Tour Eiffel, sono uno dei lasciti di quella edizione dell’esposizione universale. Gli eventi seguirono il calendario dell’Expo e furono spalmati su ben sei mesi. Nonostante le pause dovute alle due guerre mondiali e i boicottaggi, le Olimpiadi sono arrivate fino ai giorni nostri. Ma a che prezzo? I flop finanziari delle Olimpiadi. Già l’edizione del 1908 ha rischiato il fallimento economico, ma, restando a tempi più recenti, tutte le ultime edizioni hanno avuto deficit di dimensioni spaventose, nel caso di Atene 2004 anche contribuendo al crack finanziario del paese. È vero marketing territoriale? Gli organizzatori confidano sempre in un flusso di turisti durante le due settimane dei Giochi. Di fatto, l’evento allontana i turisti abituali e non attira abbastanza appassionati di sport per rimpiazzarli. Emblematico il caso dei Commonwealth Games, la versione di Giochi riservate alle nazioni dell’ex impero britannico, tenutisi nel 2018 nella Gold Coast, Australia. Nei mesi precedenti gli organizzatori avevano scoraggiato i locali dal raggiungere i luoghi di gara con la propria auto. Nelle previsioni, molti appassionati stranieri si sarebbero riversati nella costa est australiana per l’evento, creando ingorghi. L’Australia non è esattamente vicina per nessuna nazione del Commonwealth, tranne la quasi disabitata Nuova Zelanda. I tifosi stranieri non sono arrivati, quelli locali hanno seguito il suggerimento e non si sono presentati neanche con i mezzi pubblici. Risultato, dopo il flop dei primi giorni, autorità locali e organizzatori invitavano ad andare nella Gold Coast in auto per assistere all’evento. Ma il vero obbiettivo del marketing territoriale è il flusso turistico negli anni seguenti l’evento. Partiamo dal “brand” delle ultime tre città ospitanti: Londra 2012, Rio 2016 e Tokyo 202? Tre nomi che tutti hanno ben presenti, ognuno ricorda almeno un luogo legato a ciascuna di queste città. Quale valore aggiunto hanno apportato le Olimpiadi? Sotto questo punto di vista avrebbero avuto maggio benefici, per fare tre nomi a caso, Leeds, Brasilia e Yokohama. Mentre scrivo ho ben impresse le iconiche immagini dei ginnasti nelle terme di Caracalla a Roma 1960 e i tuffatori “infilzati” dalle guglie della Sagrada Famiglia di Barcellona 1992. Ma nelle Olimpiadi moderne, quanto vediamo della città? Quei due sport, come la maggior parte di quelli in programma, ormai si svolgono in strutture coperte, le esigenze televisive non tollerano interruzioni per pioggia o riprese senza luci perfette. Dentro un palazzetto, solo i cartelloni a bordo campo ricordano la città ospitante. Sono rimasti poche specialità che hanno come sfondo la città. A memoria: ciclismo su strada, triathlon, maratona, marcia, quest’ultima sempre in forse a ogni edizione. Anche la mountain bike si svolge su circuiti praticamente artificiali, così come la canoa e il golf. La vela è un capitolo a parte, mostra la costa, ma marchiata da un brand di una città diversa, spesso lontana centinaia di chilometri. Senza una ricerca in internet, non ricordo dove si siano svolte le prove di vela nel 2012, di sicuro non a Londra come recita il medagliere. Per quanto riguarda le riprese esterne, i Giochi invernali sono una vetrina migliore, ma né Salt Lake city né Lillehammer sono balzate in testa ai luoghi preferiti dagli sciatori dopo aver ospitato le Olimpiadi. È vera promozione sportiva per il territorio? Assegnare le Olimpiadi ad una sola città significa concentrare gli impianti in un’area ristretta. Significa costruire strutture in un territorio dove spesso non esiste una tradizione per quello specifico sport. Le tristi immagini di impianti in disuso dopo l’evento sono note a tutti. Non basta erigere un velodromo per spingere i ragazzini al ciclismo su pista, servono anche tecnici e società locali. Una piattaforma per tuffi senza un istruttore non solo è inutile, è pericolosa. Assistiamo a scuole sportive nazionali che nascono in vista dell’evento, come quella ciclistica britannica per Londra 2012, per portare medaglie alla nazione ospitante, ma raramente sulla scia dell’evento. I Giochi possono essere un vero volano sportivo e turistico? A mio parere sì, ma debbono cambiare l’impostazione romantica attuale. Il primo passo è superare la concezione degli atleti concentrati in un unico luogo e per due sole settimane. Dopo quattro anni di digiuno, il telespettatore si ritrova davanti ad un’abbuffata di sport senza logica, dove il debutto olimpico del triathlon a Sydney 2000 viene interrotto per trasmettere la prima batteria di qualificazione di canottaggio. Il tutto con l’appassionato di triathlon che, a causa del fuso orario australiano, si è svegliato alle quattro del mattino e si ritrova ad assistere a un evento che non aveva previsto, esperienza personale. Il programma estivo dovrebbe essere spalmato sui tre mesi estivi, o almeno su un intero mese. Questo risolverebbe anche il problema dell’ospitalità. Il villaggio olimpico è ricco di fascino, di storie di amicizia e amore come quella tra Livio Berruti e Wilma Rudholf, ma è anche una voce pesante del bilancio e la sua riconversione è spesso incerta, non tutte le città hanno bisogno di un dormitorio universitario. I Giochi, inoltre, non dovrebbero essere più organizzati da una singola città, ma da una nazione così come è per i mondiali di calcio. In questo modo si costruirebbero impianti nuovi o si rinnoverebbero impianti esistenti dove vi è la richiesta, come un impianto dei tuffi a Bolzano in caso di Olimpiadi in Italia. La sede congiunta di Milano- Cortina va già in questa direzione, fanno male gli impianti del salto con gli sci di Pragelato costati 34 milioni di euro abbandonati dopo Torino 2006. Addio al romanticismo delle Olimpiadi? Forse. Lo spirito olimpico verrà diluito, il pathos diminuito? Molto probabilmente sì, ma in nome di questo possiamo pensare che questo evento faccio naufragare conti pubblici senza ritorni né turistici né sportivi? www.sportintranslation.com www.giuseppegambarini.it ![]() Fino a poco tempo fa l’affitto di un bene per lunghi periodi era associato solo agli immobili e comunque visto come una scelta di ripiego per chi non potesse permettersi un mutuo. In Italia anche l’acquisto a rate ha riscontrato molte resistenze rispetto a mercati con un alto tasso di indebitamento come quello statunitense. Negli ultimi tempi, l’idea di sostituire la proprietà con affitti di lunga durata ha fatto capolino anche nell'utente privato, specie per quei beni la cui obsolescenza è inevitabile. Esempio classico le sempre più presenti offerte di auto utilitarie in affitto. Questa azienda slovacca ha spostato l’asticella ad un livello più alto. Parliamo di sport, tempo libero, e parliamo di beni in affitto molto legati all'utilizzatore, direi quasi intimamente legate, quali le maglie per ciclismo. La Isadore, fondata e gestita dai due fratelli Velits, ciclisti professionisti di primo livello negli anni duemila, offre un servizio di abbonamento, a partire da 35€ al mese. L'offerta prevede il recapito a casa di una maglia a scelta, il suo uso per 90 giorni e la restituzione, sempre via corriere, al termine del periodo. Il capo viene sostituito gratuitamente in caso di danneggiamento o smarrimento, anche quando imputabile all'utilizzatore. Lo stesso capo verrà accuratamente lavato e igienizzato per essere affittato ad un alto utente, il ciclo si conclude con il riutilizzo della fibra per la costruzione di materiale isolante. Indubbiamente un procedimento molto ecologico e sostenibile. Il sito garantisce un risparmio del 50% rispetto all'acquisto della fornitura annuale. Sinceramente, sono dubbioso sulla convenienza di questa particolare offerta, comunque non disponibile in Italia. Ma per beni di valore ben maggiore e in continua evoluzione, almeno agli occhi dell’amatore, quali le biciclette, la soluzione dell'affitto di lunga durata potrebbe essere interessante. L’era della proprietà è sulla via del tramonto? Che ne pensate? ![]() La cronometro di Mosca ha segnato il tenore del resto della stagione. Sono caduto nella corsa su strada nel circuito di Krylatskoye e sono finito in ospedale con il morbillo il giorno che sono tornato a Kiev. Mi sono ripreso a metà stagione. Sembrava che avessi voltato pagina quando ottenni il terzo posto, staccato di soli quattro secondi, nella cronometro ai campionati nazionali. Il nuovo capitolo si interruppe quando forai a quindici chilometri dall'arrivo della gara su strada. La scia di sfortuna terminò quando scoprii che sarei andato alla Coors Classic. Se le voci erano vere, l'intero gruppo dei professionisti con Bernard Hinault e Greg Lemond era pronto a schierarsi per la gara. Ho tenuto un diario di allenamento nei primi cinque di pedalate. C'erano le foto di Hinault. Una era di lui e Joop Zoeltemelk in fuga sugli Champs-Elysées nel Tour de France del 1979. Correre contro di lui sarebbe stato qualcosa di cui essere orgoglioso a vita. E non sarebbe più stato solo un sogno vedere Bernard Hinault in carne e ossa. Vai a ovest in America. Dimentica l'Italia, dimentica la Francia. Questa è la porta che pensavi ti fosse stata chiusa in faccia. Ci siamo. Dì addio. Stavo impacchettando la bici la sera prima di volare negli Stati Uniti quando il presidente della Titan entrò nella mia stanza e mi disse di non fare le valigie. “Ci andrà qualcun altro al posto tuo”. “Non so il perché.” Sono uscito e da un telefono pubblico ho chiamato Zyama, un maggiore dell'esercito sovietico e il collegamento tra la Titan e l'arma. Dopo essere rientrato dalla Francia, mi ero recato con lui ad una base militare a Kiev dove lessi un giuramento di fedeltà all'Unione Sovietica, firmai un documento ed così ero nell'esercito. Arruolamento obbligatorio per tutti i maschi di 18 anni e oltre. Campione del mondo o meno, ma se lo siete, firmate il giuramento per iniziare il vostro servizio militare e tornate due anni dopo per il congedo. Non ha senso sprecare talenti in Afghanistan. “Non andrò negli Stati Uniti. Sai il perché?” Ho detto quando ha risposto. “No, non lo so. Chiedi ad Elizarov.” “Non è a Kiev. Non è normale. Mi hanno detto di fare i bagagli la mattina e mi hanno lasciato a casa la sera. Non è normale. Puoi scoprire cosa sta succedendo? Sta succedendo qualcosa.” “Che vuoi dire?” disse. “Non ne ho idea”, risposi. “Ecco perché ti ho chiamato. Puoi scoprire cosa sta succedendo o no?” “Chiamami domani.” L'ho chiamato il giorno dopo. Mi disse di aver chiesto in giro e nessuno sapeva niente di specifico. “Un tizio con cui ho parlato ha detto che il tuo passaporto potrebbe essere sospeso”. “Perché?” Gli chiesi. “Qualcosa a che fare con la Kontora. A qualcuno lì non stai a genio. Hai parlato con qualcuno?” “Qualcuno chi?” “Sai chi.” “Sì. Mi hanno preso per strada qualche mese fa. Abbiamo girovagato per Kiev per non so quanto e poi mi hanno lasciato andare subito dopo.” “Cosa hai fatto?” “Niente.” “Non ti avrebbero parlato se non avessi fatto niente.” “Non ho fatto niente.” “Ti ricordi il nome dell'agente?” “No.” “Ascolta, se vuoi il mio aiuto, devi dirmi cosa hai fatto e con chi hai parlato. Potrebbe essere qualcosa di stupido, come che tua nonna era ebrea o qualcosa del genere. Posso rimediare. Sei ebreo?” “Levati dalle palle.” “Devi aver fatto qualcosa se il tuo passaporto è in attesa.” “Tipo cosa?” “Dimmi cosa hai fatto e vedrò cosa posso fare.” “Non so cosa dire.” “Hanno qualcosa su di te. Sei fottuto.” Ho