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Il ribelle -16- notte prima della gara

12/7/2019

 
PictureNikolai ed Anton




Dopo aver pranzato, ero in viaggio su un taxi con l'indirizzo di Anton che avevo scarabocchiato su un pezzo di carta quando me lo dettò al telefono.    Mi disse di aver lasciato il dormitorio dell'Università e che viveva nell’alloggio del suo fratellastro che non era mai a casa.  Il fratellastro lavora nell'industria cinematografica.  Passa più tempo sui set che nell'appartamento di Mosca.
Chiesi al tassista di fermarsi da qualche parte lungo la strada per comprare una bottiglia.  “Cosa cerchi?” mi domandò.  Gli raccontai che stavo andando dal mio migliore amico e che mi serviva qualcosa di speciale. 
“Armyanski konyak?”
“Si’”, risposi “cognac armeno”.
Non mi portò da nessuna parte per comprare il liquore. Aprì il portaoggetti dell’auto e tirò fuori una bottiglia decorata con lettere armene che ai miei occhi avevano senso quanto degli ideogrammi cinesi. 
“Oro liquido invecchiato cinque anni”, affermò, impugnando la bottiglia per il collo davanti alla mia faccia.   “Dalle cantine del Cremlino.”
I tassisti, in tutta la nazione, più intraprendenti vendevano vodka nei loro taxi.   I negozi di liquori chiudevano alle sette in punto, non importa dove abitassi.  Ma, in un Paese con una pena detentiva per la “speculazione sull'alcol”, si sarebbe potuto comprare l'alcol in qualsiasi momento, bastava sapere dove.  I taxi erano una delle molte fonti di alcol fuori orario.  Avresti potuto chiamarne uno alle due del mattino, aprire la porta e chiedere all'autista se aveva della vodka a bordo. 
Il cognac armeno di solito era troppo esclusivo e snob per questo tipo di commercio.   D'altra parte questa era Mosca, dove molta gente aveva fatto fortuna. 
Ho pagato tre volte il prezzo in negozio della bottiglia e l'ho riposta sotto la mia giacca di pelle per tenerla al caldo.
Sono sceso di fronte ad un edificio di venti piani fatto di blocchi di cemento.  L'entrata aveva una porta di metallo verniciata decenni fa con quella che una volta era una tonalità di blu.  
Ho aperto la porta e sono entrato in un atrio buio.  Un fascio di luce entrava attraverso una finestra sul muro di fronte all'entrata.  Puzzava di urina, birra e profumo francese.
La porta dell'ascensore era aperta come se qualcuno me lo avesse mandato.  Le possibilità che un macchinario sovietico si rompesse a due piani dalla destinazione erano sempre alte.  Ho guardato le scale.  Per i ciclisti, camminare era già abbastanza ai limiti, salire le scale era verboten, assolutamente vietato.
Entrai nell'ascensore e guardai la pulsantiera per trovare il bottone che mi serviva. Avevano tutti un buco da bruciatura di sigaretta al centro che rendeva illeggibile il numero del piano, solo il tasto del tredicesimo piano era stato risparmiato.
Con il dito contai altri sei bottoni dal tredicesimo.  Che burloni, non hanno sistemato l'ascensore solo per spedire i visitatori al piano sbagliato.
Raggiunsi l'appartamento di Anton e suonai il campanello.  Dieci secondi dopo aprì la porta.  Sorriso, jeans e maglietta.
“Entra, entra”, disse, facendo cenno con la mano.
Entrai in un appartamento buio, immerso nella nebbia delle sigarette e nell'odore di erba.  Mi portò nel luogo sacro di in un appartamento sovietico, la cucina, dove ci si incontra per festicciole e per bere tè. 
Una tenda copriva tre quarti della finestra lasciando al fumo una via di fuga ed uno spiraglio dove un raggio di luce si intrufolava.  Tangerine dei Led Zeppelin era sparata all'interno dell'appartamento.  Vidi un grande registratore a bobina piazzato dentro una libreria in soggiorno con un paio di casse a tre vie negli angoli.
Un ragazzo e una ragazza erano seduti al tavolo da pranzo di legno in cucina.  Il tipo aveva dei lunghi capelli biondi mossi.  Cadevano sul suo viso sottile da entrambi i lati come un cappuccio.  Portava una barba a coda di rondine che gli allungava la faccia come un chicco di riso.
Con la luce soffusa, avvolto nel fumo di sigaretta, potrebbe passare per un santo di un'icona russo-ortodossa.
Con il braccio destro alzato, si appoggiava su un gomito impugnando l'articolazione bloccata tra pollice e indice.  I suoi occhi azzurri mi guardavano con un calore e benevolenza che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro.
“Vuoi fare un tiro?” mi chiese. 
“Sì, certo”, dissi e afferrai una sedia dal tavolo.
La ragazza, ho supposto che fosse la sua fidanzata, sorrideva come se le avessi riferito la migliore notizia possibile della giornata.
“Privet! Sono Lena.”
Lena era bella come un tramonto,  una bellezza angelicata. Un viso classico slavo, rotondo, scolpito da linee dolci e contorniato da una cascata di capelli biondi che cadevano dietro la schiena.  I suoi occhi azzurri, grandi come un lago, brillavano al buio.