riattaccato, sono tornato in camera mia e ho iniziato a fare le valigie. Ci siamo, ho finito di correre. Torna a Nalchik e scopri cosa fare della mia vita. Vai a Tallinn e diventa un dottore. Possono andare al diavolo con il loro ciclismo. Tallinn è vicina alla Finlandia, troverò la via di uscire da qui in qualche modo. Continua.... www.sportintranslation.com ![]() Dalla radio dell'auto lo speaker annunciò che attualmente vi erano nove gradi Celsius a Mosca e una pioggerellina ghiacciata prevista nel proseguo della giornata. Con questa notizia ci siamo diretti all'Università Statale di Mosca, sede di partenza della cronometro a squadre. Attualmente? Cosa significa? Il sole splenderà quando saremmo usciti dall'auto? Il mio petto era colmo di disgusto per il ciclismo, la pioggerellina, la Mosca bagnata fuori dal finestrino dell'auto e Nikolai Rogozyan. La radio stava ora diffondendo la visione della nuova Unione Sovietica di Mikhail Gorbaciov, appena incaricato dal Politburò della sua costruzione. Era il quarto Segretario Generale del Partito sotto cui vivevo, i tre precedenti erano morti uno dopo l'altro. Eravamo usciti dal sentiero, diceva, il sentiero che il nostro grande Lenin aveva tracciato sessantacinque anni fa. Il sentiero pavimentato con le ossa dei nostri antenati che ci avevano preceduto. Abbiamo marciato lungo questo sentiero, ci siamo distratti, e ora è arrivato il momento di tornare su di esso prima di perdere ciò che avevamo costruito. Perdere cosa? Cosa avevamo costruito? Una prigione per 300 milioni di persone? Fattorie collettive e negozi di alimentari vuoti? Auto che si rompevano prima di lasciare la fabbrica, le stesse che non potevi comprare da nessuna parte tranne il mercato nero? Sì, certo, abbiamo costruito stazioni spaziali e armi nucleari, jet da combattimento, l'AK-47, i sottomarini. Venite a prenderci. Un pozzo prosciugato. Dicci che grande nazione siamo. Chiamaci di nuovo alle armi, lo vogliamo. Se l'America vuole il nostro sangue, venga a prenderselo. Bombardate quei bastardi, cosa stiamo aspettando? Vogliono la guerra? Daremo loro la guerra. Non ne hanno mai avuta una, non una vera sul loro suolo, comunque, non sanno cosa significhi perdere un milione o due di vite in una battaglia. Li spazzeremo via prima che abbiano il tempo di scavare le loro stesse tombe. Morire in guerra, è quello che facciamo, lo adoriamo. Venite, cani, venite e assaggiate. Quando senti l'odore di una rissa, mio fratello mi ha detto la sera prima che iniziassi la prima elementare, non aspettare che ti travolga. Colpisci per primo. Colpisci, non smettere di colpire. La paura, la gente capisce la paura. Ho finito la scuola con le nocche sfregiate per aver rotto i denti agli altri ragazzi. I cani mangiano i cani. Avrei dovuto ascoltare mio padre e rimanere in una scuola di scacchi. Mi ha insegnato a giocare quando avevo sei anni. La domenica mattina correvo nella camera dei miei genitori con una scacchiera, saltavo sul letto di papà e gli chiedevo una partita. Non ha mai rifiutato. Metteva da parte il suo giornale, il Trud, e mi concedeva due partite, una per ogni lato. Parlò con un giocatore professionista che conosceva e iniziai ad andare alle lezioni di scacchi che teneva nel seminterrato di una scuola locale. Mio padre non ha mai mostrato che avesse a cuore i miei interessi, tranne quando ero preso dagli scacchi. “Hai gli scacchi nel sangue”, mi disse mentre ci sedevamo sul suo letto una mattina per giocare. “È un gioco per persone solitarie. Sarai un buon giocatore.” Arrivammo alla zona di partenza recintata da transenne d'acciaio e soldati in impermeabili inzuppati. Le ammiraglie sparse in un largo spiazzo assegnato dalle autorità al gruppo. I corridori, i meccanici e i direttori sportivi si muovevano avanti e indietro tra le auto con le loro giacche a vento blu marina o nere e i berretti bianchi girati all'indietro con la visiera all’insù. Parecchi ragazzi si stavano riscaldando sui rulli. Ho chiuso gli occhi per immaginare come potrebbe andare oggi la gara, come avrebbe potuto svolgersi e i diversi epiloghi. Vicino alla linea di partenza, seduto sulla sella con la schiena ritta, braccia a penzoloni, guardai un grande cronometro Omega. Dieci secondi alla partenza, mi abbassai e afferrai il manubrio per spremerlo con forza per contrarre i muscoli, percepire “ok, pronto” da dentro il tuo corpo. Il cuore inizia a pompare con battiti rumorosi, un colpo, un colpo nelle orecchie e si sente il primo bip, sei secondi alla partenza. Perché proprio sei non l'ho mai saputo, ma quando inizia a trillare, tutto gli altri rumori si zittiscono e tutto ciò che si sente è il bip dell'Omega. Cinque, quattro, tre, due, uno, via. Siamo andati a tutto gas fin dal colpo di pistola. Un buco si è creato davanti a me appena fuori dal cancelletto perché avevo saltato il riscaldamento. In questo congelatore, le mie gambe erano come travi di cemento. Poiché si trattava di una cronometro inserita in una corse a tappe le squadre erano composte da sei corridori invece di quattro. Avrei potuto chiamarmi fuori prima di raggiungere il primo chilometro. Il cronometro si fermava con il quarto corridore oltre la linea, avevamo ancora un uomo di riserva se mi fossi ritirato. Ho immaginato il sorriso subdolo che sarebbe comparso sulla faccia di Rogozyan mentre mi passava in macchina. Ti stai rammollendo, festaiolo? Stasera sarà al telefono con Elizarov per dirgli che sono saltato nei primi trenta secondi di gara. “Oh, e comunque ha passato la notte nessuno sa dove.” Trenta secondi, anche un cadavere durerebbe più di così. Ho abbassato i gomiti, spinto e cercato di non perdere ulteriore terreno. Tra pochi secondi il primo in testa dovrebbe chiedere il cambio e quindi chiudere il buco davanti a me. Sarei stato a ruota un giro o due, mi riscaldavo, entravo in gara e facevo il mio lavoro normalmente. Nessun problema. Rogozyan non si libererà di me oggi. A due chilometri dall'arrivo ho tirato fino all’attacco dell'ultima salita e mi sono fiondato a sinistra dei miei compagni di squadra. Sono fuori ragazzi, arrivederci. Stavo deragliando sulla corona piccola quando Rogozyan mi affiancò con l'auto. I nostri occhi si sono incontrati. “Che diavolo stai guardando?” avevo dipinto in faccia. “Ti avrò in pugno un giorno, bastardo che non sei altro”, lessi sul suo viso. Continua.... www.sportintranslation.com ![]() Dopo aver pranzato, ero in viaggio su un taxi con l'indirizzo di Anton che avevo scarabocchiato su un pezzo di carta quando me lo dettò al telefono. Mi disse di aver lasciato il dormitorio dell'Università e che viveva nell’alloggio del suo fratellastro che non era mai a casa. Il fratellastro lavora nell'industria cinematografica. Passa più tempo sui set che nell'appartamento di Mosca. Chiesi al tassista di fermarsi da qualche parte lungo la strada per comprare una bottiglia. “Cosa cerchi?” mi domandò. Gli raccontai che stavo andando dal mio migliore amico e che mi serviva qualcosa di speciale. “Armyanski konyak?” “Si’”, risposi “cognac armeno”. Non mi portò da nessuna parte per comprare il liquore. Aprì il portaoggetti dell’auto e tirò fuori una bottiglia decorata con lettere armene che ai miei occhi avevano senso quanto degli ideogrammi cinesi. “Oro liquido invecchiato cinque anni”, affermò, impugnando la bottiglia per il collo davanti alla mia faccia. “Dalle cantine del Cremlino.” I tassisti, in tutta la nazione, più intraprendenti vendevano vodka nei loro taxi. I negozi di liquori chiudevano alle sette in punto, non importa dove abitassi. Ma, in un Paese con una pena detentiva per la “speculazione sull'alcol”, si sarebbe potuto comprare l'alcol in qualsiasi momento, bastava sapere dove. I taxi erano una delle molte fonti di alcol fuori orario. Avresti potuto chiamarne uno alle due del mattino, aprire la porta e chiedere all'autista se aveva della vodka a bordo. Il cognac armeno di solito era troppo esclusivo e snob per questo tipo di commercio. D'altra parte questa era Mosca, dove molta gente aveva fatto fortuna. Ho pagato tre volte il prezzo in negozio della bottiglia e l'ho riposta sotto la mia giacca di pelle per tenerla al caldo. Sono sceso di fronte ad un edificio di venti piani fatto di blocchi di cemento. L'entrata aveva una porta di metallo verniciata decenni fa con quella che una volta era una tonalità di blu. Ho aperto la porta e sono entrato in un atrio buio. Un fascio di luce entrava attraverso una finestra sul muro di fronte all'entrata. Puzzava di urina, birra e profumo francese. La porta dell'ascensore era aperta come se qualcuno me lo avesse mandato. Le possibilità che un macchinario sovietico si rompesse a due piani dalla destinazione erano sempre alte. Ho guardato le scale. Per i ciclisti, camminare era già abbastanza ai limiti, salire le scale era verboten, assolutamente vietato. Entrai nell'ascensore e guardai la pulsantiera per trovare il bottone che mi serviva. Avevano tutti un buco da bruciatura di sigaretta al centro che rendeva illeggibile il numero del piano, solo il tasto del tredicesimo piano era stato risparmiato. Con il dito contai altri sei bottoni dal tredicesimo. Che burloni, non hanno sistemato l'ascensore solo per spedire i visitatori al piano sbagliato. Raggiunsi l'appartamento di Anton e suonai il campanello. Dieci secondi dopo aprì la porta. Sorriso, jeans e maglietta. “Entra, entra”, disse, facendo cenno con la mano. Entrai in un appartamento buio, immerso nella nebbia delle sigarette e nell'odore di erba. Mi portò nel luogo sacro di in un appartamento sovietico, la cucina, dove ci si incontra per festicciole e per bere tè. Una tenda copriva tre quarti della finestra lasciando al fumo una via di fuga ed uno spiraglio dove un raggio di luce si intrufolava. Tangerine dei Led Zeppelin era sparata all'interno dell'appartamento. Vidi un grande registratore a bobina piazzato dentro una libreria in soggiorno con un paio di casse a tre vie negli angoli. Un ragazzo e una ragazza erano seduti al tavolo da pranzo di legno in cucina. Il tipo aveva dei lunghi capelli biondi mossi. Cadevano sul suo viso sottile da entrambi i lati come un cappuccio. Portava una barba a coda di rondine che gli allungava la faccia come un chicco di riso. Con la luce soffusa, avvolto nel fumo di sigaretta, potrebbe passare per un santo di un'icona russo-ortodossa. Con il braccio destro alzato, si appoggiava su un gomito impugnando l'articolazione bloccata tra pollice e indice. I suoi occhi azzurri mi guardavano con un calore e benevolenza che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro. “Vuoi fare un tiro?” mi chiese. “Sì, certo”, dissi e afferrai una sedia dal tavolo. La ragazza, ho supposto che fosse la sua fidanzata, sorrideva come se le avessi riferito la migliore notizia possibile della giornata. “Privet! Sono Lena.” Lena era bella come un tramonto, una bellezza angelicata. Un viso classico slavo, rotondo, scolpito da linee dolci e contorniato da una cascata di capelli biondi che cadevano dietro la schiena. I suoi occhi azzurri, grandi come un lago, brillavano al buio. “So chi sei, Kolya”, disse. “Io e Liosha eravamo sul treno con Anton quando ha trovato quell'articolo di giornale su di te e sulle Olimpiadi che hai vinto.” “Campionato del mondo”, borbottai. Lei lo ignorò e io mi maledissi per aver pensato che le importasse o che conoscesse la differenza. Parlava con una voce di seta e ogni parola usciva dalle sue labbra come una nota musicale di cui godere. Aveva un bell'accento moscovita e un sorriso che le rimaneva sul viso anche quando parlava. In meno di due anni Liosha sarebbe andato in overdose di oppio. Lena l'avrebbe seguito dopo poco. Ma questo all'epoca era nel futuro, allora non importava. Fumavamo e parlavamo di filosofia, cristianesimo, esistenzialismo, Buddismo e rock and roll. Loro parlavano. I nomi di Jean Paul Sartre, Hermann Hesse, Jorge Luis Borges, Julio Cortazar e Max Frisch rimbalzavano nella cucina affumicata. Non riuscivo ad entrare nella conversazione e mi dava fastidio. Mi dava fastidio che non avessi letto un libro da anni, anche se leggevo continuamente a scuola. Mi dava fastidio il fatto di conoscere Robert Plant o Eddy Merckx, ma non Borges o Cortazar. Mi dava fastidio che non sapessi neanche chi fosse esattamente Gesù Cristo. Le superstizioni russo-ortodosse e l'ateismo avevano inquinato la mia mente stantia. Portavo una Bibbia nella mia borsa ovunque andassi, ma non era la fonte della conoscenza di Dio, era un feticcio portafortuna. Ne avevo letto dieci o venti pagine da quando Anton me l'aveva regalata un paio di anni fa. Liosha continuava a lanciare le sue frecciatine una dopo l'altra. Il cognac armeno che avevo portato si era dileguato prima di quanto pensassi. A mezzanotte, affrontammo il problema eterno dei sovietici: dove prendiamo altro alcol? Anton disse che conosceva un bar dove avremmo potuto comprare alcolici da un cameriere, ma sarebbe costato una mancia. Erano al verde da due giorni. Dalla mattina avevano mangiato un sacchetto di mele, nient'altro. Gli ultimi dieci rubli li avevano spesi in tre bottiglie di chardonnay, bevute prima che arrivassi. I soldi non sono un problema, portami al bar. Fu quando Lena disse la frase che mi ha accompagnato per anni. Disse: “Kolya può avere tutto, ma non ha nessuno che sia come lui.” Abbiamo riso. In quel momento, proprio allora, non c'era nessuno come me, aveva ragione. Io e Anton abbiamo preso un taxi e cinque minuti dopo siamo scesi di fronte a un edificio vecchio di un secolo con un bar nel seminterrato. Diedi al buttafuori dieci rubli per zittirlo ed entrammo. Il posto era saturo di parolacce proferite da dozzine di ubriachi. Tutti, compreso un barista grasso, fumavano. Si sarebbe potuto lanciare un'ascia in aria e avrebbe galleggiato nel fumo di sigaretta. Io e Anton discutemmo su chi avrebbe chiesto dell'alcol a un cameriere. “Io pago e tu parli come concordato” e lui mi fece notare la giacca di pelle che indossavo che mi faceva sembrare un gangster. “Ferma un cameriere e digli cosa vuoi”. “Parla come è nostra abitudine nel Caucaso settentrionale. Abbiamo una certa reputazione qui”. Corrotto da cima a fondo, il Caucaso settentrionale era famoso per il traffico di droga e le bande di criminali. Se vieni dal Caucaso del Nord la gente di solito pensa che tu sia un fuorilegge, non scendi a patti, non ragioni e probabilmente sei armato. Qualcuno da evitare, se non cercate problemi. “Tieni una mano nella giacca”. “Il coglione si piscerà addosso pensando che tu abbia una pistola in tasca.” Lo guardai per capire se fosse serio e ridemmo di nuovo, i bambini non crescono mai. Non ho dovuto inseguire un cameriere in giro per il bar, uno ci approcciò e ci chiese cosa volessimo. Tirai fuori un biglietto da 50 rubli per infilarglielo nella tasca della camicia e gli chiesi se aveva un paio di bottiglie di cognac decenti da qualche parte che prendevano polvere. Uscimmo con due bottiglie di brandy Napoléon e tornammo a casa di Anton a piedi per schiarirci le idee e parlare. Facemmo delle soste al parco giochi e su alcune panchine del tutto a caso sulla via del ritorno bevendo dalla bottiglia a turno e parlammo. Venni a conoscenza dei festival cinematografici e della proiezione di film proibiti a cui Anton aveva assistito attraverso i contatti nel settore di suo fratello. Mi parlò di Tarkovskij, Fellini e Buñuel come se avesse cenato con loro la sera precedente. Eccitato, mi chiedeva se avessi visto questo o quel film. La risposta era sempre la stessa: “no, mai sentito nominare”. “Oh, cavolo”, sospirava, dovresti vedere questo o quello. Gli chiesi se gli mancasse il ciclismo e mi disse che gli mancava il divertimento e il cazzeggio intorno ad esso, ma non l'allenamento e le corse. “Quelle cadute, amico, no grazie”. Tre anni prima, in discesa, si era schiantato di fronte a me contro una macchina parcheggiata. La sua bici mi era volata sopra la testa, lui atterrò sull'asfalto e sembrava che non si sarebbe mai rialzato. Eravamo vicino al suo appartamento quando mi disse: “Perché non ti trasferisci a Mosca?” “Perché?” “Amico, non hai idea di quanto sia figo questo posto.” “Certo“, dissi. “Una Parigi russa.” “Non conosco Parigi. Mosca è una bomba.” “Mi caccerebbero dalla Titan se lasciassi Kiev.” “Titan shmitan. Dimentica quella fottuta Titan. Ricordi cosa ci ha detto Trumheller?” “Cosa?” “Prepara il tuo piano B. Domani cadi e il ciclismo per te è finito. Qual è il tuo piano B?” “Amico, non sono sicuro di avere un piano A, tanto meno uno B.” “Esattamente. È perché sei stupido. Pensi che gareggerai per sempre e quei cretini della Titan si prenderanno cura di te per tutta la vita. Sbagliato. Ti guardano e vedono una macchina senza cervello con due gambe per spingere sui pedali. Sei una macchina senza cervello, fratello?” “Mi piacerebbe pensare di no, ma sei tu il veggente, lo sai bene.” “Non sono un veggente. Tra dieci anni ti guarderai indietro e dirai, merda, avrei dovuto mollare nel 1985, quando ero giovane.” “E perché dovrei dirlo?” “Perché cosa succede se, Dio non voglia, domani cadi e non riesci più a correre?” Cosa farai?” “Io non cado in quella maniera.” “Certo che no. Sei fatto di acciaio, vero?” “Qualcosa del genere.” “Senti, c’è una scuola in specializzazione post laurea in medicina dello sport a Tallinn. Corso di due anni. Trasferimento da Kiev a Mosca, finisci l'Università qui e poi vai a Tallinn. Puoi rimanere lì dopo la laurea se vuoi o puoi tornare a Mosca. Lascia che siano gli ucraini puzzolenti a vivere nella tua puzzolente Kiev. Che ne dici come piano B?” “Impressionante. Adoro la parte della medicina. Non riesco a distinguere la chimica dalla fisica e tu vuoi che studi medicina?” “Medicina sportiva. Lavorerai con atleti e altri idioti. Somministragli la vitamina C, digli che li renderà più forti e, voilà, sono più forti. Non è che curerai i malati di cancro. Gli atleti, gli shmos.” Era fatto così, creare piani per entrambi era da lui. Ha fatto piani che non ho mai seguito. Liosha era da solo in cucina quando tornammo con l'ultima bottiglia di brandy. Due siringhe riutilizzabili erano posate sul tavolo riempite a metà con del liquido marrone. Oppio cotto in casa. “Ho preparato questo per voi ragazzi”. “Lena è andata a letto, voglio andarci anche io. Divertitevi” Con cronometro a squadre di 50 chilometri da correre il mattino dopo dissi che per me era meglio tornare al Krylatskoye. I primi raggi di sole facevano capolino da dietro le nuvole quando respirai l'aria di strada satura delle fredde goccioline della pioggerella mattutina. Anton mi accompagnò sulla strada principale per prendere un taxi. Un letto caldo in questo momento sarebbe stato il paradiso. Camminavamo in silenzio e guardavamo l'asfalto umido e gli edifici in cemento e le strade vuote e i corvi che zampettavano sull'erba e si mandavano messaggi gracchianti. “Dai, torniamo indietro, dormi sul divano”, disse Anton. “Digli che sei malato. Cammini come se qualcuno ti avesse sparato.” Abbiamo aspettato mezz'ora per un taxi e ci siamo arresi. Un autobus per la metropolitana e un altro autobus funzionarono alla bisogna. Mi intrufolai nella mia stanza senza far scattare l'allarme. Il mio compagno di stanza era già sveglio, si stava lavando i denti in bagno, nudo. “Sembri morto”, disse, fissandomi dallo specchio sul muro di fronte a lui. “Rogozyan era qui cinque minuti fa. Gli ho detto che eri andato a fare una passeggiata.” “Cosa ha detto?” “Niente. Sembra che nel tuo letto non ci abbia dormito nessuno. L'ha visto.” “Esci dal bagno”, gli dissi. “Ho bisogno di una doccia.” “Puzzi come se avessi passato la notte in una fabbrica di tabacco”, disse e se ne andò. Nikolai Rogozyan, il secondo nella gerarchia della Titan, non dimostrò di sospettare in alcun modo che avessi commesso alcun peccato quando lo vidi fuori mentre riforniva l’ammiraglia di cibo e pezzi di ricambio. Con Yuri Elizarov a Kiev per lavoro, aveva il potere di cacciarmi dalla corsa e far finire la mia carriera se mi avesse beccato a fare qualcosa di sbagliato. Si comportava come se il suo unico obiettivo nella vita fosse quello di beccarci in un atto di violazione della disciplina della Titan. Non girare la chiave nella serratura la notte, in modo che Rogozyan controlli se sei dentro o fuori. Ci incatenerebbe alle bici se potesse, costruirebbe una staccionata verso il mondo esterno e ci farebbe pensare solo alle corse. Per vederti soffrire si accostava con la macchina, ti guardava negli occhi e sorrideva. Rogozyan era un Pinochet che faceva credere di essere tuo amico per poi strangolarti nel momento in cui commettevi uno sbaglio. “Hai dormito bene stanotte?” mi chiese mentre gli passavo la bici per metterla sul tetto dell'ammiraglia. “Seh.” “Sono passato stamattina e non ti ho visto in camera tua.” “Sono andato a fare una passeggiata.” Continua.... www.sportintranslation.com Notte prima della gara Nikolai e Anton Dopo aver pranzato ero in viaggio su un taxi con l'indirizzo di Anton che avevo scarabocchiato su un pezzo di carta quando me lo dettò al telefono. Mi disse di aver lasciato il dormitorio dell'Università e che viveva nell’alloggio del suo fratellastro che non era mai a casa. Il fratellastro lavora nell'industria cinematografica. Passa più tempo sui set che nell'appartamento di Mosca. Chiesi al tassista di fermarsi da qualche parte lungo la strada per comprare una bottiglia. “Cosa cerchi?” mi domandò. Gli raccontai che stavo andando dal mio migliore amico e che mi serviva qualcosa di speciale. “Armyanski konyak?” “Si’”, risposi “cognac armeno”. Non mi portò da nessuna parte per comprare il liquore. Aprì il portaoggetti dell’auto e tirò fuori una bottiglia decorata con lettere armene che ai miei occhi avevano senso quanto degli ideogrammi cinesi. “Oro liquido invecchiato cinque anni”, affermò, impugnando la bottiglia per il collo davanti alla mia faccia. “Dalle cantine del Cremlino.” I tassisti, in tutta la nazione, più intraprendenti vendevano vodka nei loro taxi. I negozi di liquori chiudevano alle sette in punto, non importa dove abitassi. Ma, in un Paese con una pena detentiva per la “speculazione sull'alcol”, si sarebbe potuto comprare l'alcol in qualsiasi momento, bastava sapere dove. I taxi erano una delle molte fonti di alcol fuori orario. Avresti potuto chiamarne uno alle due del mattino, aprire la porta e chiedere all'autista se aveva della vodka a bordo. Il cognac armeno di solito era troppo esclusivo e snob per questo tipo di commercio. D'altra parte questa era Mosca, dove molta gente aveva fatto fortuna. Ho pagato tre volte il prezzo in negozio della bottiglia e l'ho riposta sotto la mia giacca di pelle per tenerla al caldo. Sono sceso di fronte ad un edificio di venti piani fatto di blocchi di cemento. L'entrata aveva una porta di metallo verniciata decenni fa con quella che una volta era una tonalità di blu. Ho aperto la porta