“So chi sei, Kolya”, disse.  “Io e Liosha eravamo sul treno con Anton quando ha trovato quell'articolo di giornale su di te e sulle Olimpiadi che hai vinto.”
“Campionato del mondo”, borbottai.
Lei lo ignorò e io mi maledissi per aver pensato che le importasse o che conoscesse la differenza. 
Parlava con una voce di seta e ogni parola usciva dalle sue labbra come una nota musicale di cui godere. Aveva un bell'accento moscovita e un sorriso che le rimaneva sul viso anche quando parlava. 
In meno di due anni Liosha sarebbe andato in overdose di oppio. Lena l'avrebbe seguito dopo poco. Ma questo all'epoca era nel futuro, allora non importava.
Fumavamo e parlavamo di filosofia, cristianesimo, esistenzialismo, Buddismo e rock and roll.  Loro parlavano. I nomi di Jean Paul Sartre, Hermann Hesse, Jorge Luis Borges, Julio Cortazar e Max Frisch rimbalzavano nella cucina affumicata.
Non riuscivo ad entrare nella conversazione e mi dava fastidio.  Mi dava fastidio che non avessi letto un libro da anni, anche se leggevo continuamente a scuola.  Mi dava fastidio il fatto di conoscere Robert Plant o Eddy Merckx, ma non Borges o Cortazar.  Mi dava fastidio che non sapessi neanche chi fosse esattamente Gesù Cristo.  Le superstizioni russo-ortodosse e l'ateismo avevano inquinato la mia mente stantia.  Portavo una Bibbia nella mia borsa ovunque andassi, ma non era la fonte della conoscenza di Dio, era un feticcio portafortuna. Ne avevo letto dieci o venti pagine da quando Anton me l'aveva regalata un paio di anni fa.
Liosha continuava a lanciare le sue frecciatine una dopo l'altra.  Il cognac armeno che avevo portato si era dileguato prima di quanto pensassi.  A mezzanotte, affrontammo il problema eterno dei sovietici: dove prendiamo altro alcol?
Anton disse che conosceva un bar dove avremmo potuto comprare alcolici da un cameriere, ma sarebbe costato una mancia.  Erano al verde da due giorni. Dalla mattina avevano mangiato un sacchetto di mele, nient'altro.  Gli ultimi dieci rubli li avevano spesi in tre bottiglie di chardonnay, bevute prima che arrivassi.
I soldi non sono un problema, portami al bar. 
Fu quando Lena disse la frase che mi ha accompagnato per anni.  Disse: “Kolya può avere tutto, ma non ha nessuno che sia come lui.”
Abbiamo riso.  In quel momento, proprio allora, non c'era nessuno come me, aveva ragione.
Io e Anton abbiamo preso un taxi e cinque minuti dopo siamo scesi di fronte a un edificio vecchio di un secolo con un bar nel seminterrato.  Diedi al buttafuori dieci rubli per zittirlo ed entrammo.
Il posto era saturo di parolacce proferite da dozzine di ubriachi.  Tutti, compreso un barista grasso, fumavano.  Si sarebbe potuto lanciare un'ascia in aria e avrebbe galleggiato nel fumo di sigaretta.
Io e Anton discutemmo su chi avrebbe chiesto dell'alcol a un cameriere.  “Io pago e tu parli come concordato” e lui mi fece notare la giacca di pelle che indossavo che mi faceva sembrare un gangster.
“Ferma un cameriere e digli cosa vuoi”.  “Parla come è nostra abitudine nel Caucaso settentrionale.  Abbiamo una certa reputazione qui”.  Corrotto da cima a fondo, il Caucaso settentrionale era famoso per il traffico di droga e le bande di criminali. Se vieni dal Caucaso del Nord la gente di solito pensa che tu sia un fuorilegge, non scendi a patti, non ragioni e probabilmente sei armato.  Qualcuno da evitare, se non cercate problemi. 
“Tieni una mano nella giacca”. “Il coglione si piscerà addosso pensando che tu abbia una pistola in tasca.” 
Lo guardai per capire se fosse serio e ridemmo di nuovo, i bambini non crescono mai.
Non ho dovuto inseguire un cameriere in giro per il bar, uno ci approcciò e ci chiese cosa volessimo.  Tirai fuori un biglietto da 50 rubli per infilarglielo nella tasca della camicia e gli chiesi se aveva un paio di bottiglie di cognac decenti da qualche parte che prendevano polvere.  Uscimmo con due bottiglie di brandy Napoléon e tornammo a casa di Anton a piedi per schiarirci le idee e parlare.
Facemmo delle soste al parco giochi e su alcune panchine del tutto a caso sulla via del ritorno bevendo dalla bottiglia a turno e parlammo.  Venni a conoscenza dei festival cinematografici e della proiezione di film proibiti a cui Anton aveva assistito attraverso i contatti nel settore di suo fratello.  Mi parlò di Tarkovskij, Fellini e Buñuel come se avesse cenato con loro la sera precedente.  Eccitato, mi chiedeva se avessi visto questo o quel film.  La risposta era sempre la stessa: “no, mai sentito nominare”.   “Oh, cavolo”, sospirava, dovresti vedere questo o quello.