e sono entrato in un atrio buio. Un fascio di luce entrava attraverso una finestra sul muro di fronte all'entrata. Puzzava di urina, birra e profumo francese. La porta dell'ascensore era aperta come se qualcuno me lo avesse mandato. Le possibilità che un macchinario sovietico si rompesse a due piani dalla destinazione erano sempre alte. Ho guardato le scale. Per i ciclisti, camminare era già abbastanza ai limiti, salire le scale era verboten, assolutamente vietato. Entrai nell'ascensore e guardai la pulsantiera per trovare il bottone che mi serviva. Avevano tutti un buco da bruciatura di sigaretta al centro che rendeva illeggibile il numero del piano, solo il tasto del tredicesimo piano era stato risparmiato. Con il dito contai altri sei bottoni dal tredicesimo. Che burloni, non hanno sistemato l'ascensore solo per spedire i visitatori al piano sbagliato. Raggiunsi l'appartamento di Anton e suonai il campanello. Dieci secondi dopo aprì la porta. Sorriso, jeans e maglietta. “Entra, entra”, disse, facendo cenno con la mano. Entrai in un appartamento buio, immerso nella nebbia delle sigarette e nell'odore di erba. Mi portò nel luogo sacro di in un appartamento sovietico, la cucina, dove ci si incontra per festicciole e per bere tè. Una tenda copriva tre quarti della finestra lasciando al fumo una via di fuga ed uno spiraglio dove un raggio di luce si intrufolava. Tangerine dei Led Zeppelin era sparata all'interno dell'appartamento. Vidi un grande registratore a bobina piazzato dentro una libreria in soggiorno con un paio di casse a tre vie negli angoli. Un ragazzo e una ragazza erano seduti al tavolo da pranzo di legno in cucina. Il tipo aveva dei lunghi capelli biondi mossi. Cadevano sul suo viso sottile da entrambi i lati come un cappuccio. Portava una barba a coda di rondine che gli allungava la faccia come un chicco di riso. Con la luce soffusa, avvolto nel fumo di sigaretta, potrebbe passare per un santo di un'icona russo-ortodossa. Con il braccio destro alzato, si appoggiava su un gomito impugnando l'articolazione bloccata tra pollice e indice. I suoi occhi azzurri mi guardavano con un calore e benevolenza che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro. “Vuoi fare un tiro?” mi chiese. “Sì, certo”, dissi e afferrai una sedia dal tavolo. La ragazza, ho supposto che fosse la sua fidanzata, sorrideva come se le avessi riferito la migliore notizia possibile della giornata. “Privet! Sono Lena.” Lena era bella come un tramonto, una bellezza angelicata. Un viso classico slavo, rotondo, scolpito da linee dolci e contorniato da una cascata di capelli biondi che cadevano dietro la schiena. I suoi occhi azzurri, grandi come un lago, brillavano al buio. “So chi sei, Kolya”, disse. “Io e Liosha eravamo sul treno con Anton quando ha trovato quell'articolo di giornale su di te e sulle Olimpiadi che hai vinto.” “Campionato del mondo”, borbottai. Lei lo ignorò e io mi maledissi per aver pensato che le importasse o che conoscesse la differenza. Parlava con una voce di seta e ogni parola usciva dalle sue labbra come una nota musicale di cui godere. Aveva un bell'accento moscovita e un sorriso che le rimaneva sul viso anche quando parlava. In meno di due anni Liosha sarebbe andato in overdose di oppio. Lena l'avrebbe seguito dopo poco. Ma questo all'epoca era nel futuro, allora non importava. Fumavamo e parlavamo di filosofia, cristianesimo, esistenzialismo, Buddismo e rock and roll. Loro parlavano. I nomi di Jean Paul Sartre, Hermann Hesse, Jorge Luis Borges, Julio Cortazar e Max Frisch rimbalzavano nella cucina affumicata. Non riuscivo ad entrare nella conversazione e mi dava fastidio. Mi dava fastidio che non avessi letto un libro da anni, anche se leggevo continuamente a scuola. Mi dava fastidio il fatto di conoscere Robert Plant o Eddy Merckx, ma non Borges o Cortazar. Mi dava fastidio che non sapessi neanche chi fosse esattamente Gesù Cristo. Le superstizioni russo-ortodosse e l'ateismo avevano inquinato la mia mente stantia. Portavo una Bibbia nella mia borsa ovunque andassi, ma non era la fonte della conoscenza di Dio, era un feticcio portafortuna. Ne avevo letto dieci o venti pagine da quando Anton me l'aveva regalata un paio di anni fa. Liosha continuava a lanciare le sue frecciatine una dopo l'altra. Il cognac armeno che avevo portato si era dileguato prima di quanto pensassi. A mezzanotte, affrontammo il problema eterno dei sovietici: dove prendiamo altro alcol? Anton disse che conosceva un bar dove avremmo potuto comprare alcolici da un cameriere, ma sarebbe costato una mancia. Erano al verde da due giorni. Dalla mattina avevano mangiato un sacchetto di mele, nient'altro. Gli ultimi dieci rubli li avevano spesi in tre bottiglie di chardonnay, bevute prima che arrivassi. I soldi non sono un problema, portami al bar. Fu quando Lena disse la frase che mi ha accompagnato per anni. Disse: “Kolya può avere tutto, ma non ha nessuno che sia come lui.” Abbiamo riso. In quel momento, proprio allora, non c'era nessuno come me, aveva ragione. Io e Anton abbiamo preso un taxi e cinque minuti dopo siamo scesi di fronte a un edificio vecchio di un secolo con un bar nel seminterrato. Diedi al buttafuori dieci rubli per zittirlo ed entrammo. Il posto era saturo di parolacce proferite da dozzine di ubriachi. Tutti, compreso un barista grasso, fumavano. Si sarebbe potuto lanciare un'ascia in aria e avrebbe galleggiato nel fumo di sigaretta. Io e Anton discutemmo su chi avrebbe chiesto dell'alcol a un cameriere. “Io pago e tu parli come concordato” e lui mi fece notare la giacca di pelle che indossavo che mi faceva sembrare un gangster. “Ferma un cameriere e digli cosa vuoi”. “Parla come è nostra abitudine nel Caucaso settentrionale. Abbiamo una certa reputazione qui”. Corrotto da cima a fondo, il Caucaso settentrionale era famoso per il traffico di droga e le bande di criminali. Se vieni dal Caucaso del Nord la gente di solito pensa che tu sia un fuorilegge, non scendi a patti, non ragioni e probabilmente sei armato. Qualcuno da evitare, se non cercate problemi. “Tieni una mano nella giacca”. “Il coglione si piscerà addosso pensando che tu abbia una pistola in tasca.” Lo guardai per capire se fosse serio e ridemmo di nuovo, i bambini non crescono mai. Non ho dovuto inseguire un cameriere in giro per il bar, uno ci approcciò e ci chiese cosa volessimo. Tirai fuori un biglietto da 50 rubli per infilarglielo nella tasca della camicia e gli chiesi se aveva un paio di bottiglie di cognac decenti da qualche parte che prendevano polvere. Uscimmo con due bottiglie di brandy Napoléon e tornammo a casa di Anton a piedi per schiarirci le idee e parlare. Facemmo delle soste al parco giochi e su alcune panchine del tutto a caso sulla via del ritorno bevendo dalla bottiglia a turno e parlammo. Venni a conoscenza dei festival cinematografici e della proiezione di film proibiti a cui Anton aveva assistito attraverso i contatti nel settore di suo fratello. Mi parlò di Tarkovskij, Fellini e Buñuel come se avesse cenato con loro la sera precedente. Eccitato, mi chiedeva se avessi visto questo o quel film. La risposta era sempre la stessa: “no, mai sentito nominare”. “Oh, cavolo”, sospirava, dovresti vedere questo o quello. Gli chiesi se gli mancasse il ciclismo e mi disse che gli mancava il divertimento e il cazzeggio intorno ad esso, ma non l'allenamento e le corse. “Quelle cadute, amico, no grazie”. Tre anni prima, in discesa, si era schiantato di fronte a me contro una macchina parcheggiata. La sua bici mi era volata sopra la testa, lui atterrò sull'asfalto e sembrava che non si sarebbe mai rialzato. Eravamo vicino al suo appartamento quando mi disse: “Perché non ti trasferisci a Mosca?” “Perché?” “Amico, non hai idea di quanto sia figo questo posto.” “Certo“, dissi. “Una Parigi russa.” “Non conosco Parigi. Mosca è una bomba.” “Mi caccerebbero dalla Titan se lasciassi Kiev.” “Titan shmitan. Dimentica quella fottuta Titan. Ricordi cosa ci ha detto Trumheller?” “Cosa?” “Prepara il tuo piano B. Domani cadi e il ciclismo per te è finito. Qual è il tuo piano B?” “Amico, non sono sicuro di avere un piano A, tanto meno uno B.” “Esattamente. È perché sei stupido. Pensi che gareggerai per sempre e quei cretini della Titan si prenderanno cura di te per tutta la vita. Sbagliato. Ti guardano e vedono una macchina senza cervello con due gambe per spingere sui pedali. Sei una macchina senza cervello, fratello?” “Mi piacerebbe pensare di no, ma sei tu il veggente, lo sai bene.” “Non sono un veggente. Tra dieci anni ti guarderai indietro e dirai, merda, avrei dovuto mollare nel 1985, quando ero giovane.” “E perché dovrei dirlo?” “Perché cosa succede se, Dio non voglia, domani cadi e non riesci più a correre?” Cosa farai?” “Io non cado in quella maniera.” “Certo che no. Sei fatto di acciaio, vero?” “Qualcosa del genere.” “Senti, c’è una scuola in specializzazione post laurea in medicina dello sport a Tallinn. Corso di due anni. Trasferimento da Kiev a Mosca, finisci l'Università qui e poi vai a Tallinn. Puoi rimanere lì dopo la laurea se vuoi o puoi tornare a Mosca. Lascia che siano gli ucraini puzzolenti a vivere nella tua puzzolente Kiev. Che ne dici come piano B?” “Impressionante. Adoro la parte della medicina. Non riesco a distinguere la chimica dalla fisica e tu vuoi che studi medicina?” “Medicina sportiva. Lavorerai con atleti e altri idioti. Somministragli la vitamina C, digli che li renderà più forti e, voilà, sono più forti. Non è che curerai i malati di cancro. Gli atleti, gli shmos.” Era fatto così, creare piani per entrambi era da lui. Ha fatto piani che non ho mai seguito. Liosha era da solo in cucina quando tornammo con l'ultima bottiglia di brandy. Due siringhe riutilizzabili erano posate sul tavolo riempite a metà con del liquido marrone. Oppio cotto in casa. “Ho preparato questo per voi ragazzi”. “Lena è andata a letto, voglio andarci anche io. Divertitevi” Con cronometro a squadre di 50 chilometri da correre il mattino dopo dissi che per me era meglio tornare al Krylatskoye. I primi raggi di sole facevano capolino da dietro le nuvole quando respirai l'aria di strada satura delle fredde goccioline della pioggerella mattutina. Anton mi accompagnò sulla strada principale per prendere un taxi. Un letto caldo in questo momento sarebbe stato il paradiso. Camminavamo in silenzio e guardavamo l'asfalto umido e gli edifici in cemento e le strade vuote e i corvi che zampettavano sull'erba e si mandavano messaggi gracchianti. “Dai, torniamo indietro, dormi sul divano”, disse Anton. “Digli che sei malato. Cammini come se qualcuno ti avesse sparato.” Abbiamo aspettato mezz'ora per un taxi e ci siamo arresi. Un autobus per la metropolitana e un altro autobus funzionarono alla bisogna. Mi intrufolai nella mia stanza senza far scattare l'allarme. Il mio compagno di stanza era già sveglio, si stava lavando i denti in bagno, nudo. “Sembri morto”, disse, fissandomi dallo specchio sul muro di fronte a lui. “Rogozyan era qui cinque minuti fa. Gli ho detto che eri andato a fare una passeggiata.” “Cosa ha detto?” “Niente. Sembra che nel tuo letto non ci abbia dormito nessuno. L'ha visto.” “Esci dal bagno”, gli dissi. “Ho bisogno di una doccia.” “Puzzi come se avessi passato la notte in una fabbrica di tabacco”, disse e se ne andò. Nikolai Rogozyan, il secondo nella gerarchia della Titan, non dimostrò di sospettare in alcun modo che avessi commesso alcun peccato quando lo vidi fuori mentre riforniva l’ammiraglia di cibo e pezzi di ricambio. Con Yuri Elizarov a Kiev per lavoro, aveva il potere di cacciarmi dalla corsa e far finire la mia carriera se mi avesse beccato a fare qualcosa di sbagliato. Si comportava come se il suo unico obiettivo nella vita fosse quello di beccarci in un atto di violazione della disciplina della Titan. Non girare la chiave nella serratura la notte, in modo che Rogozyan controlli se sei dentro o fuori. Ci incatenerebbe alle bici se potesse, costruirebbe una staccionata verso il mondo esterno e ci farebbe pensare solo alle corse. Per vederti soffrire si accostava con la macchina, ti guardava negli occhi e sorrideva. Rogozyan era un Pinochet che faceva credere di essere tuo amico per poi strangolarti nel momento in cui commettevi uno sbaglio. “Hai dormito bene stanotte?” mi chiese mentre gli passavo la bici per metterla sul tetto dell'ammiraglia. “Seh.” “Sono passato stamattina e non ti ho visto in camera tua.” “Sono andato a fare una passeggiata.” Continua.... www.sportintranslation.com . ![]() Nel 1985 cadde il quarantesimo anniversario della vittoria nella seconda guerra mondiale sulla Germania nazista. Per la prima e l'unica volta della sua storia la Corsa della Pace iniziava a Mosca. Simbolicamente, e di proposito, la gara sarebbe finita a Berlino. Era una sceneggiatura scritta per la squadra sovietica che avrebbe distrutto i tedeschi. Maggio 1945, la versione ciclistica. Sulla carta eravamo amici dei tedeschi. Alleati del Patto di Varsavia, compagni comunisti e tutto quello che ne consegue. In pratica, nessun nemico era più odiato da noi dei fascisti. L'odio per i tedeschi era, ed è ancora, profondo nella psiche russa. Quello che ci hanno fatto in guerra, nessuno lo dimenticherà mai. Cresci imparando che vi sono dei mostri ad ovest del nostro confine. Bestie che ci hanno attaccato senza preavviso nel 1941 e ucciso trenta milioni dei nostri uomini e donne. Sorridiamo e ci diamo pacche sulle spalle a vicenda ora, senza rancore, a parte ordinarci di inseguirli. Ci ordinano di dare loro un'altra lezione e di ricordargli di non venire qui se non in pace. Chiamala Corsa della Pace. Lascia che ci credano. Kapitonov, per quella occasione, dovette costruire una squadra di ferro. Inserirono anche una crono-squadre a Mosca per assicurare la classifica a squadre all'URSS fin dalla prima tappa. All'inizio della stagione mi dissero di tenermi fuori dalla lotta tra cani per la Corsa della Pace. Troppo giovane ed inesperto, non avrei avuto alcuna possibilità di essere selezionato. Mi concentrai, invece, ancora una volta, sulla crono-squadre. Chi era in lizza per la Corsa della Pace sarebbe andato a una serie di gare in Germania e Olanda. Ho visto il mio nome sulla lista di chi sarebbe andato in Germania. Tre giorni prima della partenza mi dissero che non sarei rimasto a casa. Andarono in Germania e quindi in Inghilterra per la Milk Race senza di me. Le prime due le ho mancate, ho pensato: va bene, non sono al mio massimo. Il protocollo standard era di far maturare i giovani attraverso un programma di corse a tappe. Nessuno mi spiegò perché ero stato escluso, quindi mi dissero di non preoccuparmi per i mondiali. Calmati, è solo la tua prima stagione ai massimi livelli, quello che mi dissero. A metà estate arrivò un invito dalla Coors Classic, America. I pezzi grossi erano impegnati a prepararsi per i mondiali in Italia e rimasero in Lituania ad allenarsi. “Fai bagagli e preparati a gareggiare contro Bernard Hinault e Greg Lemond”, mi dissero, “che andrai negli Stati Uniti”. La sera prima di partire, il presidente della Titan mi disse che mi avevano scambiato con un altro all'ultimo minuto. Qualcosa non andava. Chiamai Zyama, il nostro collegamento militare tra la Titan e l'esercito, per scoprire cosa stesse succedendo. “Il tuo passaporto è sospeso”, mi disse. “Non lo hai saputo da me, capito? Ma ho fatto delle ricerche, ho chiesto a dei contatti al dipartimento dei servizi segreti e ho saputo, beh… sei fottuto. Hanno qualcosa su di te, non so cosa, ma sei fottuto.” Non andare alla Coors Classic mi ha fatto perdere la voglia di correre. Tutta questa storia del ciclismo, falla finita e vattene sbattendo la porta. È iniziato tutto andando in giro per Kiev con Bodgan e ora questo. Tutto bloccato. In gabbia. Se vuoi uscirne, continua a bussare alle pareti. Potresti trovare un buco dove passare. In aprile, dopo la corsa a tappe di Sochi, volammo a Mosca per le prove della Corsa della Pace. Le autorità avevano chiuso parti della città come se si trattasse della vera Corsa della Pace e noi ne avremmo corso in anteprima tutte le tappe. Viktor Kapitonov aveva già scelto la squadra a Sochi, ma si era riservato di apportare modifiche. Uno o due candidati che speravano ancora di farcela ebbero un'ultima possibilità di dimostrare che meritavano un posto nella squadra per la Corsa della Pace. Ad eccezione dei corridori selezionati, tutti i membri della squadra nazionale gareggiavano per le loro squadre societarie. Per me era la Titan. Uno dei nostri ragazzi, Sergei Gavrilko, una eterna promessa per la Corsa della Pace, aveva la possibilità di essere selezionato in extremis. Uno dei migliori corridori a tappe del Paese, aveva fallito anno dopo anno di far parte della squadra per la Corsa della Pace. Gli piaceva correre la sua corsa e non si preoccupava degli ordini di squadra. Il suo atteggiamento da attaccante, e il suo carattere che non sia arrendeva mai, gli fecero guadagnare rispetto, ma il solo rispetto non poteva comprargli un biglietto per la Corsa della Pace. Ne avrebbe avuto per tutti, se solo qualcuno si fosse lamentato delle sue intemperanze in gara. La sua tattica non permetteva a Kapitonov di fidarsi di lui, uno che ballava da solo, per vincere la Corsa della Pace: un buon corridore con probabilità di farcela prossime allo zero. Non che fosse egoista o avido. A volte, la voglia di fare la sua gara era più forte del piano di gara di squadra. Nessuno sapeva quando avrebbe avuto uno di questi giorni. A Mosca il mio lavoro sarebbe stato tenere d'occhio le fughe e tamponare tutte quelle dove non c'era dentro Sergei Gavrilko. Chiamai Anton dall'Hotel Krylatskoye non appena feci il check-in. Dopo aver conseguito la laurea in scienze due mesi prima era in città. È ora di beccarci dopo il nostro viaggio a Sochi di otto mesi fa. Il telefono squillò in una marea di drin prima che il “Pronto” familiare borbottasse all'altro capo della linea. Raffigurandomi Leonid Brezhnev, il fu dittatore sovietico sotto cui siamo cresciuti, gli dissi: “È una flotta di torpediniere?” “Forse”, rispose stando al gioco. “Non ne ho idea”. “Voglio parlare con il Maresciallo Ustinov”, proseguii. Ustinov, ministro della difesa e amico di Brezhnev erano morti. Abbiamo riso. Ridevamo sempre dei nostri stupidi scherzi. “Non sei a Mosca, vero?” disse. Gli dissi che ero in città e avremmo potuto vederci questo pomeriggio, dopo aver completato alcuni giri di perlustrazione del circuito di Krylatskoye. Cinque anni prima, allora eravamo due ragazzini di quattordici e sedici anni, avevano guardato la gara su strada delle Olimpiadi di Mosca a casa di mia sorella. Era l'unica persona che conoscevamo che possedesse un televisore a colori. Ci avrebbe lasciato guardare la diretta, se avessimo promesso di non svegliare il figlio appena nato. Quello che è successo quel giorno sulla strada fa ora parte della leggenda del ciclismo su strada dell'era sovietica: Sergei Soukhoruchenkov distrusse il gruppo e conseguì una vittoria epica. Ho sentito commenti su quanto fosse senza senso il circuito. Costruito da un’ingegnera femminista, il suo scopo era quello di affliggere gli uomini il più possibile. Nel corso degli anni ha assunto uno status mitico perché nessun ciclista di alto livello vi ha più corso dalla fine dei Giochi. Tutti avevano sentito che il circuito fosse senza senso, ma quanto male facesse, nessuno lo sapeva. Ho messo le ruote da gara e sono andato a farci un giro. Avevano tenuto il circuito chiuso al traffico per anni. Un sottile strato di polvere e sabbia copriva la sua superficie. Sono scivolato in una curva, ma sono rimasto in piedi. Mi sono fermato e ho sgonfiato un po' le gomme e ho continuato la mia ricognizione. Hanno costruito questa strada con in mente una rissa. Tu contro tutti gli altri. Tu contro la strada. Se avesse piovuto, come poi effettivamente accade, sarebbe diventata una pista di pattinaggio. Sarebbe stato un buon risultato anche solo arrivare al traguardo tutto intero. ![]() Mentre mi crogiolavo al sole e percorrevo facili chilometri in Crimea, ricevetti la notizia che ero stato convocato per la prima squadra della nazionale. Tre settimane più tardi avrei pedalato a fianco dei giganti del ciclismo sovietico. Questo era il gradino più alto della scala, non si poteva raggiungere nessuna vetta più alta, ero in cima. Solo un anno fa ero seduto alla riunione della Titan e ascoltavo Yuri Elizarov parlare del suo piano per la medaglia d'oro. La porta verso la nazionale élite e le Olimpiadi del 1988. Ed eccomi qui, all'Hotel Primorskaya, a parlare con una receptionist e spiegarle il motivo del mio soggiorno. “Oh,” disse sorridendo, “tu devi essere uno dei ragazzi di Viktor Arsentyevich. Vediamo in che stanza sei.” Mi consegnò le chiavi della mia stanza e aggiunse: “Meglio che tu corra al ristorante, la colazione è già iniziata. Viktor Arsentyevich è una persona molto puntuale.” Viktor Kapitonov, o Viktor Arsentyevich per coloro il cui solo nome di battesimo non dica nulla, è stato uno dei grandi dello sport sovietico e una leggenda del ciclismo. Il dramma e il trionfo della corsa olimpica del 1960 diede inizio al dominio dell'Unione Sovietica tra i dilettanti. La gente parlava dell'era pre e post-Kapitonov, di quello che abbiamo fatto e di come abbiamo fatto le cose prima e dopo Roma. Ha scritto il primo libro che abbia mai letto sul ciclismo in cui raccontava la sua vittoria olimpica. Pedalando nelle colline nel Caucaso settentrionale, dove sono cresciuto, mi piaceva immaginarmi mentre correvo quella gara. Scivolare nei panni di Kapitonov e sognare ad occhi aperti di affrontare Livio Trapè tra le mura dei boati dei tifosi [in italiano anche nella versione originale, NdT]. Avrei trovato il modo di sconfiggere il nemico perché conoscevo ogni dettaglio di quella gara. Qual era il piano, come tutto fosse andato storto. Come gli Italiani avessero annientato tutti. Come Kapitonov portò Trapè sulla linea del traguardo, fece un errore e sprintò per la volata con un giro di anticipo. Come Trapè attaccò a sua volta quando vide quanto idiota fosse Kapitonov. L'inseguimento, l'aggancio, il secondo sprint, quello vero, quello che contava, e poi la vittoria. Il monumento e l'orgoglio del mio sport, del mio Paese e del nostro sistema. A ripensarla decine di volte, quella gara ha smesso di essere reale e si è trasformata in un film visto al cinema. L'eroe, sapevo che era reale, era da qualche parte, ma la possibilità di incontrarlo, per non parlare di lavorare con lui, era nulla. Si ritirò nel 1965 e prese il controllo della nazionale facendo diventare l'Unione Sovietica la nazione più importante del ciclismo. Il suo palmares: tre medaglie d'oro olimpiche nella cronometro a squadre dal 1972 al 1980. Tra campionati del mondo e giochi olimpici, la cento chilometri a squadre divenne il marchio di fabbrica dei