Gli chiesi se gli mancasse il ciclismo e mi disse che gli mancava il divertimento e il cazzeggio intorno ad esso, ma non l'allenamento e le corse.
“Quelle cadute, amico, no grazie”.
Tre anni prima, in discesa, si era schiantato di fronte a me contro una macchina parcheggiata.  La sua bici mi era volata sopra la testa, lui atterrò sull'asfalto e sembrava che non si sarebbe mai rialzato.
Eravamo vicino al suo appartamento quando mi disse: “Perché non ti trasferisci a Mosca?”
“Perché?”
“Amico, non hai idea di quanto sia figo questo posto.”
“Certo“, dissi.  “Una Parigi russa.”
“Non conosco Parigi.   Mosca è una bomba.” 
“Mi caccerebbero dalla Titan se lasciassi Kiev.”
“Titan shmitan.  Dimentica quella fottuta Titan.  Ricordi cosa ci ha detto Trumheller?”
“Cosa?”
“Prepara il tuo piano B. Domani cadi e il ciclismo per te è finito.  Qual è il tuo piano B?”
“Amico, non sono sicuro di avere un piano A, tanto meno uno B.”
“Esattamente.  È perché sei stupido.  Pensi che gareggerai per sempre e quei cretini della Titan si prenderanno cura di te per tutta la vita. Sbagliato. Ti guardano e vedono una macchina senza cervello con due gambe per spingere sui pedali.  Sei una macchina senza cervello, fratello?”
“Mi piacerebbe pensare di no, ma sei tu il veggente, lo sai bene.”
“Non sono un veggente.  Tra dieci anni ti guarderai indietro e dirai, merda, avrei dovuto mollare nel 1985, quando ero giovane.”
“E perché dovrei dirlo?”
“Perché cosa succede se, Dio non voglia, domani cadi e non riesci più a correre?”  Cosa farai?”
“Io non cado in quella maniera.”
“Certo che no.  Sei fatto di acciaio, vero?”
“Qualcosa del genere.”
“Senti, c’è una scuola in specializzazione post laurea in medicina dello sport a Tallinn.  Corso di due anni.  Trasferimento da Kiev a Mosca, finisci l'Università qui e poi vai a Tallinn.  Puoi rimanere lì dopo la laurea se vuoi o puoi tornare a Mosca.  Lascia che siano gli ucraini puzzolenti a vivere nella tua puzzolente Kiev. Che ne dici come piano B?”
“Impressionante.  Adoro la parte della medicina.  Non riesco a distinguere la chimica dalla fisica e tu vuoi che studi medicina?”
“Medicina sportiva.  Lavorerai con atleti e altri idioti.  Somministragli la vitamina C, digli che li renderà più forti e, voilà, sono più forti.  Non è che curerai i malati di cancro.  Gli atleti, gli shmos.”
Era fatto così, creare piani per entrambi era da lui.  Ha fatto piani che non ho mai seguito.
Liosha era da solo in cucina quando tornammo con l'ultima bottiglia di brandy. Due siringhe riutilizzabili erano posate sul tavolo riempite a metà con del liquido marrone. Oppio cotto in casa. 
“Ho preparato questo per voi ragazzi”.  “Lena è andata a letto, voglio andarci anche io.  Divertitevi”
Con cronometro a squadre di 50 chilometri da correre il mattino dopo dissi che per me era meglio tornare al Krylatskoye.
I primi raggi di sole facevano capolino da dietro le nuvole quando respirai l'aria di strada satura delle fredde goccioline della pioggerella mattutina.  Anton mi accompagnò sulla strada principale per prendere un taxi.   Un letto caldo in questo momento sarebbe stato il paradiso.  Camminavamo in silenzio e guardavamo l'asfalto umido e gli edifici in cemento e le strade vuote e i corvi che zampettavano sull'erba e si mandavano messaggi gracchianti.
“Dai, torniamo indietro, dormi sul divano”, disse Anton.  “Digli che sei malato.  Cammini come se qualcuno ti avesse sparato.” 
Abbiamo aspettato mezz'ora per un taxi e ci siamo arresi.  Un autobus per la metropolitana e un altro autobus funzionarono alla bisogna. 
Mi intrufolai nella mia stanza senza far scattare l'allarme. Il mio compagno di stanza era già sveglio, si stava lavando i denti in bagno, nudo. 
“Sembri morto”, disse, fissandomi dallo specchio sul muro di fronte a lui.  “Rogozyan era qui cinque minuti fa.  Gli ho detto che eri andato a fare una passeggiata.”
“Cosa ha detto?”
“Niente.  Sembra che nel tuo letto non ci abbia dormito nessuno.  L'ha visto.”
“Esci dal bagno”, gli dissi. “Ho bisogno di una doccia.”
“Puzzi come se avessi passato la notte in una fabbrica di tabacco”, disse e se ne andò.