sovietici. A partire dalla metà degli anni settanta e fino agli anni ottanta, gli uomini in maglia rossa CCCP dominarono anche la Corsa della Pace. Guardare in televisione quattro di loro che andavano in fuga nel 1984 per suggellare la seconda vittoria di Sergey Soukhorouchenkov fu un'emozione indimenticabile. Quando entrai nel ristorante del Primorskaya quella mattina, varcai la soglia di una stanza affollata dai più grandi corridori dell'epoca. Due campioni olimpici e cinque del mondo, ragazzi che avevo visto in TV o di cui avevo letto sui giornali. La porta di legno si aprì su di una sala con il soffitto alto dalle pareti bianche, illuminata da finestre alte come un uomo. La tovaglia bianca ricamata che arrivava fino al pavimento pendeva dai tavoli. I ciclisti sedevano a due o tre a tavola sul lato opposto della stanza chiacchierando mentre erano intenti a mangiare dal loro piatto. Non c'era nessun altro nel ristorante. Quando la squadra nazionale era a tavola gli altri clienti non potevano mangiare al Primorskaya. Mi bloccai e passai in rassegna i tavoli in cerca di uno vuoto a cui sedermi. Alcuni ragazzi mi guardarono mentre continuavano a parlare e a masticare. Due o tre mi guardavano con lo sguardo che diceva “chi-è-questo-buffone”. Gli sguardi bruciarono la mia pelle e i miei occhi saltarono da un volto all'altro, alla fine della stanza, al pavimento e alle finestre. Qualcuno mi stava guardando. Il volto mi era familiare dalle trasmissioni sulla Corsa della Pace: Yuri Kashirin, un campione olimpico e mondiale. Annuì con il mento rivolto verso il tavolo a cui era seduto con un tipo che non avevo mai visto prima. Mi sono diretto verso il suo tavolo e mi sono impossessato immediatamente di una sedia. “Yura”, si presentò e mi porse la mano. “Kolya”, mi presentai a mia volta, gli strinsi la mano e guardai l'altro tizio per sapere come si chiamasse “Quanti anni hai, figliolo? “disse. “Diciotto.” Si rivolse a Kashirin e disse: “È legale?” “Legale cosa?” Kashirin chiese. “Portare bambini diciottenni in nazionale.” “Sono sicuro che compirà 19 anni l'anno prossimo, giusto?” Disse Kashirin osservandomi. “È questo il piano”, dissi. “Di che squadra sei?” disse l'altro. “Titan.” “Vi cucinano a decine in Ucraina, vero?” mi chiese. “Non sono ucraino. Vengo dal Caucaso settentrionale”, fu la mia risposta. “Caucaso settentrionale? Dove esattamente nel Caucaso settentrionale?” “Nalchik.” “Naaalchik? Conosci Peter Trumheller?” “É il mio direttore sportivo. Beh, lo era. È stato il mio primo direttore sportivo.” “Come sei finito in Ucraina?” “La Titan mi ha offerto un passaggio.” “Pensavo che tutti i ragazzini russi andassero alla Kuybyshev al giorno d'oggi.” “Non io.” “Perché?” “Trumheller mi ha detto di andare alla Titan, ci sono andato.” Si versò una tazza di caffè nero da una caffettiera in acciaio inossidabile e si distese sulla sedia a fissare fuori dalla finestra il Mar Nero. Kashirin richiamò l'attenzione di un cameriere. “Questo giovanotto, “disse e mi indicò,” ha bisogno della colazione. Era in ritardo.” Senza aver bisogno di sapere altro, il cameriere si girò e si affrettò a portarmi la colazione. “Io e Volodya Malakhov veniamo da Rostov”, disse Kashirin. “Quasi vicini”, aggiunge. A più di trecento chilometri da Nalchik, Rostov era geograficamente nel Caucaso settentrionale, la più grande città della regione. Vicini sì, sono stato a Rostov e da quello che ho visto, non vorrei passarvi più di un'ora, troppo sporca e piena di fabbriche. Allora, questo è Vladimir Malakhov, il velocista di punta e un campione nazionale su strada. “Abbiamo avuto alcuni ucraini negli ultimi due anni”, ha detto Kashirin. “Volodya non è molto entusiasta dell'idea.” Volse lo sguardo verso Malakhov, sorrise e disse: “Perché non ti piacciono gli ucraini, nazista?” “Io nazista? Non sono io a ingoiare anabolizzanti tutto il giorno.” “Ingoiare cosa?” Gli chiesi. Sapevo cosa fossero gli anabolizzanti. Ormai il segreto era di dominio pubblico. Chiunque volesse fare due più due sapeva di cosa fossero piene le nuotatrici della Germania Est. Assomigliavano più a delle foche che a degli esseri umani, avevano perso le ultime tracce di femminilità anche nei loro volti. Erano una truffa e tutti lo sapevano. Ma il ciclismo? La voce che circolava: gli anabolizzanti rimpiccioliscono i piselli e rendono gli uomini impotenti. Era tutto quello che sapevo sugli anabolizzanti e ora sembrava che ci fosse qualcosa più di quanto pensassi. “Che vuol dire ‘ingoiare anabolizzanti tutto il giorno’?” Chiesi dopo che aveva ignorato la mia domanda. “Ho sentito vi ingozzate di anabolizzanti a palate in Ucraina”, disse. Il “voi“ che usò era in una forma generica che non si riferiva a nessuno in particolare. Abbandonai la diplomazia e chiesi, usando il “noi” che includeva anche me personalmente: “E perché dovremmo prendere gli anabolizzanti?” “Per strizzare un qualcosa in più dalle gambe?” “Non si ingrassa in questo modo?”. “Se ti comporti bene, un giorno ti dirò cosa può fare un chilo o due di massa magra alla tua prestazione. Anche in salita. Nel frattempo, fai colazione, stai zitto e assicurati di essere al tuo meglio ogni giorno, se vuoi sopravvivere qui.” Colsi il velato suggerimento e mi tenni fuori dai piedi di Malakhov che d’ora in poi avrebbe sempre avuto una lezione di vita per me o un'intuizione brillante da offrirmi. “Perché in un ritiro invernale pedalavo con un pacco con il 24 finale invece che con il 27?”. Beh, mi ero risposto tra me e me, perché non me ne frega niente. Era la prima ruota che avevo preso dal mucchio, non siamo in gara. “Hai messo troppo zucchero nel caffè”, mi disse una mattina a colazione. “Ti rovina i denti e ti fa il culo pesante come un camion.” Mi stupiva quanto immacolata fosse la sua divisa, anche dopo diversi giorni di pioggia in bici. Non avevamo lavatrici negli hotel in cui soggiornavamo e dovevamo lavare le nostre divise a mano nella vasca da bagno o nel lavandino. Quando pioveva spesso mi dava fastidio fare il bucato ogni giorno. Da maestro di scorciatoie, asciugavo superficialmente la divisa al sole, scuotevo via la sabbia e ci pedalavo di nuovo. Malakhov invece si presentava con una divisa pulita, immacolato ogni volta, non importa quanto fosse stato brutto il tempo il giorno prima: la classe. Avrei gareggiato con il piumino, se Malakhov ne avesse indossato uno. Un berretto sopra il casco o sotto? Guarda Malakhov. Manicotti su o giù? Guarda Malakhov. Mi diceva di indossare sempre i guanti in corsa e quando, un giorno, dimenticai di metterli, mi fece tornare al pullman per prenderli. Arrivai in ritardo per la partenza e inseguii il gruppo per i primi chilometri di gara. Quando provavo a dire la mia mi zittiva, ma un giorno ho imparato quanto fosse una brava persona. Stavo prendendo del cibo dalle tasche della maglia con entrambe le mani quando qualcuno davanti a me ha fatto cadere una borraccia. È rotolata sotto la mia ruota anteriore, ho perso il controllo e sono rovinato a terra. Malakhov era sulla mia ruota, urtò la mia bici ed atterrò vicino a me. Pensavo che mi avrebbe ucciso proprio lì, sulla strada. Invece, la prima cosa che gli è uscita dalla bocca appena fermi fu: “Stai bene, ragazzo?” Era il tipo di un ciclista che sostituiva il 53 con il 52 perché sapeva che la volata era in falsopiano. Non attaccava mai, eppure, una fuga vincente non sarebbe quasi mai andata via senza di lui. Non parlava quasi mai di corse, ma ogni volta che lo faceva, ascoltavo. Non importa quanto credessi di essere pronto per la parte alta della classifica, non lo ero. Sedersi con Malakhov e Kashirin per il pasto tre volte al giorno ha cambiato le cose. Le gare juniores a livello nazionale erano dure e aggressive. Iniziavano con i fuochi d'artificio, continuavano senza criterio per un po' per scremare il gruppo di testa, quindi si calmavano mentre ci si interrogava su quale sarebbe stata la prossima mossa. Si poteva vincere una gara facendo una mossa furtiva mentre tutti gli altri si guardavano. Gli élite iniziavano tranquilli e si davano il tempo di scaldarsi. In una giornata fredda, si spargeva la voce di andare piano per i primi dieci chilometri. Poi il ritmo si alzava. Se non portavi il culo in testa in tempo la cacca avrebbe colpito il ventilatore, e ti avrebbe coperto dalla testa ai piedi prima di sapere cosa stesse succedendo. Quando il martello dava la mazzata lo faceva con il botto. Ti ritrovi in un ventaglio e se non sei tra i primi venti avrai difficoltà anche a rimanerci. Il gruppo impazzisce, tutti lottano per stare a ruota, torturati da una velocità che si può a malapena tenere così a lungo. Il gruppo di testa non cede neanche dopo che i ventagli lo hanno eroso per chilometri. Nessuno si arrende, non importa quanto la velocità ti faccia male. I ragazzi di testa rimangono uniti fino a quando la pressione finisce. Mentre il ritmo cala, orde calano verso la testa prima della prossima sferzata. Non c'è tempo per rilassarsi, devi stare collegato e guardare dove ti ritrovi ad ogni colpo di pedale. La maglia rossa della squadra nazionale era un altro fardello che non avrei mai potuto ignorare. Il credo di Kapitonov era: se indossi la maglia della CCCP, la onori con la tua prestazione ogni volta, senza eccezioni. L'aspettativa era che i suoi scalatori andassero meglio in salita degli altri scalatori, che gli sprinter dominassero gli sprint ogni volta, e che i diesel vincessero le cronometro. Non accettava nessuna scusa per la tua prestazione di merda. Kapitonov ti avrebbe concesso un po' di tregua per una o due volte, ma se avessi continuato a fare casini saresti stato fuori dalla porta senza nessun preavviso. Continua.... www.sportintranslation.com ![]() Mentre il mondo si appassiona alla serie TV sul disastro nucleare di Chernobyl, Nikolai lo ha vissuto in prima persona, ovviamente dalla sua bici. Ecco un estratto, continuate a seguirci per la storia completa! "Atterrammo a Kiev e sulla strada dall'aeroporto Tolik ci disse che la centrale nucleare di Chernobyl era esplosa la sera precedente. Male, questo sarà un problema, dicemmo. “Sapete dov'è Chernobyl?”. Qualcuno provò ad indovinare e disse che era in Ucraina, da qualche parte. “A cento chilometri da Kiev”, disse. Si zittì e guidò come se non avesse niente altro da aggiungere. Ci accodiamo, non dicemmo nulla, e a chi importa, comunque. “Incendio o qualcosa del genere”, disse singhiozzando nel suo sedile che aveva modificato per molleggiare sui sobbalzi della strada. “È quello che ho sentito. Se ne sono andati tutti da Pripyat. Evacuata. È tremendo”. Mandarono i pompieri a spegnere un incendio senza dir loro che il reattore nucleare si era crepato, sputa tossine radioattive uccidendo tutta quello che incontra. Tienilo segreto. A mille chilometri da Chernobyl un allarme nucleare suonò in Svezia. È così che il mondo ne venne a conoscenza. Ma noi non ci preoccupiamo. Il vino rosso rimuove le radiazioni dal corpo. Questo non lo sanno in Svezia o in Germania. Nessuno sa niente. Mentono in televisione. Chiamano un giornale Verità [Pravda in russo, NdT] e lo riempiono di bugie. Suonano Tchaikovsky alla radio come se metà del Paese fosse Romeo e l'altra metà Giulietta. Ti sintonizzi su la gracchiante Voice of America per capire cosa sta succedendo. Ascolti. Qualcuno ha liberato un genio della morte da una bottiglia e ora se ne va in giro spargendo distruzione. Alcune persone sono morte subito, altre moriranno in seguito" #Chernobyl #NikolaiRazouvaev #cycling #translationservices ![]() Jason Fitzgerald è l’autore del libro che ripercorre le vite dei due pionieri del triathlon Dave Scott e Mark Allen, nel cammino che li ha portati alla sfida spalla a spalla durante l’Ironman Hawaii del 1989 conosciuta come Ironwar, da cui il titolo del libro. In un breve articolo pubblicato per Triathlete USA sviluppa un argomento interessante e con conclusioni all’apparenza controintuitive: non si deve cercare di dimagrire mentre si svolge un programma di allenamento. Mi sembra di vedere lo sguardo interdetto del lettore che ha sempre saputo, e magari sperimentato sulla propria pelle, che gli sport aerobici sono l’ideale per dimagrire. L’assunto è certamente corretto, come dimostrato da alcuni studi scientifici, anche se ne possono trovare altri per cui allo scopo del dimagrimento sarebbero più indicati sforzi brevi ed intensi. Ma senza approfondire la diatriba, il comune denominatore è che l’attività fisica è essenziale al dimagrimento, insieme all’altra componente del deficit calorico. Si, perché nonostante continuamente appaiano nuove diete dimagranti dai nomi sempre più esotici, tutte si basano sui due fattori principali per dimagrire:
Definiamo ora cosa sia un programma di allenamento rispetto alla “semplice” attività fisica: allenarsi significa spingere il proprio corpo al limite, creare uno stimolo allenante, uno stress, per fare in modo che il corpo inneschi cambiamenti positivi. Obbiettivo finale dell’allenamento è finire la gara con il migliore tempo possibile, o anche solo finire la gara se è la nostra prima sulla distanza. Ritorna quindi il concetto di stress. Per aiutare il nostro corpo a reagire a questo stress bisogna fornire il giusto quantitativo di energia e riposo. Non dimentichiamo che la componente più importante dell’allenamento è la continuità insieme alla progressività, ossia aumentare continuamente e progressivamente il carico allenante. È possibile dare costanza all’allenamento solo con la corretta alimentazione e recupero, che è il momento in cui il corpo trasforma la fatica accumulata, o stimolo allenante, in condizione o forma fisica. Provando a dimagrire allenandosi si sommano due stress, con il risultato di allenarsi male, o addirittura per il nostro corpo potrebbe essere veramente troppo con conseguenti infortuni come fratture da stress, non a caso, o psicologici, come uno stato di perenne insofferenza. La soluzione? Dimagrire con l’attività fisica, ovvero esercizio fisico non troppo intenso, non strutturato che segua i ritmi del corpo per un adeguato recupero, non la nostra tabella di marcia verso la gara. Il periodo ideale per questo solo le 6-8 settimane di condizionamento generale precedenti la preparazione specifica. Questo vuol dire che non si dimagrirà durante il programma di allenamento? Purtroppo, dovremmo dire, sì, perché un programma di allenamento intenso richiede un quantitativo di energia elevato, spesso impossibile da compensare, anche ricorrendo agli integratori. In ottica prestazione questo non è necessariamente un fatto positivo se il calo è troppo accentuato, ragion per cui non il dimagrimento durante un periodo di allenamento spesso arriva, ma non deve essere ricercato. ![]() Quando tornai a Kiev dopo la pausa la città era nel bel mezzo dell'autunno. Mattine gelide, nebbia ovunque, castagni che diventano giallo ruggine. La Titan era andata in Crimea per prepararsi ad una gara a tappe, la Sotsindustriya. La stagione era finita per me e non volevo correre, ma non potevo restare a Kiev e non fare niente. Elizarov mi disse di volare a Simferopoli, unirmi alla squadra e trascorrere le settimane successive pedalando in un clima caldo. Andai nei nostri locali di servizio per preparare la bici così da essere trasportata in mattinata all'aeroporto. Feci un mediocre lavoro di impacchettamento della bici e passai un'ora a parlare a vanvera con il meccanico. Decisi di prendere un taxi invece di aspettare un passaggio per l'hotel e, da solo, mi incamminai per strada. Gli edifici gettavano lunghe ombre sull'acciottolata Krasnoarmeyskaya. L'aria fresca e umida era piacevole da respirare. Volevo un gelato Kashtan dal negozio in Via Kreshchatik prima di prendere un taxi. Dieci minuti a piedi. Vidi una Volga nera parcheggiata davanti a me, con una porta posteriore aperta. Un uomo con uno spolverino beige sbottonato stazionava in piedi vicino all'auto, guardandomi. Continuai a camminare, chiedendomi se mi stesse fissando perché non aveva nient'altro da fare o vi era qualcos'altro sotto. Quando mi avvicinai, si allontanò dalla macchina e tirò fuori un korochka rosso dalla tasca dello spolverino. Me lo piazzò in faccia e mi chiese: “Nikolai?” Guardai il documento: c'era la foto in bianco e nero del tizio a sinistra e l'intestazione del KGB a destra con grado, nome e autorizzazione al porto d'armi sotto. Non riuscivo a leggere il cognome, qualcosa di lungo e contorto. Prima che chiudesse il korochka, memorizzai il suo nome: Bogdan. Merda, che succede, che cosa ho combinato? Feci un rapido inventario mentale delle mie tasche: niente dollari, niente di illegale, quindi cosa vogliono? Bogdan fece un cenno con la testa verso il sedile posteriore della Volga e disse: “Sali, dobbiamo parlare.” Salii in macchina, lui chiuse la porta, camminò intorno all’auto, salì sul sedile accanto a me e disse al guidatore: “Poekhali.” Andiamo. Andammo verso la Kreshchatyk, per la discesa della Vladimirsky, oltre la Piazza Pochtovaya ed arrivammo alle strette strade di Podol. All’esterno i pedoni in giacche invernali e cappotti sfrecciavano sui marciapiedi. Non ti insegnano a scuola cosa fare quando il KGB manda un agente con un nome stra-ucraino come Bogdan, in una Volga nera, il motivo solo il cielo lo sa, a prenderti. Non chiedere dove stai andando, stai calmo. Pazienza e rispetto, dimostraglieli. “Sei un membro della Komsomol, Nikolai?” chiese Bogdan. È di questo che si tratta? Io che mi insinuo nel sistema senza mai essermi iscritto alla Komsomol? Non avete spie della CIA da catturare? Diventare membro della Komsomol, o lega Comunista leninista, era una formalità. La maggior parte dei quattordicenni si lasciavano trasportare dalla corrente senza pensarci troppo. Nessuno ti costringeva ad iscriverti, ma stanne fuori e ti saresti preparato per problemi in futuro che non avresti mai pensato di trovarti ad affrontare. Quando fu il mio momento non me ne preoccupai. Noiosi corsi per diventare un membro e, una volta dentro, riunioni dopo la scuola che erano solo una perdita di tempo. Il mio allenamento iniziava un'ora dopo l'ultima lezione a scuola, la Komsomol non si incastrava. La prima volta che la Komsomol mi ha dato problemi è stato quando ho fatto domanda all’Università dello Sport di Kiev. Il modulo di domanda chiedeva se fossi un membro. Ero un membro della Titan a quel punto, sapevo che l'Università mi voleva più di quanto io volessi l'Università e ho spuntato la casella sì. Nessuno fa dei controlli. Poi è arrivato il modulo di richiesta del passaporto con decine di domande banali. Uno riguardava di nuovo la Komsomol. Questa volta era un documento importante la cui veridicità era controllata dal KGB. Non potevi chiedere un passaporto in URSS e andare dove volevi. Il KGB controllava gli spostamenti e i passaporti. Se ne vuoi uno, digli tutto di te. Hai un motivo per andare all'estero, altrimenti nessun motivo, nessun passaporto. La maggior parte delle persone non se ne preoccupava, non che avessero segreti da nascondere, solo non era qualcosa che li riguardasse. Atleti, artisti, scienziati, questi sono il volto e l'immagine del Popolo, l'Idea, e il Sistema. La minoranza privilegiata, i “golden boys and girls” del Paradiso dei lavoratori. Questi possono avere il passaporto, ma solo dopo aver controllato cosa mangiano, respirano e pensano. Bloccato di nuovo, chiesi a Nikolai Rogozyan cosa fare per la Komsomol e lui mi disse di spuntare la casella “Sì”. Se non sei un membro, gli ideali del Partito non ti vanno bene o non combaci con gli ideali del Partito. In ogni caso, il KGB bloccherà la tua richiesta di passaporto se non sei un membro della Komsomol. “Lo sistemeremo dopo”, disse Rogozyan, “quando torneremo a Kiev”. Ho spuntato il riquadro e me ne sono dimenticato. Non ero un membro, lo dissi a Bogdan. “Quindi hai mentito sul modulo di richiesta del passaporto?” Gli dissi quanto ero impegnato a scuola e come avessi perso il treno Komsomol e come avrei voluto sistemare la cosa in seguito, ma il ciclismo si era messo in mezzo. Sorrideva e si chinava verso il sedile anteriore del passeggero. Prese una valigetta di plastica nera per il manico. Mise la valigetta in grembo e, guardandomi diretto in faccia, mi disse detto: “Dov'è tuo fratello, Nikolai?” Non c'entrava la Komsomol. “Kamchatka”, ho detto. “Alla fine del mondo”, disse e voltò la testa verso di me. “Perché così lontano da casa?” “Soldi. Sta facendo dei bei soldi in Kamchatka. Lunghe vacanze. Gli piace stare lì.” “Capisco. Lascia che ti chieda una cosa. Sei un bugiardo, Nikolai?” Da come diceva il mio nome alla fine delle domande, avrebbe potuto essere il mio insegnante di fisica che parlava di un compito consegnato in ritardo. Le parole uscivano dalle sue labbra con il tono pietoso di una lama della ghigliottina che ti cade sul collo. Ha teso la trappola e mi ha spinto ad entrarci. “Non sono un bugiardo.” Aprì la valigetta e tirò fuori una cartellina malridotta e scolorita. Vi era la foto in bianco e nero del mio passaporto attaccata ad un angolo. Il mio nome scritto a mano in lettere maiuscole era sotto un numero di registro. Ha messo la cartella sopra la valigetta e ha detto: “Chi ha compilato il modulo di richiesta del passaporto?” “Io stesso.” “Molto bene. Ti ricordi una domanda sulla tua famiglia?” “Quale?” “Quella in cui ti si chiedeva se qualcuno della tua famiglia è mai stato condannato per un reato penale.” “Ero un bambino quando mio fratello è andato in prigione”, ho detto. “Tanto tempo fa, ha smesso di essere qualcosa di reale per me.” “Lascia che ti dica io cosa è reale. Hai mentito al governo con piena cognizione delle conseguenze. Hai firmato il modulo. Sapevi di possibili ripercussioni per aver mentito al governo. Hai mentito per avere un passaporto, un documento che diamo a quelli di cui ci fidiamo. Sai a quanto ammonta la reclusione per questo crimine?” Fece una smorfia dicendo: “No? Penso di no.” “Cosa avrei dovuto fare?” Gli chiesi. “Senza passaporto, non posso correre all'estero. Inutile per la nazionale.” “Pensi troppo, Nikolai, e arrivi a conclusioni affrettate. Ipotizzi false conclusioni su cose di cui non sai niente. Pensi che non ti avremmo dato un passaporto perché tuo fratello è stato dentro dieci anni fa? Non sono affari tuoi, a pensarci bene. Il tuo compito è essere onesto e aperto con noi quando ti chiediamo di essere onesto e aperto con noi. Potremmo o non potremmo tenere conto delle informazioni stesse. Voglio dire, chi se ne frega di quello che ha fatto tuo fratello dieci anni fa, giusto? È quanto tu sia sincero con noi che vogliamo sapere. E finora, temo che tu non stia andando molto bene.” Sterzammo per Via Vladimirskaya e ci dirigemmo al quartier generale del KGB di Kiev. È così che ti fanno fuori, un piccolo errore ed è tutto finito, nessuna seconda possibilità. A pochi metri dal parcheggio riservato di fronte all'edificio, gli occhi