Nikolai Rogozyan, il secondo nella gerarchia della Titan, non dimostrò di sospettare in alcun modo che avessi commesso alcun peccato quando lo vidi fuori mentre riforniva l’ammiraglia di cibo e pezzi di ricambio.  Con Yuri Elizarov a Kiev per lavoro, aveva il potere di cacciarmi dalla corsa e far finire la mia carriera se mi avesse beccato a fare qualcosa di sbagliato. Si comportava come se il suo unico obiettivo nella vita fosse quello di beccarci in un atto di violazione della disciplina della Titan.  Non girare la chiave nella serratura la notte, in modo che Rogozyan controlli se sei dentro o fuori.  Ci incatenerebbe alle bici se potesse, costruirebbe una staccionata verso il mondo esterno e ci farebbe pensare solo alle corse. Per vederti soffrire si accostava con la macchina, ti guardava negli occhi e sorrideva. Rogozyan era un Pinochet che faceva credere di essere tuo amico per poi strangolarti nel momento in cui commettevi uno sbaglio. 
“Hai dormito bene stanotte?”  mi chiese mentre gli passavo la bici per metterla sul tetto dell'ammiraglia. 
“Seh.”
“Sono passato stamattina e non ti ho visto in camera tua.”
“Sono andato a fare una passeggiata.”
 
 
Continua....
 
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Notte prima della gara
 

Nikolai e Anton
Dopo aver pranzato ero in viaggio su un taxi con l'indirizzo di Anton che avevo scarabocchiato su un pezzo di carta quando me lo dettò al telefono.    Mi disse di aver lasciato il dormitorio dell'Università e che viveva nell’alloggio del suo fratellastro che non era mai a casa.  Il fratellastro lavora nell'industria cinematografica.  Passa più tempo sui set che nell'appartamento di Mosca.
Chiesi al tassista di fermarsi da qualche parte lungo la strada per comprare una bottiglia.  “Cosa cerchi?” mi domandò.  Gli raccontai che stavo andando dal mio migliore amico e che mi serviva qualcosa di speciale. 
“Armyanski konyak?”
“Si’”, risposi “cognac armeno”.
Non mi portò da nessuna parte per comprare il liquore. Aprì il portaoggetti dell’auto e tirò fuori una bottiglia decorata con lettere armene che ai miei occhi avevano senso quanto degli ideogrammi cinesi. 
“Oro liquido invecchiato cinque anni”, affermò, impugnando la bottiglia per il collo davanti alla mia faccia.   “Dalle cantine del Cremlino.”
I tassisti, in tutta la nazione, più intraprendenti vendevano vodka nei loro taxi.   I negozi di liquori chiudevano alle sette in punto, non importa dove abitassi.  Ma, in un Paese con una pena detentiva per la “speculazione sull'alcol”, si sarebbe potuto comprare l'alcol in qualsiasi momento, bastava sapere dove.  I taxi erano una delle molte fonti di alcol fuori orario.  Avresti potuto chiamarne uno alle due del mattino, aprire la porta e chiedere all'autista se aveva della vodka a bordo. 
Il cognac armeno di solito era troppo esclusivo e snob per questo tipo di commercio.   D'altra parte questa era Mosca, dove molta gente aveva fatto fortuna. 
Ho pagato tre volte il prezzo in negozio della bottiglia e l'ho riposta sotto la mia giacca di pelle per tenerla al caldo.
Sono sceso di fronte ad un edificio di venti piani fatto di blocchi di cemento.  L'entrata aveva una porta di metallo verniciata decenni fa con quella che una volta era una tonalità di blu.  
Ho aperto la porta e sono entrato in un atrio buio.  Un fascio di luce entrava attraverso una finestra sul muro di fronte all'entrata.  Puzzava di urina, birra e profumo francese.
La porta dell'ascensore era aperta come se qualcuno me lo avesse mandato.  Le possibilità che un macchinario sovietico si rompesse a due piani dalla destinazione erano sempre alte.  Ho guardato le scale.  Per i ciclisti, camminare era già abbastanza ai limiti, salire le scale era verboten, assolutamente vietato.
Entrai nell'ascensore e guardai la pulsantiera per trovare il bottone che mi serviva. Avevano tutti un buco da bruciatura di sigaretta al centro che rendeva illeggibile il numero del piano, solo il tasto del tredicesimo piano era stato risparmiato.
Con il dito contai altri sei bottoni dal tredicesimo.  Che burloni, non hanno sistemato l'ascensore solo per spedire i visitatori al piano sbagliato.
Raggiunsi l'appartamento di Anton e suonai il campanello.  Dieci secondi dopo aprì la porta.  Sorriso, jeans e maglietta.
“Entra, entra”, disse, facendo cenno con la mano.
Entrai in un appartamento buio, immerso nella nebbia delle sigarette e nell'odore di erba.  Mi portò nel luogo sacro di in un appartamento sovietico, la cucina, dove ci si incontra per festicciole e per bere tè. 
Una tenda copriva tre quarti della finestra lasciando al fumo una via di fuga ed uno spiraglio dove un raggio di luce si intrufolava.  Tangerine dei Led Zeppelin era sparata all'interno dell'appartamento.  Vidi un grande registratore a bobina piazzato dentro una libreria in soggiorno con un paio di casse a tre vie negli angoli.
Un ragazzo e una ragazza erano seduti al tavolo da pranzo di legno in cucina.  Il tipo aveva dei lunghi capelli biondi mossi.  Cadevano sul suo viso sottile da entrambi i lati come un cappuccio.  Portava una barba a coda di rondine che gli allungava la faccia come un chicco di riso.