dell'autista rivolti a Bogdan spuntarono nello specchietto. “Prosegui” gli disse facendo cenno con la mano. La Porta D'oro era sulla nostra destra quando Bogdan disse: “Hai cercato di defezionare in Francia, vero?” Guardai nella sua direzione, le budella che si contorcevano, la gola secca, il cuore che pompava sangue con gettate che si potevano udire dall’esterno. Esci dalla macchina e corri, nasconditi da qualche parte, ovunque, vai sottoterra e aspetta la tempesta sia passata. E poi? Per quanto tempo puoi nasconderti? Quanto lontano puoi correre? Come diciamo in Unione Sovietica, non si può correre più lontano della Siberia. “Perché pensate che avrei voluto defezionare?” “L'abbiamo sentito alla radio della BBC.” “Cosa?” “Lascia che ti legga qualcosa.” Fece un ghigno e aprì la cartellina che conteneva un fascicolo di fogli consunti battuti a macchina tenuti insieme da una graffetta. In cima vi era la prima pagina del mio modulo di richiesta del passaporto. Voltò pagina e fissò la pagina successiva scritta a mano con bella grafia. Scorse il testo impugnando la pagina con una mano. Quando ebbe trovato quello che stava cercando, puntò il suo indice e disse: “Ecco, una descrizione di quello che abbiamo trovato nel tuo borsone in Francia: “…conteneva i seguenti beni: duemilaquattrocento dollari USA; novecento marchi tedeschi; duemilaottocento franchi francesi; un passaporto; una medaglia d'oro, la maglia e l'attestato di campione del mondo; due paia di calze e mutande; uno spazzolino da denti; un quaderno; una penna a biro Bic e una Bibbia in russo stampata a Londra.” Questa, amico mio, sembra una borsa pronta per una fuga. Che ne dici?” Qualcuno mi ha tradito. Qualcuno ha frugato nella mia borsa, per caso o di proposito, e ha redatto un rapporto. Ho escluso il mio compagno di stanza a Caen. Entrambi dalla Titan, eravamo amici intimi, non è possibile che sia stato lui. La grafia ordinata, il linguaggio asciutto e formale. Merda, una Bibbia in russo stampata a Londra? Non è lui, non è il suo stile. Continua.... ww.sportintranslation.com Original English version below. By the time I came back to Kiev after the break, the city was deep in the autumn. Frosty mornings, fog everywhere, chestnut trees turning rusty yellow. Titan had gone to Crimea to prepare for the Sotsindustriya stage race. The season was over for me and I wasn’t going to race it but I couldn’t stay in Kiev and do nothing either. Elizarov told me to fly to Simferopol, join the team and spend the next few weeks riding in warm weather. I went to our service course to pack my bike for a pick up in the morning on the way to the airport. I did an average bike-packing job and spent an hour talking trash with the team mechanic. I decided to catch a cab instead of waiting for a lift to the hotel and walked out on the street. The buildings were casting long shadows over the cobbled Krasnoarmeyskaya Street. The chilled, moist air was pleasant to breathe. I wanted a Kashtan ice cream from the shop on the Kreshchatik street before catching a cab. A ten-minute walk. I saw a black Volga parked ahead, facing me with a rear door opened. A man in an unbuttoned taupe trench coat stood next to it, looking at me. I kept walking, wondering if he was staring at me because he had nothing else to do or there was something else to it. When I approached, he stepped away from the car and pulled out a red korochka from the coat’s pocket. He stuck it in my face and said, “Nikolai?” I looked at the ID. It had the guy’s black and white photo on the left and the KGB header on the right with rank, name, and authorization to carry a weapon below it. I couldn’t read the surname, something long and convoluted. Before he closed the korochka, I caught his first name, Bogdan. Crap, what’s going on, what did I do? I made a quick mental inventory of my pockets. No dollars, nothing illegal. What do they want? Bogdan nodded toward the rear seat of the Volga, and said, “Get in, we need to talk.” I climbed into the car, he shut my door and walked around, got into the seat next to me and said to the driver: “Poekhali.” Let’s go. 4 We drove toward Kreshchatyk, down the Vladimirsky Descent, past the Pochtovaya Square, and came to Podol’s narrow streets. Outside, pedestrians in winter jackets and coats scurried on the sidewalks. They don’t teach you in school what to do when the KGB sends an officer with an uber-Ukrainian name like Bogdan, in a black Volga for goodness’ sake, to pick you up. Don’t ask where you’re going, stay calm. Patience and respect, show them that. “Are you a member of the Komsomol, Nikolai?” Bogdan said. Is this what it’s about? Me, slipping through the system and never taking out the Komsomol membership? Don’t you guys have CIA spies to catch? Becoming a member of the Komsomol, or All-Union Leninist Young Communist League, was a formality. Most fourteen-year-olds went with the flow without thinking too much about it. Nobody forced you to join. Stay out of it and you’d set yourself up for problems in the future you never thought would be there waiting for you. When it was my time to join, I didn’t bother with it. Boring membership classes and, once you’re in, after-school meetings to waste time. My training started one hour after the last class, Komsomol didn’t fit in. First time Komsomol bit me in the ass was when I applied to Kiev Sports University. The application form asked if I was a member. Part of the Titan team by then, I knew the Uni wanted me more than I wanted the Uni and I ticked the yes box. Nobody checks this. Then came the passport application form with dozens of trivial questions. One was about Komsomol again. This time it was an important document checked for veracity by the KGB. You couldn’t apply for a passport in the USSR and go anywhere you liked. KGB controlled comings and goings, and the passports. You want one, tell them everything about yourself. Have a reason to go abroad. No reason, no passport. Most people never bothered with it. Not that they had any secrets to hide. Too hard. Athletes, artists, scientists, these are the face and the image of the People, the Idea, and the System. The privileged minority, the golden boys and girls of the workers’ paradise. These can have their passports but only after we check what they eat, breathe, and think. Stuck again, I told Nikolai Rogozyan about Komsomol and he said to tick the yes box. If you’re not a member, the Party’s ideals don’t fit you or you don’t fit the Party’s ideals. Either way, the KGB will choke your passport application if you’re not a member of the Komsomol. Will fix it up later, Rogozyan said, when we come back to Kiev. I ticked the box and forgot about it. I wasn’t a member I said to Bogdan. “So, you lied on your passport application form?” I told him how busy I was in school and missed the Komsomol boat and how I was going to fix this later but cycling got in the way. He grinned and leaned over to the front passenger seat. He grabbed a black, plastic briefcase by its handle. He placed the briefcase flat on his lap and, looking straight ahead, said: “Where’s your brother, Nikolai?” Not about Komsomol. “Kamchatka,” I said. “End of the world,” he said and turned his head toward me. “Why so far away from home?” “Money. He’s making good money in Kamchatka. Long holidays. He likes it there.” “I see. Let me ask you this. Are you a liar, Nikolai?” How he said my name at the end of the questions, he could’ve been my physics teacher chatting about an overdue assignment. Words flew from his lips with a chummy tone of a guillotine blade falling on your neck. He set the trap and nudged me to step into it. “I’m not a liar.” He opened the briefcase and pulled out a shabby, buff-colored manila folder. It had my black-and-white passport photo clipped to its corner. My name hand-written in capital letters was under a file and volume number heading. He placed the folder on top of the briefcase and said, “Who filled out your passport application form?” “I did.” “Very well. Do you remember a question about your immediate family?” “Which one?” “The one that asked you if anyone from your immediate family has ever been sentenced for a criminal offense.” “I was a kid when my brother went to jail,” I said. “So long ago, stopped being real to me.” “Let me tell you what’s real. You lied to the government in full knowledge of the consequences for doing so. You signed the form. You acknowledged possible repercussions for lying to the government. You lied to get a passport, a document we give to those only we trust. Do you know how long the sentence is for this crime?” He sneered saying, “No? I didn’t think so.” “What was I supposed to do?” I said. “Without a passport, I can’t race abroad. Useless to the national team.” “Thinking too much, Nikolai, and running ahead of yourself. You make false conclusions about things you know nothing about. You think we wouldn’t give you a passport because your brother served time ten years ago? It’s none of your business, to think. What is your business is to be honest and open with us when we ask you to be honest and open with us. We may or may not care about the information itself. I mean, who cares what your brother did ten years ago, right? It’s how truthful you’re with us we want to know. And so far, you’re not doing too well I’m afraid.” We turned on Vladimirskaya street and headed to Kiev’s KGB headquarters. This is it, this is how they take you out, a small slip-up and it’s all over, no second chances. Meters away from the parking bay in front of the building, the driver’s eyes popped into the rear-view mirror and glanced at Bogdan. “Keep going,” he told him with a hand wave. The Golden Gate was on our right when Bogdan said, “You tried to defect in France, didn’t you?” I looked in his direction, ice melting in my guts, dry throat, heart pumping blood with loud thumps. Get the hell out of the car and run, hide somewhere, anywhere, go underground and wait out the storm to pass over. And then what? How long can you hide? How far can you run? As we say in the Soviet Union, you can’t run farther than Siberia. “Why do you think I was going to defect?” “We heard it on the BBC radio.” “What?” “Let me read you something.” He smirked and opened the folder with a sheaf of loose and stapled printing paper in it. The one at the top was the first page of my passport application form. He flipped it over and stared at the next page with a neat handwriting on it. He scanned the text holding the page with one hand. When he found what he was looking for, he stuck the index finger at it and said, “Here, a description of what we found in your sling bag in France: ‘contained the following: two thousand four hundred US dollars; nine hundred Deutschmarks; two thousand eight hundred French francs; a passport; a gold medal, world champion’s jersey and diploma; two pairs of socks and underwear; a toothbrush; a notebook; a Bic Cristal pen, and a London-printed Russian Bible.’ This, my friend, looks like a bag made ready for a run. What do you think?” Someone sold me out. Someone went through my bag, by chance or on purpose, and wrote a report. I ruled out my roommate in Caen. Both from Titan, we were close friends, no way this was him. That tidy handwriting, the dry, formal language. Crap, a London-printed Russian Bible? That’s not him, he wouldn’t write that. |
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