Con la luce soffusa, avvolto nel fumo di sigaretta, potrebbe passare per un santo di un'icona russo-ortodossa.
Con il braccio destro alzato, si appoggiava su un gomito impugnando l'articolazione bloccata tra pollice e indice.  I suoi occhi azzurri mi guardavano con un calore e benevolenza che non avevo mai visto negli occhi di nessun altro.
“Vuoi fare un tiro?” mi chiese. 
“Sì, certo”, dissi e afferrai una sedia dal tavolo.
La ragazza, ho supposto che fosse la sua fidanzata, sorrideva come se le avessi riferito la migliore notizia possibile della giornata.
“Privet! Sono Lena.”
Lena era bella come un tramonto,  una bellezza angelicata. Un viso classico slavo, rotondo, scolpito da linee dolci e contorniato da una cascata di capelli biondi che cadevano dietro la schiena.  I suoi occhi azzurri, grandi come un lago, brillavano al buio.
“So chi sei, Kolya”, disse.  “Io e Liosha eravamo sul treno con Anton quando ha trovato quell'articolo di giornale su di te e sulle Olimpiadi che hai vinto.”
“Campionato del mondo”, borbottai.
Lei lo ignorò e io mi maledissi per aver pensato che le importasse o che conoscesse la differenza. 
Parlava con una voce di seta e ogni parola usciva dalle sue labbra come una nota musicale di cui godere. Aveva un bell'accento moscovita e un sorriso che le rimaneva sul viso anche quando parlava. 
In meno di due anni Liosha sarebbe andato in overdose di oppio. Lena l'avrebbe seguito dopo poco. Ma questo all'epoca era nel futuro, allora non importava.
Fumavamo e parlavamo di filosofia, cristianesimo, esistenzialismo, Buddismo e rock and roll.  Loro parlavano. I nomi di Jean Paul Sartre, Hermann Hesse, Jorge Luis Borges, Julio Cortazar e Max Frisch rimbalzavano nella cucina affumicata.
Non riuscivo ad entrare nella conversazione e mi dava fastidio.  Mi dava fastidio che non avessi letto un libro da anni, anche se leggevo continuamente a scuola.  Mi dava fastidio il fatto di conoscere Robert Plant o Eddy Merckx, ma non Borges o Cortazar.  Mi dava fastidio che non sapessi neanche chi fosse esattamente Gesù Cristo.  Le superstizioni russo-ortodosse e l'ateismo avevano inquinato la mia mente stantia.  Portavo una Bibbia nella mia borsa ovunque andassi, ma non era la fonte della conoscenza di Dio, era un feticcio portafortuna. Ne avevo letto dieci o venti pagine da quando Anton me l'aveva regalata un paio di anni fa.
Liosha continuava a lanciare le sue frecciatine una dopo l'altra.  Il cognac armeno che avevo portato si era dileguato prima di quanto pensassi.  A mezzanotte, affrontammo il problema eterno dei sovietici: dove prendiamo altro alcol?
Anton disse che conosceva un bar dove avremmo potuto comprare alcolici da un cameriere, ma sarebbe costato una mancia.  Erano al verde da due giorni. Dalla mattina avevano mangiato un sacchetto di mele, nient'altro.  Gli ultimi dieci rubli li avevano spesi in tre bottiglie di chardonnay, bevute prima che arrivassi.
I soldi non sono un problema, portami al bar. 
Fu quando Lena disse la frase che mi ha accompagnato per anni.  Disse: “Kolya può avere tutto, ma non ha nessuno che sia come lui.”
Abbiamo riso.  In quel momento, proprio allora, non c'era nessuno come me, aveva ragione.
Io e Anton abbiamo preso un taxi e cinque minuti dopo siamo scesi di fronte a un edificio vecchio di un secolo con un bar nel seminterrato.  Diedi al buttafuori dieci rubli per zittirlo ed entrammo.
Il posto era saturo di parolacce proferite da dozzine di ubriachi.  Tutti, compreso un barista grasso, fumavano.  Si sarebbe potuto lanciare un'ascia in aria e avrebbe galleggiato nel fumo di sigaretta.
Io e Anton discutemmo su chi avrebbe chiesto dell'alcol a un cameriere.  “Io pago e tu parli come concordato” e lui mi fece notare la giacca di pelle che indossavo che mi faceva sembrare un gangster.
“Ferma un cameriere e digli cosa vuoi”.  “Parla come è nostra abitudine nel Caucaso settentrionale.  Abbiamo una certa reputazione qui”.  Corrotto da cima a fondo, il Caucaso settentrionale era famoso per il traffico di droga e le bande di criminali. Se vieni dal Caucaso del Nord la gente di solito pensa che tu sia un fuorilegge, non scendi a patti, non ragioni e probabilmente sei armato.  Qualcuno da evitare, se non cercate problemi. 
“Tieni una mano nella giacca”. “Il coglione si piscerà addosso pensando che tu abbia una pistola in tasca.” 
Lo guardai per capire se fosse serio e ridemmo di nuovo, i bambini non crescono mai.
Non ho dovuto inseguire un cameriere in giro per il bar, uno ci approcciò e ci chiese cosa volessimo.  Tirai fuori un biglietto da 50 rubli per infilarglielo nella tasca della camicia e gli chiesi se aveva un paio di bottiglie di cognac decenti da qualche parte che prendevano polvere.  Uscimmo con due bottiglie di brandy Napoléon e tornammo a casa di Anton a piedi per schiarirci le idee e parlare.
Facemmo delle soste al parco giochi e su alcune panchine del tutto a caso sulla via del ritorno bevendo dalla bottiglia a turno e parlammo.  Venni a conoscenza dei festival cinematografici e della proiezione di film proibiti a cui Anton aveva assistito attraverso i contatti nel settore di suo fratello.  Mi parlò di Tarkovskij, Fellini e Buñuel come se avesse cenato con loro la sera precedente.  Eccitato, mi chiedeva se avessi visto questo o quel film.  La risposta era sempre la stessa: “no, mai sentito nominare”.   “Oh, cavolo”, sospirava, dovresti vedere questo o quello.
Gli chiesi se gli mancasse il ciclismo e mi disse che gli mancava il divertimento e il cazzeggio intorno ad esso, ma non l'allenamento e le corse.
“Quelle cadute, amico, no grazie”.
Tre anni prima, in discesa, si era schiantato di fronte a me contro una macchina parcheggiata.  La sua bici mi era volata sopra la testa, lui atterrò sull'asfalto e sembrava che non si sarebbe mai rialzato.
Eravamo vicino al suo appartamento quando mi disse: “Perché non ti trasferisci a Mosca?”
“Perché?”
“Amico, non hai idea di quanto sia figo questo posto.”
“Certo“, dissi.  “Una Parigi russa.”
“Non conosco Parigi.   Mosca è una bomba.” 
“Mi caccerebbero dalla Titan se lasciassi Kiev.”
“Titan shmitan.  Dimentica quella fottuta Titan.  Ricordi cosa ci ha detto Trumheller?”
“Cosa?”
“Prepara il tuo piano B. Domani cadi e il ciclismo per te è finito.  Qual è il tuo piano B?”
“Amico, non sono sicuro di avere un piano A, tanto meno uno B.”
“Esattamente.  È perché sei stupido.  Pensi che gareggerai per sempre e quei cretini della Titan si prenderanno cura di te per tutta la vita. Sbagliato. Ti guardano e vedono una macchina senza cervello con due gambe per spingere sui pedali.  Sei una macchina senza cervello, fratello?”
“Mi piacerebbe pensare di no, ma sei tu il veggente, lo sai bene.”
“Non sono un veggente.  Tra dieci anni ti guarderai indietro e dirai, merda, avrei dovuto mollare nel 1985, quando ero giovane.”
“E perché dovrei dirlo?”
“Perché cosa succede se, Dio non voglia, domani cadi e non riesci più a correre?”  Cosa farai?”
“Io non cado in quella maniera.”
“Certo che no.  Sei fatto di acciaio, vero?”
“Qualcosa del genere.”
“Senti, c’è una scuola in specializzazione post laurea in medicina dello sport a Tallinn.  Corso di due anni.  Trasferimento da Kiev a Mosca, finisci l'Università qui e poi vai a Tallinn.  Puoi rimanere lì dopo la laurea se vuoi o puoi tornare a Mosca.  Lascia che siano gli ucraini puzzolenti a vivere nella tua puzzolente Kiev. Che ne dici come piano B?”
“Impressionante.  Adoro la parte della medicina.  Non riesco a distinguere la chimica dalla fisica e tu vuoi che studi medicina?”
“Medicina sportiva.  Lavorerai con atleti e altri idioti.  Somministragli la vitamina C, digli che li renderà più forti e, voilà, sono più forti.  Non è che curerai i malati di cancro.  Gli atleti, gli shmos.”
Era fatto così, creare piani per entrambi era da lui.  Ha fatto piani che non ho mai seguito.
Liosha era da solo in cucina quando tornammo con l'ultima bottiglia di brandy. Due siringhe riutilizzabili erano posate sul tavolo riempite a metà con del liquido marrone. Oppio cotto in casa. 
“Ho preparato questo per voi ragazzi”.  “Lena è andata a letto, voglio andarci anche io.  Divertitevi”
Con cronometro a squadre di 50 chilometri da correre il mattino dopo dissi che per me era meglio tornare al Krylatskoye.
I primi raggi di sole facevano capolino da dietro le nuvole quando respirai l'aria di strada satura delle fredde goccioline della pioggerella mattutina.  Anton mi accompagnò sulla strada principale per prendere un taxi.   Un letto caldo in questo momento sarebbe stato il paradiso.  Camminavamo in silenzio e guardavamo l'asfalto umido e gli edifici in cemento e le strade vuote e i corvi che zampettavano sull'erba e si mandavano messaggi gracchianti.
“Dai, torniamo indietro, dormi sul divano”, disse Anton.  “Digli che sei malato.  Cammini come se qualcuno ti avesse sparato.” 
Abbiamo aspettato mezz'ora per un taxi e ci siamo arresi.  Un autobus per la metropolitana e un altro autobus funzionarono alla bisogna. 
Mi intrufolai nella mia stanza senza far scattare l'allarme. Il mio compagno di stanza era già sveglio, si stava lavando i denti in bagno, nudo. 
“Sembri morto”, disse, fissandomi dallo specchio sul muro di fronte a lui.  “Rogozyan era qui cinque minuti fa.  Gli ho detto che eri andato a fare una passeggiata.”
“Cosa ha detto?”
“Niente.  Sembra che nel tuo letto non ci abbia dormito nessuno.  L'ha visto.”
“Esci dal bagno”, gli dissi. “Ho bisogno di una doccia.”
“Puzzi come se avessi passato la notte in una fabbrica di tabacco”, disse e se ne andò.
Nikolai Rogozyan, il secondo nella gerarchia della Titan, non dimostrò di sospettare in alcun modo che avessi commesso alcun peccato quando lo vidi fuori mentre riforniva l’ammiraglia di cibo e pezzi di ricambio.  Con Yuri Elizarov a Kiev per lavoro, aveva il potere di cacciarmi dalla corsa e far finire la mia carriera se mi avesse beccato a fare qualcosa di sbagliato. Si comportava come se il suo unico obiettivo nella vita fosse quello di beccarci in un atto di violazione della disciplina della Titan.  Non girare la chiave nella serratura la notte, in modo che Rogozyan controlli se sei dentro o fuori.  Ci incatenerebbe alle bici se potesse, costruirebbe una staccionata verso il mondo esterno e ci farebbe pensare solo alle corse. Per vederti soffrire si accostava con la macchina, ti guardava negli occhi e sorrideva. Rogozyan era un Pinochet che faceva credere di essere tuo amico per poi strangolarti nel momento in cui commettevi uno sbaglio. 
“Hai dormito bene stanotte?”  mi chiese mentre gli passavo la bici per metterla sul tetto dell'ammiraglia. 
“Seh.”
“Sono passato stamattina e non ti ho visto in camera tua.”
“Sono andato a fare una passeggiata.”
 
 
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Il ribelle -15- Hinault e lemond, un sogno che sta per avverarsi...

8/7/2019

 
Coors classic Il RibelleCoors classic, fonte wikipedia
Nel 1985 cadde il quarantesimo anniversario della vittoria nella seconda guerra mondiale sulla Germania nazista.  Per la prima e l'unica volta della sua storia la Corsa della Pace iniziava a Mosca.  Simbolicamente, e di proposito, la gara sarebbe finita a Berlino.   Era una sceneggiatura scritta per la squadra sovietica che avrebbe distrutto i tedeschi. Maggio 1945, la versione ciclistica.  
Sulla carta eravamo amici dei tedeschi.  Alleati del Patto di Varsavia, compagni comunisti e tutto quello che ne consegue.  In pratica, nessun nemico era più odiato da noi dei fascisti.  L'odio per i tedeschi era, ed è ancora, profondo nella psiche russa.  Quello che ci hanno fatto in guerra, nessuno lo dimenticherà mai.    Cresci imparando che vi sono dei mostri ad ovest del nostro confine.  Bestie che ci hanno attaccato senza preavviso nel 1941 e ucciso trenta milioni dei nostri uomini e donne.  Sorridiamo e ci diamo pacche sulle spalle a vicenda ora, senza rancore, a parte ordinarci di inseguirli.  Ci ordinano di dare loro un'altra lezione e di ricordargli di non venire qui se non in pace.  Chiamala Corsa della Pace.  Lascia che ci credano.
Kapitonov, per quella occasione, dovette costruire una squadra di ferro. Inserirono anche una crono-squadre a Mosca per assicurare la classifica a squadre all'URSS fin dalla prima tappa.  All'inizio della stagione mi dissero di tenermi fuori dalla lotta tra cani per la Corsa della Pace. Troppo giovane ed inesperto, non avrei avuto alcuna possibilità di essere selezionato. Mi concentrai, invece, ancora una volta, sulla crono-squadre. 
Chi era in lizza per la Corsa della Pace sarebbe andato a una serie di gare in Germania e Olanda.  Ho visto il mio nome sulla lista di chi sarebbe andato in Germania.  Tre giorni prima della partenza mi dissero che non sarei rimasto a casa.  Andarono in Germania e quindi in Inghilterra per la Milk Race senza di me.  Le prime due le ho mancate, ho pensato: va bene, non sono al mio massimo.  Il protocollo standard era di far maturare i giovani attraverso un programma di corse a tappe.  Nessuno mi spiegò perché ero stato escluso, quindi mi dissero di non preoccuparmi per i mondiali. Calmati, è solo la tua prima stagione ai massimi livelli, quello che mi dissero.
A metà estate arrivò un invito dalla Coors Classic, America.  I pezzi grossi erano impegnati a prepararsi per i mondiali in Italia e rimasero in Lituania ad allenarsi.  “Fai bagagli e preparati a gareggiare contro Bernard Hinault e Greg Lemond”, mi dissero, “che andrai negli Stati Uniti”.
La sera prima di partire, il presidente della Titan mi disse che mi avevano scambiato con un altro all'ultimo minuto.  Qualcosa non andava.  Chiamai Zyama, il nostro collegamento militare tra la Titan e l'esercito, per scoprire cosa stesse succedendo. 
“Il tuo passaporto è sospeso”, mi disse.  “Non lo hai saputo da me, capito?  Ma ho fatto delle ricerche, ho chiesto a dei contatti al dipartimento dei servizi segreti e ho saputo, beh… sei fottuto.  Hanno qualcosa su di te, non so cosa, ma sei fottuto.”
Non andare alla Coors Classic mi ha fatto perdere la voglia di correre.  Tutta questa storia del ciclismo, falla finita e vattene sbattendo la porta.  È iniziato tutto andando in giro per Kiev con Bodgan e ora questo.
Tutto bloccato. In gabbia.
Se vuoi uscirne, continua a bussare alle pareti.   Potresti trovare un buco dove passare.
In aprile, dopo la corsa a tappe di Sochi, volammo a Mosca per le prove della Corsa della Pace.  Le autorità avevano chiuso parti della città come se si trattasse della vera Corsa della Pace e noi ne avremmo corso in anteprima tutte le tappe.
Viktor Kapitonov aveva già scelto la squadra a Sochi, ma si era riservato di apportare modifiche. Uno o due candidati che speravano ancora di farcela ebbero un'ultima possibilità di dimostrare che meritavano un posto nella squadra per la Corsa della Pace.
Ad eccezione dei corridori selezionati, tutti i membri della squadra nazionale gareggiavano per le loro squadre societarie. Per me era la Titan.  Uno dei nostri ragazzi, Sergei Gavrilko, una eterna promessa per la Corsa della Pace, aveva la possibilità di essere selezionato in extremis.
Uno dei migliori corridori a tappe del Paese, aveva fallito anno dopo anno di far parte della squadra per la Corsa della Pace. Gli piaceva correre la sua corsa e non si preoccupava degli ordini di squadra.  Il suo atteggiamento da attaccante, e il suo carattere che non sia arrendeva mai, gli fecero guadagnare rispetto, ma il solo rispetto non poteva comprargli un biglietto per la Corsa della Pace. Ne avrebbe avuto per tutti, se solo qualcuno si fosse lamentato delle sue intemperanze in gara. La sua tattica non permetteva a Kapitonov di fidarsi di lui, uno che ballava da solo, per vincere la Corsa della Pace: un buon corridore con probabilità di farcela prossime allo zero.
Non che fosse egoista o avido.  A volte, la voglia di fare la sua gara era più forte del piano di gara di squadra.  Nessuno sapeva quando avrebbe avuto uno di questi giorni.
A Mosca il mio lavoro sarebbe stato tenere d'occhio le fughe e tamponare tutte quelle dove non c'era dentro Sergei Gavrilko. Chiamai Anton dall'Hotel Krylatskoye non appena feci il check-in.  Dopo aver conseguito la laurea in scienze due mesi prima era in città.  È ora di beccarci dopo il nostro viaggio a Sochi di otto mesi fa.
Il telefono squillò in una marea di drin prima che il “Pronto” familiare borbottasse all'altro capo della linea.  Raffigurandomi Leonid Brezhnev, il fu dittatore sovietico sotto cui siamo cresciuti, gli dissi: “È una flotta di torpediniere?” 
“Forse”, rispose stando al gioco.  “Non ne ho idea”. 
“Voglio parlare con il Maresciallo Ustinov”, proseguii. Ustinov, ministro della difesa e amico di Brezhnev erano morti.  Abbiamo riso.  Ridevamo sempre dei nostri stupidi scherzi.  
“Non sei a Mosca, vero?” disse.
Gli dissi che ero in città e avremmo potuto vederci questo pomeriggio, dopo aver completato alcuni giri di perlustrazione del circuito di Krylatskoye.
Cinque anni prima, allora eravamo due ragazzini di quattordici e sedici anni, avevano guardato la gara su strada delle Olimpiadi di Mosca a casa di mia sorella. Era l'unica persona che conoscevamo che possedesse un televisore a colori. Ci avrebbe lasciato guardare la diretta, se avessimo promesso di non svegliare il figlio appena nato.
Quello che è successo quel giorno sulla strada fa ora parte della leggenda del ciclismo su strada dell'era sovietica: Sergei Soukhoruchenkov distrusse il gruppo e conseguì una vittoria epica.
Ho sentito commenti su quanto fosse senza senso il circuito.  Costruito da un’ingegnera femminista, il suo scopo era quello di affliggere gli uomini il più possibile. Nel corso degli anni ha assunto uno status mitico perché nessun ciclista di alto livello vi ha più corso dalla fine dei Giochi.  Tutti avevano sentito che il circuito fosse senza senso, ma quanto male facesse, nessuno lo sapeva.
Ho messo le ruote da gara e sono andato a farci un giro.  Avevano tenuto il circuito chiuso al traffico per anni.  Un sottile strato di polvere e sabbia copriva la sua superficie.  Sono scivolato in una curva, ma sono rimasto in piedi.  Mi sono fermato e ho sgonfiato un po' le gomme e ho continuato la mia ricognizione.
Hanno costruito questa strada con in mente una rissa.  Tu contro tutti gli altri.  Tu contro la strada. Se avesse piovuto, come poi effettivamente accade, sarebbe diventata una pista di pattinaggio.  Sarebbe stato un buon risultato anche solo arrivare al traguardo tutto intero.
 

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